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"BAARÌA" APRE LA 6ª MOSTRA DI VENEZIA. PARLA IL REGISTA GIUSEPPE TORNATORE
C'ERA UNA VOLTA IN SICILIA
Un secolo di storia nel racconto di una famiglia del paese. Un budget mai visto. «Ma non chiamatelo kolossal».

Tre anni di lavoro, dal giorno in cui riemerse da un cassetto la prima bozza del soggetto. Sei mesi di riprese, intervallati da lunghe pause per problemi meteorologici e organizzativi. Due set principali, uno allestito a Bagheria, presso Palermo, e l’altro a Ben Arous, località a una ventina di chilometri da Tunisi, dov’è stato ricostruito l’antico aspetto del paese siciliano (con il lavoro di 350 carpentieri). Tra professionisti e non, 210 gli attori. Per le scene di massa, 35 mila comparse. E poi 1.500 animali di scena, 2.800 costumi, 1.431 musicisti, 27 temi musicali composti da Ennio Morricone, 300 mila metri di pellicola ridotti a due ore e mezza di film in un anno di lavoro in sala di montaggio. Due edizioni, una in dialetto siculo con sottotitoli e l’altra in italiano.

Bastano i numeri a spiegare lo sforzo produttivo e perciò l’enorme attesa per Baarìa - La porta del vento, pellicola con cui Giuseppe Tornatore è stato chiamato a inaugurare la 66ª Mostra del cinema di Venezia, onore che da vent’anni non toccava a un titolo italiano. Ma c’è di più, molto di più. Perché il regista siciliano che ha vinto l’Oscar nel 1990 col suo secondo film, Nuovo Cinema Paradiso, e ha avuto l’abilità di farsi scoprire da un grande produttore come Franco Cristaldi, è da sempre artista che divide e fa discutere, amato od osteggiato. Uno dei pochi cineasti italiani conosciuti oggi nel mondo i cui film sappiano conquistare pubblico all’estero. 

«Siamo in Italia. E a Venezia lo sport più praticato è quello di sparare a zero sui film italiani», dice Tornatore. «Ma io sono in pace con me stesso, so di aver fatto Baarìa con impegno, senza risparmio. È pur vero che mai mi era capitato di mandare a un festival un film appena finito: è come partorire un figlio e mandarlo subito a fare il servizio militare».

  • Paura di un salto nel buio?

«Alla Mostra del cinema esistono tre tipologie di spettatori: quelli a cui sto simpatico e vedono ogni mio lavoro con atteggiamento affettuoso; quelli che guardano senza preconcetti e solo dopo giudicano; poi c’è la fazione di coloro i quali, prima ancora di mettere piede in sala, già sanno che odieranno un mio film. Io posso soltanto sperare che i primi due partiti prevalgano sul terzo. Quest’anno, però, è già successo di peggio».

  • A che cosa si riferisce?

«Al dilagare di uno strano sport, nato attorno al budget di Baarìa. A me dispiace che gli incidenti capitati durante la lavorazione, i ripetuti problemi meteorologici, le difficoltà impreviste, abbiano fatto lievitare il budget fino a 20 milioni di euro. È stata la mia impresa più complicata, più ancora de La leggenda del pianista sull’oceano. Ma nessun atto di superbia, né voglia di dilapidare denaro. I soldi spesi si vedono tutti. E non è vero che il mio sia il film più costoso della storia del cinema italiano. Basta attualizzare le cifre spese per certi grossi film dell’epoca d’oro. Invece c’è chi, senza cognizione di causa, spara numeri. Tanto per alzare la tensione attorno alla pellicola, esasperando le aspettative. Addirittura, prima del galà a Venezia, ho sentito parlare di 30 milioni di euro! Il costo del film sta lievitando proporzionalmente all’antipatia nei miei confronti. Uno sport che non mi piace. Non penso faccia bene al nostro cinema».

  • Ma è vero che lei non avrebbe voluto girare questo film. Almeno non ora?

«La verità è che mi sono sempre portato appresso una montagna di immagini e di personaggi della natìa Sicilia, solo alcuni dei quali finiti in altri miei film. Mi dicevo che sarebbe stato bello farci un’altra pellicola, però solo dopo i 60 anni, con un certo distacco. Invece, ho commesso l’errore di parlarne con i produttori di Medusa. Mi hanno detto: "Facciamolo ora". È stato come cancellare un alibi. Dopo Nuovo Cinema Paradiso, L’uomo delle stelle e Malèna, ho chiuso un’involontaria quadrilogia. Adesso, mi pare di aver distillato tutte quelle cose che sentivo dentro di me e che avevano diritto di essere raccontate».

  • Come definirebbe Baarìa?

«La sola etichetta che m’infastidisce è kolossal. C’è chi parla di storia corale, chi di affresco d’epoca o di commedia all’italiana... Io parlerei di una commedia epica. Ci sono l’amore, l’amicizia, il tradimento. Una storia a tratti seria, a tratti divertente. La vena ironica è stata rafforzata dal lavoro degli attori sul set, capaci di far ridere ma anche di far riflettere su certi aspetti della vita nel nostro Paese. Insomma, il tentativo di narrare la storia con la "s" minuscola facendo sentire l’eco di quella con la "S" maiuscola».

  • Il film è centrato sulle travagliate vicende di una famiglia di Bagherìa (Baarìa in siculo) dagli anni ’30 ai ’70, con prologo a inizio Novecento ed epilogo ai giorni nostri.

«Quasi un secolo di storia italica per narrare un amore, ma far anche riflettere su che cosa sia cambiato nel nostro Paese. Spesso in peggio».

  • Per esempio?

«La concezione stessa della politica. Un tempo vissuta come emancipazione, speranza di un futuro migliore per sé stessi e per i propri figli. Oggi, invece, ridotta a ricettacolo di vizi pubblici e privati, coacervo d’interessi egoistici e di odii primordiali».

Protagonista è Francesco Scianna, alias Peppino, semisconosciuto alla grande platea ma attore strepitoso. Al suo fianco l’esordiente Margareth Madè, nei panni della moglie Mannina. Attorno a loro una pletora di personaggi affidati ad attori di vaglia: da Angela Molina a Lina Sastri, da Lo Cascio a Michele Placido, da Beppe Fiorello a Ficarra e Picone, da Salemme a Raoul Bova, da Monica Bellucci alla Finocchiaro. Ciascuno ruba la scena all’altro, in un gioco a incastri.

  • Nessuna defezione?

«Rosario Fiorello ha dovuto rinunciare. In cambio Aldo, senza Giovanni e Giacomo, fa per la prima volta un personaggio cattivissimo».

  • Perché ha girato in dialetto? Hanno ragione i leghisti?

«I dialetti, tutti, sono la ricchezza della nostra cultura popolare. Ma vanno insegnati per unire, ritrovare le radici comuni. Non per dividere».


di Maurizio Turrioni

da Famiglia Cristiana