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Federico Fellini Suso Cecchi dAmico e Luchino Visconti 1970Chiunque abbia un po’ di passione per il cinema italiano sa bene che dal Dopoguerra a metà anni Settanta c’è stato come un allineamento di pianeti che ha fatto sì che tutto filasse per il verso giusto. Non che dopo quel periodo non ci siano stati altri registi, sceneggiatori e attori meritevoli di aver portato la nostra tradizione cinematografica a vette molto alte, ma la fertilità di questa frangia di tempo è davvero unica e per il momento non ha avuto eguali. Non si trattava infatti solo di uno splendore settoriale, ma di una vera e propria miscela culturale che aveva luogo a Roma, città che all’epoca era ben lontana dall’essere chiamata in causa dal resto d’Italia quasi esclusivamente come esempio di disastro urbano. In via Veneto, la famosa strada de La dolce vita, intesa non solo come titolo del film più famoso di Federico Fellini ma come vero e proprio modus vivendi, c’erano diversi luoghi di aggregazione per cineasti, attori, scrittori, giornalisti, intellettuali, musicisti. La vita del bar, quella di posti come Rosati, era la base su cui cresceva florida la creatività di generazioni che hanno fatto sì che l’Italia diventasse un modello culturale da imitare e seguire per il resto dell’Occidente.

Ennio Flaiano, Pier Paolo Pasolini, Alberto Arbasino, Vitaliano Brancati, Mario Pannunzio, Ercole Patti, Sandro De Feo, Alberto Moravia sono nomi che oggi popolano il firmamento della storia del Novecento e che un tempo passavano mattinate, pomeriggi e nottate intere seduti al  bar a dare vita proprio a quello che oggi celebriamo come il nostro orgoglio e tesoro nazionale. Erano tanti suso-cecchi-damico-e-luchino-visconti.pnguomini, più e meno giovani, al massimo qualche attrice – le mogli non erano certo ben viste in questa atmosfera godereccia – ma tra loro c’era anche una donna che ha contribuito a dare vita a questo pezzo di storia non come accompagnatrice né come decorazione ma come parte attiva e fondativa. Suso Cecchi D’Amico, la più grande sceneggiatrice di Cinecittà, è la donna che ha scritto proprio quei film senza i quali oggi il nostro cinema non avrebbe il peso che ha nella storia.

Si sa che la famiglia gioca un ruolo fondamentale nella biografia di ognuno, e nel caso di Suso, nata a Roma nel 1914, il contesto in cui è cresciuta è stato determinante per fare sì che non seguisse il destino piuttosto noioso di molte donne di quegli anni. Già a partire dalla storia del suo nome, che non era davvero Suso ma Giovanna, si capisce che tipo di ambiente la circondasse: il padre, Emilio Cecchi – critico letterario, anglista e giornalista tra i più importanti del Novecento, a cui per dirne una si attribuisce il merito di aver portato Joyce in Italia – non voleva che si pensasse che aveva chiamato le figlie Susanna e Giuditta in onore delle omonime sorelle Shakespeare, progenie di William. Così Susanna diventò Giovanna, e Giovanna in famiglia diventa Suso, il nome con cui la sceneggiatrice firmò tutti i suoi lavori. La madre di Suso non era da meno. Leonetta Pieraccini era infatti scrittrice e pittrice, ritrattista piuttosto acclamata in quegli anni. Nel fermento di una famiglia che si trovava al centro dell’attività culturale capitolina, Suso Cecchi studiò al liceo francese ma senza troppo entusiasmo. La prima vera passione della futura sceneggiatrice fu sulle orme del padre: la letteratura inglese. Andò così a studiare a Cambridge, cosa che le consentì di diventare traduttrice – sotto l’ala paterna – di bellissimi romanzi come ad esempio Jude l’oscuro di Thomas Hardy. Se poi una famiglia dedicata alla letteratura, alla scrittura, alla pittura e a praticamente qualsiasi forma d’arte (Suso studiò anche musica) non era abbastanza, si aggiunse anche il matrimonio con un altro membro attivo della scena culturale italiana di quegli anni, Fedele D’Amico, musicologo figlio del famoso critico e teorico teatrale Silvio.

Una vita completamente immersa negli ambienti culturali più stimolanti del Ventesimo Secolo, una casa costruita su libri e quadri: Suso Cecchi D’Amico è la sintesi perfetta di tutto ciò che c’era di interessante negli anni d’oro italiani. E il fatto che fosse donna, nonostante i tre figli da crescere e la malattia del marito che la lasciò sola per curarsi dalla tubercolosi dopo la guerra – aiutata anche dall’ambiente da cui proveniva: l’estrazione borghese, sebbene il periodo di ristrettezza economica della sua famiglia, di certo l’ha aiutata in questo senso – non diventò mai un ostacolo per la crescita professionale dell’autrice che anzi, si ritagliò un ruolo di spicco in un ambiente prettamente maschile – oltre che maschilista. Il suo stretto contatto con la letteratura e con il mondo letterario di quegli anni è infatti fondamentale per il suo ingresso nel cinema, che avviene attraverso la sceneggiatura di un film mai girato – Avatar, tratto da un racconto di Théophile Gautier – scritta però insieme agli amici Moravia, Flaiano e Castellani, e prodotto da Carlo Ponti: il gruppo si riunisce per completare la stesura del film, ma arrivati a un certo punto si rendono conto che non ne vale la pena. Eppure, nonostante il primo approccio abbastanza fallimentare, Suso Cecchi D’Amico continua a scrivere per il cinema, lavorando con il regista Luigi Zampa e trovandosi a conoscere un’altra donna fondamentale per la storia cinematografica italiana, che diventerà sua grande amica, Anna Magnani. Gli anni Quaranta, dunque, fanno da trampolino di lancio per una carriera che determinerà non soltanto il successo personale del talento della sceneggiatrice “signora di Cinecittà”, ma anche la costruzione di un mito, quello del cinema italiano, che senza il suo lavoro non sarebbe stato lo stesso.

Negli anni che seguono, infatti, Suso comincia a lavorare con i registi più importanti dell’epoca, continuando a riadattare per il cinema grandi opere di letteratura, sia italiana che straniera: la compenetrazione tra le due forme testuali, lo sanno bene tutti gli spettatori da “Ma il libro è meglio”, non è affatto un lavoro semplice. La sceneggiatrice romana però, trova delle soluzioni narrative che rendono possibile l’adattamento di opere importanti e ingombranti, riuscendo in certi casi anche a migliorarle: per Visconti, ad esempio, con il quale suggella un sodalizio artistico durato decenni, scrive Senso, tratto da un racconto di Boito. Il racconto in sé non è uno dei migliori che lo scrittore abbia realizzato, ma Suso riesce ad arricchirlo, togliendo cose inutili e aggiungendo altre scene di suo pugno. Un’operazione di taglia e cuci che solo una grande conoscitrice della letteratura e dei suoi meccanismi poteva azzardarsi a prendere. Dopo questo successo Suso Cecchi D’Amico lavorerà con Visconti anche a un altro riadattamento che ha fatto sia la storia della letteratura che del cinema. Nel 1963 esce infatti Il Gattopardo, il lungometraggio tratto dal libro di Tomasi di Lampedusa, che probabilmente si può considerare uno dei romanzi meglio rappresentati in forma cinematografica. Il finale viene tagliato lasciando spazio alla scena conclusiva, quella più famosa e simbolica del film in cui Claudia Cardinale balla con Burt Lancaster, omettendo un dettaglio fondamentale – la morte del principe Salina – che invece viene affidata a questa danza finale metaforica in cui vecchio e nuovo si salutano per darsi il cambio.

Con Visconti Suso Cecchi D’Amico girerà molti altri film, spesso adattamenti di romanzi come Lo straniero – tratto dal libro di Camus – o Rocco e i suoi fratelli, che scrive collaborando con Vasco Pratolini. Forse il più bello però rimane Bellissima, del 1951,  sviluppato da un soggetto di Cesare Zavattini, sceneggiato poi da Visconti stesso, Suso e Francesco Rosi – con il quale lavorò per pellicole come Salvatore Giuliano, del 1962. Il film parla di una madre, Anna Magnani, che spera in un salto sociale che potrebbe avvenire se solo sua figlia di cinque anni venisse presa per un film di Alessandro Blasetti. Una storia straziante e ancora attuale che racconta una situazione tuttora perfettamente comprensibile: niente di così diverso dalla condizione di una madre speranzosa e disperata che crede che quelle audizioni di XFactor cambieranno per sempre la vita della propria famiglia garantendo un futuro lontano dalla povertà.

Con Zavattini, oltre a sceneggiare questo soggetto, Suso scrisse anche un’altra opera che è diventata una delle colonne portanti della cinematografia italiana, Ladri di biciclette, film simbolo del neorealismo italiano nel quale anche in questo caso, così come per Il Gattopardo, la sceneggiatrice cambiò il finale, rendendolo ancora più memorabile. Negli ultimi minuti del film, infatti, il protagonista prova a rubare a sua volta una bici pur di ricominciare a lavorare, compiendo un gesto che lo porterà da vittima a colpevole, vessato dalla gente attorno: un’idea geniale e straziante per concludere una delle storie più drammatiche che siano mai state messe in scena nel nostro cinema.

Come se non bastassero gli adattamenti impeccabili di grandi romanzi e racconti e le sceneggiature di capolavori del neorealismo, Suso Cecchi D’Amico lavorò anche  al film che diede inizio alla stagione della commedia all’italiana. Nel 1958 infatti scrisse insieme alla coppia storica Age e Scarpelli I soliti ignoti, diretto da Mario Monicelli, con cui cui collaborò per molti altri film del regista, simbolo di un genere che ha segnato gran parte del nostro cinema. Casanova ‘70Le fateBoccaccio ‘70 (in cui scrive gli episodi sia di Visconti che di Monicelli), Speriamo che sia femminaBertoldo, Bertoldino e CacasennoParenti Serpenti: Monicelli e Suso Cecchi D’Amico collaborarono fino al 2006, quando il regista girò il suo ultimo film, Le rose del deserto. Ma alla sceneggiatrice italiana più famosa nel mondo – tanto da venire chiamata da Martin Scorsese per il suo documentario sul suo rapporto con il nostro cinema del 1999, Il mio viaggio in Italia – dobbiamo anche un altro merito, ossia quello di aver avuto l’intuito di mettere insieme Marcello Mastroianni e Sophia Loren per la prima volta, nel film del 1954 Peccato che sia una canaglia di Alessandro Blasetti. Suso, che aveva visto l’attrice camminare per Cinecittà, intuendone subito il potenziale artistico ed estetico, pensò bene di accoppiarla a un altro attore, che di lì a poco sarebbe diventato un’icona, per un film tratto da un racconto di Moravia (“Il fanatico”), in cui i due giovani interpreti prossimi a trasformarsi nei sex symbol per eccellenza del cinema italiano lavorarono a fianco di Vittorio De Sica.

Ripensando a questa fase della nostra storia, non è chiaro se il punto è che tutti questi artisti fossero concentrati in quel momento o se fosse il momento stesso a determinare una grandissima esplosione culturale per il nostro Paese. Che le due cose si influenzarono a vicenda penso sia ovvio; come si possa fare per rivivere delle condizioni simili invece è un mistero. Sta di fatto però che donne come Suso Cecchi D’Amico hanno contribuito con il loro talento a rendere questo periodo così unico, in un momento della storia in cui sì, c’era grande fertilità artistica, ma allo stesso tempo non era certo allineata con i discorsi sulla parità. Riuscire a diventare un’icona del cinema e della scrittura per una donna era doppiamente difficile che per un uomo, ma la bravura di questa sceneggiatrice è stata proprio quella di andare oltre qualsiasi confine di genere che prevedeva che le femmine fossero tuttalpiù madri e casalinghe – come racconta Suso stessa nella sua biografia, spiegando che la sua famiglia molto borghese probabilmente l’avrebbe preferita meno espansiva verso il mondo attorno. A conti fatti, Suso Cecchi D’Amico è uno dei motivi per cui ancora oggi il cinema italiano di quegli anni rimane una delle cose migliori che questo Paese abbia mai fatto. E che questo sia stato possibile anche grazie a una donna come lei dovrebbe renderci ancora più orgogliosi, basta non dimenticarlo.

 (articolo di ALICE OLIVERI  da https://thevision.com  del  11 OTTOBRE 2019 )

Riepilogando:
A scorrere l’elenco dei film ai quali ha collaborato (oltre 100 in sessant’anni di carriera) non c’è regista italiano, salvo Fellini, con il quale non abbia lavorato: da Alessandro Blasetti (Fabiola) a Mario Camerini (Due mogli sono troppe), da Alberto Lattuada (Il delitto di Giovanni Episcopo) a Luigi Zampa (L’onorevole Angelina), da Luigi Comencini (Proibito rubare) a Michelangelo Antonioni (I vinti), da Renato Castellani ad Antonio Pietrangeli (Il sole negli occhi), da Francesco Rosi (I magliari) a Franco Zeffirelli (Fratello sole, sorella luna), da Valerio Zurlini (Un’estate violenta) a Francesco Maselli (Gli indifferenti), da Augusto Genina (Cielo sulla palude) a René Clement (Le mura di Malapaga), per ricordare solo qualche nome e pochi titoli alla rinfusa. E sempre a ripercorrere le tappe della sua carriera, ci s’imbatte in film entrati a far parte dell’immaginario collettivo come Vacanze romane di William Wyler, determinante nella creazione di due miti, quello della Roma del secondo dopoguerra, prima della Dolce vita, e quello di Audrey Hepburn, o pietre miliari della storia del cinema europeo come Ladri di biciclette di Vittorio De Sica: si deve a Suso Cecchi d’Amico il finale con il tentativo di furto della bicicletta, il momento più drammatico e intenso del film (paragonabile solo alla scena di Roma città aperta della corsa di ‘Nannarella’ falciata dalla raffica di mitra). Ma la frequentazione più assidua l’ebbe con Mario Monicelli per il  quale scrisse innumerevoli sceneggiature (da I soliti ignoti Sperando che sia femmina, per citarne solo un paio), che nel 2006 la richiamò in servizio per Le rose del deserto, e con Luchino Visconti, per il quale, a partire da Bellissima per finire con l’ultimo film, L’innocente, non smise mai di lavorare, restandogli vicino nel momento difficile della malattia.

..... e se volete l'elenco della sua filmografia, eccolo: