In questa lezione approfondiremo i punti indicati nella lezione scorsa. Anzitutto abbiamo visto che nella scansione narrativa di un film il “tempo reale” deve venire usato con molta parsimonia e se il rallentamento che ne consegue ha una sua funzione espressiva. Per esempio nella serie I Soprano, a volte il tempo reale viene usato per distaccarsi un momento dalla sequenza degli avvenimenti e offrire al pubblico, non solo e non tanto una pausa nella concitazione del racconto, ma un approfondimento psicologico sul personaggio che, ad esempio, quella pausa non sa godersela: i suoi gesti sono meccanici, la sua testa è altrove, c’è un disagio indefinibile nella sua solitudine ( e si può essere soli anche in compagnia). Anche qui si tratta in realtà di un tempo reale alterato, perché questo genere di scene durano pochi secondi, ma sembrano durare a lungo, perché il montaggio non stacca, la macchina da presa segue il movimento “naturale” del personaggio in piano sequenza, oppure resta fissa. Se stacca è per enfatizzare, con un primo piano, uno sguardo nel vuoto, una sorta di apnea emotiva. Per esempio, Tony Soprano in vestaglia sta guardando fuori dalla finestra. Non ci viene mostrato cosa sta guardando. Sarebbe inutile e anche sbagliato mostrare l’esterno perché Tony non sta guardando proprio niente. E’ questo che vogliamo sottolineare. Di queste scene, come di contrappunto all’azione, ma fondamentali, ce ne sono diverse nel già più volte citato Il Laureato. Più che di vero e proprio tempo reale, si può parlare di “tempo sospeso”. E’ un errore (in linea di massima) usare queste scene in senso descrittivo: per esempio per mostrare la vita quotidiana di un personaggio attraverso le sue minute operazioni. Vogliamo raccontare la noiosa ripetitività della vita di una casalinga? Beh, sarebbe sbagliato vedere la casalinga che rientra in casa, tira fuori la spesa, dispone nei vari scomparti quello che ha comprato, sceglie di cucinare qualcosa, comincia a preparare… tutto in tempo reale. Così annoieremmo anche il pubblico. Raccontare la noia non vuol dire raccontare in modo noioso. Se quello che ci interessa, narrativamente, è mostrare che la casalinga in questione soffre di questa sua condizione, come di un vuoto nel quale è sprofondata, allora è più efficace mostrare per stacchi il suo ripetitivo affaccendarsi e poi indugiare per qualche secondo, mentre l’acqua bolle sul fuoco, sulla protagonista seduta su una sedia con lo sguardo assente. Quando si scrivono queste scene in sceneggiatura, bisogna descrivere la situazione con grande sobrietà, concentrandosi sul senso emotivo della situazione. Stiamo parlando di scene quasi sempre mute, senza dialoghi. A volte, da sceneggiatori, può prenderci il dubbio che siano troppo statiche, troppo poco esplicite. Ci fidiamo poco degli attori. E se non riuscissero a renderne il senso? Così aggiungiamo qualcosa. La casalinga di prima accende la radio o la TV mentre continua le sue ripetitive operazioni in cucina. Oppure squilla il telefono. La cosa la scuote. Era solo qualcuno che aveva sbagliato numero. Delusione. Crediamo così di aver chiarito meglio la situazione, di aver offerto qualche maniglia di sicurezza all’attore facendo accadere delle cose. In realtà rischiamo di appesantire la scena e di perdere il suo nucleo espressivo. D’altro canto, molte scelte estetiche e di racconto, nel cinema si fanno per necessità. Il cinema non si fa sulla carta, è una cosa molto concreta. Chi scrive deve sapere in anticipo cosa si può permettere e cosa no. Quanti giorni di ripresa sono previsti? Quali sono le dimensioni della troupe? Gli attori, il regista, il direttore della fotografia saranno adeguati o dovremo fare di necessità virtù? Tutte queste cose bisogna saperle prima di mettersi a scrivere. Altrimenti sarà difficile scrivere anche una singola scena.

Prendo un altro esempio da un vecchio libretto che ho ritrovato , pubblicato nel 1959, quando ormai era già diffuso, con l’otto millimetri, il cinema amatoriale. All’epoca i ragazzi che si procuravano una piccola macchina da presa non si accontentavano più di usarla per immortalare matrimoni, nuove nascite, gite famigliari e scene varie di vita tra amici e parenti . Nasceva il film maker dilettante che già provava a girare dei piccoli film di pochi minuti, film in genere muti, perché pochi possedevano una camera con registratore e un proiettore sonoro. Questi piccoli film erano il più delle volte improvvisati, senza alcuna sceneggiatura. Manualetti come questo di Leopold Eugeen Vermeiren ,intitolato Brevi spunti e sceneggiature per i vostri film (Biblioteca del Cineamatore, Edizioni del Castello, Milano) si proponevano non solo di suggerire delle brevi sceneggiature, ma di mostrare praticamente come scriverle. Nel breve sketch filmato che ho scelto tra gli altri (alterandolo un pochino per stringere e per maggiore efficacia “didattica”) , si racconta l’attesa che precede un appuntamento galante.

- (PP) Interno di un salotto. Un orologio segna le cinque meno cinque. Accanto all’orologio sta una fotografia di Rosetta. Una mano la prende.
- (PP) Enrico , un tipo piuttosto corpulento, vestito molto bene come per un appuntamento galante, guarda teneramente la fotografia. Poi guarda l’orologio.
- (CL) Enrico va alla tavola apparecchiata a festa per due, sulla quale stanno bicchieri, vino e liquori. Nel mezzo c’è una grande torta.
- (CM) Con meticolosa cura, il tenore ritocca la decorazione della tavola e guarda di nuovo l’orologio.
- (PP) L’orologio segna le cinque meno due minuti.
- (CM) Enrico diventa po’ impaziente. Va alla finestra e guarda la strada.
- (PP) Un orologio alla parete segna le cinque precise.
- (CM) Enrico cammina nervosamente su e giù per la stanza. Guarda il suo orologio da polso, poi l’orologio da parete, poi di nuovo la fotografia di Rosetta.
- (PP) L’orologio segna alcuni minuti dopo le cinque.
- (PPP) La mano di Enrico tamburella nervosamente sul tavolo.
- (PP) Fuori dalla porta. Un dito preme il campanello.
- (PP) Nell’appartamento. Il volto di Enrico si rischiara felice.
- (CM) Enrico corre veloce alla porta.
- (PP) Appare oltre la soglia un ragazzo dell’Ufficio Telegrafico.
- (CM) Enrico , sconcertato, ritira un telegramma.
- (CM e PP) Di nuovo nel salotto. Enrico ha aperto il telegramma e lo sta leggendo. Lo abbassa, deluso e afflitto. Guarda verso la tavola imbandita.
- ( CM) La tavola imbandita.
- (CL) Enrico attraversa lentamente la stanza. Legge ancora una volta il telegramma. Si ferma di fronte alla fotografia.
- (PP) La mano di Enrico prende la fotografia di Rosetta e la gira verso la parete.
- (CM e PP) Enrico va alla tavola imbandita e si siede lentamente. Il suo sguardo vaga sulla tavola. Si versa un liquore. Poi prende un pezzo di torta.
- (PP) Enrico mangia la torta. Il suo sguardo è assente. Poi si concentra sulla torta. E’ buona.
- (PP) L’orologio segna le cinque e dieci minuti.
- (CL,CM, PP alternati) Enrico sta mangiando avidamente. Metà della torta se n’è già andata. L’espressione di Enrico è di intensa soddisfazione. Si è tolto la giacca e la cravatta, libero da ogni formalità. E continua ad abboffarsi.

In questa e altre scenette molto semplici, il primo scopo dell’autore del manualetto è insegnare come si scaletta una situazione, come si può scandire il tempo, e come alternare inquadrature molto semplici ( Primo Piano, Campo Medio,Campo Lungo) per dare un ritmo a una scena che in tempo reale risulterebbe noiosa. Come potete vedere, il tempo cinematografico non è tempo reale. Gli stacchi ci permettono la sintesi. L’insistenza sugli orologi segnala il passare dei minuti. Ma dieci minuti sono per il pubblico passati in pochi secondi. Ogni stacco ci ripresenta il protagonista in una situazione emotiva cambiata: da attesa fiduciosa ad attesa nervosa, da attesa delusa a delusione compensata. Abbiamo raccontato, senza bisogno di dialoghi, l’evoluzione degli stati d’animo del protagonista e anche il suo carattere: in fondo la sua vera passione è mangiare, della fidanzata poteva anche fare a meno.
Tuttavia questo è anche un tipico esempio di cosa fare quando non ci si può fidare degli attori, che nel caso di un film amatoriale non sono dei professionisti. In questo caso, staccare spesso e usare molti dettagli consente di evitare quei passaggi intermedi, da uno stato emotivo all’altro, che solo un attore esperto sarebbe in grado di esprimere. Se riprendiamo l’esempio fatto sopra a proposito della nostra scena della casalinga, difficilmente un attore dilettante saprebbe sintetizzare in un’unica posizione, in uno sguardo nel vuoto, lo stato d’animo del personaggio. In questo caso dunque, usare la telefonata permette una maggiore resa. Sarebbe velleitario cercare intensità espressiva in chi non può darla. Infine, riguardo all’uso abbastanza esasperato, nell’esempio di Enrico, dei primi piani, va osservato che al contrario di quanto si potrebbe pensare, il primo piano non è per un attore professionista il climax della sua performance. Un bravissimo regista di film western all’italiana ( Giulio Petroni) si trovò in Tepepa a girare con Orson Welles che interpretava nel film il ruolo del cattivo. Ora, nel cinema classico americano, i primi piani sono rari: vengono usati per particolari sottolineature, e in genere sono riservati ai protagonisti. Un bel primo piano, all’epoca, richiedeva anche una preparazione molto accurata delle luci . Il primo piano di una diva, destinato a fare di lei un’icona, poteva comportare anche una giornata intera di preparazione. Non era cosa da sbrigare al volo. Era un ritratto. Welles restò dunque stupito dalla quantità di primi piani girati alla svelta da Petroni , primi e primissimi piani per di più riservati spesso a semplici comparse e a figuranti. Ne chiese il motivo: “Perché tutti questi primi piani?” E Petroni osservò giustamente: “Il primo piano drammatizza. Anche un attore cane sembra un bravo attore.” L’abuso dei primi piani che si fa nelle novelas televisive non è soltanto dovuto ad ovvi motivi di dimensione dello schermo, ma anche al fatto che stringendo sulle facce, anche un attore poco espressivo risulta efficace.

Ora analizzeremo invece un altro caso. Un caso dove ci si può fidare degli attori (e del regista). Una scena che non può certo venire definita come di pausa o d’attesa e nemmeno come semplice approfondimento della psicologia del personaggio. Una scena molto complessa, tratta dalla Dolce Vita di Fellini. E’ la famosa scena finale. Sulla spiaggia c’è un mostruoso pesce morto che desta la curiosità di tutti. Ciascuno ha la sua reazione: stupore, indifferenza, divertimento, persino tenerezza. E il protagonista? Gli sceneggiatori scrivono:

- Marcello non sa staccare il suo sguardo da quello del pesce. Si direbbe che lo guardi come un messaggio da decifrare, giunto a conclusione di una nottata vuota e persa, o forse a conclusione di tutto.

Saggiamente, gli sceneggiatori ( Fellini, Flaiano, Pinelli, Rondi) non fanno esprimere verbalmente questo sentimento dal protagonista. Gli altri personaggi lo hanno fatto. Lui no. Non perché Marcello sia dipinto come un antisociale o un introverso. Ma perché Marcello stesso non ha parole per definire la sua emozione di fronte all’indecifrabile sguardo/messaggio del pesce. Sarebbe stata una pacchianata se Marcello avesse mormorato: è la fine di una nottata vuota, la fine di tutto… ( e quante pacchianate del genere si fanno nei film, soprattutto quando si vogliono sottolineare a tutti i costi i significati presunti “alti”!) Proseguiamo.

- Marcello si allontana di qualche passo. E’ sempre più nauseato, stanco, forse oppresso da oscuri presentimenti, da un’angoscia accumulata e che ora sembra stia toccando il fondo. Qualcosa però lo distrae…

- Sono piccole, dolci figure femminili apparse sulla spiaggia, dalla pineta. Si direbbero bambine. Esse si avvicinano al mare, tranquille, sicure, allegre,come sono le ragazze quando stanno in compagnia.

- Come sollevato da quella vista, Marcello le osserva attento, attratto, quasi già con un lieve sorriso sulle labbra. Si sentono le loro voci gaie e un po’ sciocche.

- Marcello, che aguzza lo sguardo come se ne riconoscesse una, getta via la sigaretta e va loro incontro con le mani in tasca.

-Sono di fronte.

- Marcello le sta a guardare con un mezzo sorriso. Tutte lo sorpassano occhieggiando e sorridendo, tranne una. Resta ferma davanti a Marcello: è timidissima, eppure lo guarda diritta negli occhi, educata e sicura.

Com’è stata narrata fin qui la scena in sceneggiatura? I tempi sono scanditi sui passaggi emotivi del protagonista rispetto a ciò che vede. Le definizioni di questi stati d’animo sono chiare eppure , se ci fate caso, sono molti i “forse” , i “sembra” , i “quasi” . Ciò definisce anche lo stile della rappresentazione: si vuole esprimere qualcosa di sottile, di indeterminato, qualcosa che non si è ancora fissato nella mente del protagonista e che tanto meno deve venire impresso nella mente del pubblico. Tanto sono inequivocabili nei loro giochi le ragazzine, tanto è, per contrasto, smarrito il protagonista . E di questo smarrimento noi spettatori dobbiamo essere partecipi. Tutto ciò può essere espresso perfettamente in un tempo “sospeso” e con una scena muta. Non bisogna avere paura delle scene mute. Sono cinema, come e spesso più delle scene fittamente dialogate. I problemi per la sceneggiatura iniziano infatti da qui. Da quando i due (Marcello e la ragazza) si parlano.

MARCELLO: Tu… come ti chiami?
PAOLA( stupita, ma lievissimamente, come se egli già lo dovesse sapere) : Paola !
MARCELLO: Ma noi… mi pare…ci conosciamo…

Paola accenna di sì, più volte, molto decisa, con la testa, con un sorriso tra trionfante e impacciato.

MARCELLO: Sai … che non mi viene in mente…
PAOLA: Lavoravo a Tor Vaianica… portavo da mangiare alla signora…
MARCELLO ( con allegra sorpresa) : Ah, sì… adesso mi ricordo: Paola…

Tutti e due sono stranamente lieti dell’incontro: c’è qualcosa di profondamente gioioso nella loro espressione.

MARCELLO: E cosa fai qui?
PAOLA (con naturalezza): Lavoro.
( ma si sente obbligata a precisare)
Qui alla Pensione Amalfi…
( e furbescamente nella sua assoluta ingenuità)
Si guadagna di più!
Paola ha un sorriso.
(Con un guizzo)
Adesso io e le mie compagne siamo venute a farci un bagno…

Guarda impaziente, infantile, allegra,verso le sue compagne, che tirandosi su le sottane, alcune, altre in costume, stanno bagnandosi le gambe poco più in là.
Si vede che ha molta voglia di raggiungerle, di stare con loro, di divertirsi con loro.

Marcello però ha ancora qualcosa, non sa nemmeno lui cosa, da dirle. Vorrebbe trattenerla.

MARCELLO: Aspetta…hai visto cosa hanno pescato? Vieni a vedere…

Priva di vero interesse per la cosa, ma incapace di dire no all’uomo, Paola lo segue verso il gruppo dei pescatori.

Il gruppo si è frattanto diradato. Gli amici di Marcello si stanno allontanando dall’altra parte, lungo la spiaggia. E alcuni pescatori sono già chini ad arrotolare le reti, al loro lavoro quotidiano.

Il pesce è ancora lì, sotto il sole. Ma ormai è superato: è un povero pescione morto.

Anche il suo occhio è come spento, forse perché camminandogli accanto, qualcuno gli ha fatto cadere sopra un po’ di sabbia.

MARCELLO: Vedi?

Paola guarda un momento il pesce : poi – benché sempre gentile e sorridente – alza lievemente le spalle come a mostrare che di quella bestia le importa poco.

PAOLA: E’ un pesce.

E, con un guizzo improvviso, corre verso le sue compagne. La sua corsa è un po’ esagerata ed è piena di una dolce goffaggine infantile. Correndo si volta un attimo verso Marcello , come per scusarsi, con inconscia crudeltà.

PAOLA: Addio!

Rimasto lì accanto al pesce, Marcello è incerto: non sa se seguirla, chiamarla…

MARCELLO (a voce quasi bassa): Paola!

Ma Paola corre, corre verso le sue compagne. A un certo punto si ferma, si toglie le scarpe, e continua a correre scalza.

Marcello si muove lentamente, andandole dietro. Essa è già laggiù, nella luce freschissima della mattina, che entra in acqua, raggiungendo le sue amichette. Si sentono le loro voci,le loro lunghe risate un po’ scioccherelle che non finiscono mai.

Marcello è preso da una profonda , inesplicabile commozione: ma non sa nemmeno lui se è per dolore o per gioia, per disperazione o speranza.

Così raggiunge il punto dove Paola ha lasciato le sue scarpe. Egli si china e le tocca; poi le prende in mano.

Sono delle povere, graziose scarpine da poche lire, un po’ scalcagnate.

La commozione di Marcello è struggente.

Guarda laggiù, nel mare fermo e luminoso, le ragazzette che impazzano felici misteriose messaggere di una nuova vita.

Così termina il film. Che la scena sia ben scritta non c’è dubbio. Eppure… guardatevi il film. La scena non c’è più. O meglio è stata radicalmente cambiata. Così descrive il cambiamento l’aiuto regista di Fellini Giancarlo Romani:

Il finale è il cambiamento più importante. Marcello, stanco e svuotato, si stacca dal gruppetto intorno al pesce e va a sedere sulla sabbia poco lontano. A questo punto Paola, che sta giocando con altre bambine oltre la foce di un piccolo fiume, lo vede e lo chiama. Marcello non la riconosce e il rumore del mare gli impedisce di sentire quello che lei gli grida. Così i due sulle due rive del fiume, si guardano a lungo sorridendo e cercando di capirsi con la mimica. (…) Finché la pittrice tedesca si stacca dal gruppo degli amici e prende Marcello per mano riconducendolo tra loro.

( Questo testo, come il testo della sceneggiatura, sono stati tratti dal libro La Dolce Vita, a cura di Tullio Kezich, Cappelli Editore 1959).

Insomma: da una scena molto parlata, con un lungo dialogo, a una scena muta e simbolicamente molto più efficace: i due sono separati da un fiumiciattolo, non possono raggiungersi, non riescono a sentirsi, vorrebbero comunicare, ma è impossibile. Non solo per il rumore del mare: sono troppo diversi. Quella allegra ingenuità, per Marcello è seducente, ma inattingibile. Una sua amica lo riporta nel gruppo.

Non si torna più sul pesce, ormai è veramente passato, non è più importante. La ripetizione sarebbe stata troppo voluta, forzata. Non c’è più la commozione, un po’ troppo patetica e retorica, di Marcello. Tutta la scena viene concentrata su un unico momento simbolico: Marcello non potrà mai ritrovare l’innocenza. Non ha neppure il tempo per rifletterci, per dolersene. E’ un fatto. Viene portato via e lui si lascia trascinare. Non può andare altrove.

Cosa se ne può dedurre? I dialoghi possono a volte spiegare troppo e così presumendo, aggiungere, divagare, allontanarsi dal centro espressivo, dire cose che non servono a niente ( lavoro alla pensione Amalfi), e venire sottolineati/contrappuntati troppo didascalicamente da immagini simboliche inequivocabili: il pesce non stupisce più nessuno, è un povero pescione morto; le scarpine di Paola raccolte da Marcello, trascinano metafore (ingenuità=povertà=semplicità); la commozione di Marcello comporta una presa di coscienza un tantino tardiva e ipocrita, una piangina da paradiso perduto che certo si attaglia poco al personaggio finora descritto e pare quasi una concessione a quel moralismo che il film di per sé rigetta. Se l’innocenza dev’essere “nuova innocenza”, qualcosa di indefinibile che sorge , allora non deve essere spiegata ricorrendo al passato, non può essere rimpianta. La speranza non sta in un ritorno agli antichi valori smarriti.

Di nuovo, il segreto è la sintesi. Bisogna stare molto attenti a non voler dire troppe cose, perché si rischia di sommergere l’unica che conta veramente. E’ la situazione di per sé che dev’essere esemplare. Se la si spiega troppo, la sua magia sfugge. Basta lasciar parlare le immagini. C’è un detto popolare che recita: “ A furia di togliere foglie da un carciofo alla fine non resta niente.” Carmelo Bene giustamente rovesciò il detto: “ A furia di togliere qualcosa resta.” Il lavoro del cinema è questo: giungere all’essenziale, fosse pure questo essenziale l’inafferrabilità di una visione. Certo non si può chiedere a uno sceneggiatore esordiente di pervenire subito a questo risultato. Ma fin dal principio è bene tenere in mente che per scrivere un buona sceneggiatura, bisogna imparare a togliere, a sottrarre. Non dovete dimostrare di saper scrivere tanto, ma di saper scrivere quello che conta, di centrare sempre il focus espressivo. Date un ritmo, un divenire alla scena. Non cercate di simulare il tempo reale, trovate il tempo giusto di quella scena. Non è indispensabile raccontarla inquadratura per inquadratura. Lo stile americano ( cui si ispirava il manualetto di Vermeiren sopra citato) è molto utile per conferire un ritmo al racconto e per farvi familiarizzare con la dinamica della “narrazione per immagini”. Lo stile classico italiano (come si può vedere dalla sceneggiatura di Fellini) è ricco di indicazioni per gli attori e di sfumature letterarie, molto attento nel precisare il senso di una scena, più libero nel non-suggerire inquadrature, ma d’altra parte ha anch’esso bisogno di tempi e scansioni precise, non può diventare (come purtroppo sta diventando da anni) un puro canovaccio. Il senso che volete dare alla scena e ai suoi singoli momenti dev’essere molto chiaro sulla carta. Può anche essere sbagliato, si potrà revisionare con una riflessione successiva. Ma è bene che sia preciso. Se il tracciato è chiaro, sarà chiaro anche nei suoi inciampi. Si presterà ad essere discusso e migliorato, anzi stimolerà gli attori e il regista in questa direzione. Se è indeterminato e vago produrrà sbagli molto più gravi, frutto dell’improvvisazione del momento, sbagli o passi falsi che poi non si potranno più correggere.


ESERCIZIO- In molti dei contributi e delle prove di sceneggiatura che mi giungono da voi, risulta evidente una scarsa attenzione all’immagine, tanto che basta leggere i dialoghi per capire la storia. Ma un film non è una sequenza di dialoghi . Il cinema nasce in assenza di dialoghi. Provate a riprendere in mano quello che avete scritto e pensate per un momento d’essere tornati all’epoca del muto. Fate in modo che siamo le immagini e quello che accade (o non accade) a raccontare la storia. Provate a narrare la stessa scena senza il dialogo.

La prossima lezione sarà dedicata ai dialoghi ed esamineremo cos’è un dialogo cinematografico e in cosa si differenzi dal dialogo scritto di un romanzo o dai dialoghi e/o pensieri di un fumetto.

9° Lezione di Gianfranco Manfredi  by www.gianfrancomanfredi.com