L’arco di trasformazione è il percorso che porta un personaggio a cambiare nel corso di una vicenda, affrontando nuove sfide, adattandosi agli eventi e infine vincendo. Un percorso vittorioso grazie all’acquisizione di una visione diversa dei fatti rispetto a quella, fallimentare, che aveva all’inizio della storia.

Il testo di riferimento da studiare per capire bene l’arco di trasformazione, a meno che non ti bastino le mie spiegazioni sintetiche, è L’Arco di Trasformazione del Personaggio di Dara Marks, pubblicato in Italia da Dino Audino Editore.

Io consiglio sempre di non accontentarsi delle mie spiegazioni e di leggerlo, di andare all’origine dei concetti che spiego, perché è ricco di esempi e ragionamenti. Non sono sempre d’accordo con quello che dice e nella mia analisi del film Arma Letale (presente online, come già indicato nell’introduzione) ho sottolineato la mia diversa interpretazione di alcuni dettagli tecnici rispetto a quella della Marks, ma è una grande lettura.

Lo stesso discorso vale per tutti i testi che troverai consigliati in fondo a questo manuale. Comprali, studiali e leggili. Nel mio Corso Avanzato troverai il “di più”: le connessioni ulteriori tra la teoria presente nei diversi saggi, le sintesi ragionate dei concetti e le mie aggiunte originali di teoria.

L’arco di trasformazione è il modello narrativo più diffuso, elegante e naturale, facile da seguire per il pubblico, ed è letteralmente il modo con cui l’umanità si è tramandata tramite le storie il concetto di “sopravvivenza del più adatto”, ben prima che questo concetto venisse descritto esplicitamente da Herbert Spencer nel 1864.

Abbiamo già visto le basi di una buona storia nei precedenti capitoli dedicati a che cosa sia una storia, all’importanza del difetto fatale di un personaggio, e al ruolo del conflitto e di come mai debba essere sempre maggiore, causando sofferenze a mano a mano peggiori al protagonista.

 

Immagine tratta dal saggio “L’Arco di Trasformazione del Personaggio” di Dara Marks, Dino Audino Editore. Leggetelo!

L’immagine dell’arco di trasformazione richiama un monte su cui il personaggio deve salire, con fatica, col fiatone, i muscoli in fiamme e maledicendo ogni passo, e arrivato in cima alla scalata può tirare il fiato e capire che aveva benissimo le forze per farcela: doveva solo impegnarsi e trovare dentro di sé la volontà di trionfare. Ora sa di che pasta è fatto per davvero!

Adesso lo aspetta la discesa dal monte, con la consapevolezza di aver avuto già la forza per salire, di essere quindi migliore di quanto pensasse di essere prima della scalata: la discesa è faticosa, ma grazie alla nuova fiducia che il personaggio ha in sé stesso ora si sente in grado di farcela, anche se il percorso è perfino più difficile di prima… e la sfida arriverà al suo apice, al massimo del pericolo, col terzo atto.

Dara Marks è l’esperta di analisi delle storie che ha reso ancora più famoso il modello dell’arco del personaggio, grazie all’ope­ra L’Arco di Trasformazione del Personaggio, ma non ha inventato lei il modello.

Questo modo di strutturare le storie affonda le sue radici nei tradizionali tre atti del modello aristotelico, come lo fanno pure gli insegnamenti di Lajos Egri, di Syd Field, di Robert McKee e di altri ancora, tanto che modello “aristotelico”, “classico” o “restaurativo” sono tutti sinonimi dell’arco di trasformazione e si possono usare benissimo come nomi per indicare il modello spiegato dalla Marks.

Un modello efficiente e naturale che ritroviamo nelle migliori opere di Shakespeare. Il modo con cui gli uomini per millenni si sono raccontati storie, come mostrato da Joseph Campbell col monomito descritto nel capitolo precedente.

La Marks ha saputo spiegare questo modello in un modo chiaro ed elegante, e di conseguenza più comprensibile e facile da applicare rispetto ad altri autori famosi. Per questo, dovendo consigliare un singolo libro con cui partire, consiglio sempre il suo perché fornisce già tutti gli strumenti nel dettaglio per realizzare molti tipi di storie… e lo si può usare per scrivere anche tutta la vita, se non si vuole andare oltre con la teoria.

A cosa serve avere un modello ben spiegato se questo è un tipo di storia che viene naturale realizzare agli umani, in diversi millenni e continenti? Semplice: per prima cosa a evitare gli errori, perché per quanto “naturale” è un modello che viene assorbito per apprendimento, non è che ci siano dei manuali di sceneggiatura dentro al DNA.

Studiare invece che andare alla cieca permette risultati molto migliori. In più è comodo per fornire una guida che favorisca la creatività insegnandoci come indirizzarla in modo utile: la creatività ben stimolata lavora meglio di quella lasciata a sé stessa.

Disporre di un procedimento per ragionare sulla propria storia permette di trasformare le semplici intuizioni in qualcosa di più preciso, più coerente, senza uscire di strada mischiando cose che non c’entrano.

Per esempio applicando il procedimento con precisione è possibile ottenere quell’eleganza e coerenza di contenuti che ha emozionato il pubblico ne L’Attimo Fuggente ed evitare quell’incoerenza che ha portato a molte discussioni nel comunque bello (ma poteva essere spettacolare) Million Dollar Baby o nella piacevole, ma dal finale molto debole, commedia romantica All’Inseguimento della Pietra Verde.

Dall’interno all’esterno

Come abbiamo visto in precedenza, una storia nella sua essenza si basa su una crisi che sconvolge la normalità, porta a lottare per ottenere qualcosa (e per non perdere qualcos’altro) e obbliga a cambiare per adattarsi ai nuovi eventi e per sconfiggere le opposizioni che impediscono la vittoria.

Recuperando il mio esempio del ristoratore:

  • [Normalità] Il protagonista ha un lavoro d’ufficio in cui viene poco valorizzato.
  • [Crisi] Viene licenziato e deve reinventarsi sul mercato del lavoro, facendo qualcos’altro.
  • [Desiderio] Vuole realizzare il sogno di aprire una pizzeria.
  • [Opposizione] [Conflitto] Parte del vicinato non acconsente che il locale ottenga una licenza per vendere alcolici, per cui la pizzeria non potrà sopravvivere.
  • [Cambiamento] Forse trova la fiducia in sé stesso e nelle proprie idee originali che gli mancava, e arriva a sviluppare un’idea geniale per non avere problemi per l’assenza di alcol: un ristorante-pizzeria vegetariano con annessa sede di un’asso­ciazione culturale salutista e accordi di promozione reciproca con un centro benessere.

Questa storia, come avevamo visto in precedenza, si basa sul difetto del personaggio: il personaggio non ha fiducia in sé stesso e nelle proprie idee originali, per questo cerca sempre la soluzione più ovvia e banale, quella seguita da tutti. Magari lo fa perché ha visto troppi colleghi nella sua agenzia pubblicitaria finire male per aver rischiato con qualcosa di innovativo, e la paura di perdere il lavoro lo ha portato a non “voler vedere” invece i tanti colleghi che con le idee nuove hanno avuto successo e lo hanno superato nella carriera.

Terrorizzato dal correre rischi per paura di venire licenziato, è diventato una pedina sacrificabile e ha perso il posto. Il suo sistema di sopravvivenza ha smesso di funzionareha smesso di proteggerlo dal licenziamento.

Ricorda il discorso che avevamo fatto su come non ci sia nulla che abbia in sé valore se non per il modo in cui viene interiorizzato. La vicenda del personaggio ha valore per l’effetto che ha su di lui, e la storia nasce come conflitto alimentato dall’imper­fezione del personaggio, muovendosi così dall’interno del personaggio per divenire azioni all’esterno.

Mettiamo in scena il suo problema mostrando come il suo difetto influisce sulla sua vita e sulle persone che gli sono vicine. Un difetto è tale perché porta ad azioni sbagliate.

Nel modello classico esistono due tipi di storie:

  • quelle in cui l’eroe attraverso un percorso di cambiamento riesce a divenire più adatto alla vittoria e trionfa, divenendo un esempio per noi;
  • e quelle in cui l’eroe fallisce il proprio percorso di cambiamento, viene sconfitto e diviene un ammonimento per il pubblico.

Entrambi i tipi di storie hanno un contenuto che risuona con noi perché ci insegnano qualcosa sulla vita come “sopravvivenza del più adatto”, qualcosa che l’u­ma­­nità ha dovuto imparare con molto dolore nel corso di centinaia di migliaia di anni.

E che, volendo o meno, viviamo tutti nelle nostre vite: forse non tutti quelli che decidono di cambiare la propria posizione e saltare via dalla rotaia quando il treno arriva a folle velocità sopravvivranno, ma di sicuro gran parte di quelli che prenderanno la locomotiva in fronte a 100 km/h, pur di non cambiare, finiranno molto male.

Il secondo tipo di storia, le tragedie che ci ammoniscono sui pericoli dell’evitare il cambiamento o sul cambiare nel modo sbagliato, hanno prodotto alcune delle più belle storie di sempre. Pensate a Macbeth e a Quei Bravi Ragazzi. Sulle tragedie, in particolare quelle moderne, tornerò nel secondo modulo del Corso Avanzato.

Tre conflitti, una Storia sola

Un metodo molto semplice per garantire che il proprio personaggio principale suoni tridimensionale è che sia sviluppato secondo tre dimensioni conflittuali, ovvero strettamente legate alla storia e che vediamo in azione.

  • Conflitto esterno: la storia vera e propria;
  • Conflitto interno: la sua lotta interiore per cambiare;
  • Conflitto di relazione: come il suo problema influisce sugli altri e questo gli impedisce di trionfare nella storia.

Se una persona ha un difetto, questo difetto è definito dal suo causare un problema: se essere “egoisti” permette di vincere in un mondo di stronzi approfittatori, non è un difetto. Nessuna caratteristica è in sé un difetto sempre e comunque, dipende dalla storia, dal contesto in cui il personaggio opera.

Quindi se un personaggio ha una dimensione interna non più in equilibrio, un conflitto internoquesto è tale proprio perché nel mondo esterno impedisce di conseguire i risultati desiderati. Ma ci importerebbe davvero di una persona il cui difetto è chiuso dentro una campana di vetro e colpisce solo lui?

Il difetto del personaggio è interessante perché ha un effetto sugli altri, come ogni altra caratteristica degna di nota del personaggio… ed essendo il difetto un problema, ha un effetto problematico sugli altri.

Così come il difetto impedisce al protagonista di vincere sull’anta­gonista nel rapportarsi con lui (conflitto esterno), così impedisce anche di ottenere aiuto o comunque di sapersi relazionare correttamente con quelli che non sono nemici: amici, parenti, colleghi, potenziali alleati… chiunque possa essere utile poi per trionfare sul nemico.

Non necessariamente in modo “diretto”: anche capire che bisogna fare da soli, senza dare retta a persone che ci sottovalutano o ci fanno del male nel tentativo di proteggerci, e isolarsi dagli altri per proseguire in solitaria, è una possibile soluzione del conflitto di relazione.

Dipende dalla storia: nel romanzo Caligo Barbara Ann deve imparare a fare da sola, smettendola di fidarsi delle persone sbagliate. Talvolta serve l’aiuto altrui, altre volte serve che gli altri smettano di mettere i bastoni tra le ruote.

Se un tizio è avaro, al fine di una storia ci interessa la sua avarizia perché lo mette nei guai: ma se è avaro, ti pare possibile che questo non avrà alcun effetto nelle sue relazioni? Se compra al suo nipotino per il compleanno una confezione di matite invece di un videogioco appena uscito, il nipotino sarà felice? Probabilmente no.

Se per l’anniversario ha illuso la fidanzata che finalmente la porterà in un bel ristorante e che lì le chiederà di sposarlo, non pensate che la loro relazione avrà un problema quando la porterà in un McDonald e lì le dirà che non crede nel matrimonio perché sono tutte spese inutili e che si sta così bene continuando a vivere come adesso, ché tanto è l’amore che conta davvero, e non l’anello con la cerimonia? Sembra la formula del disastro con la sua (presto ex) compagna.

In certe storie il conflitto di relazione è interamente contenuto nel rapporto tra due soli personaggi: in Arma Letale i due poliziotti devono imparare a comprendersi a vicenda, in modo da trovare nell’esempio reciproco quel che manca nelle proprie vite (sono complementari), e grazie a questo equilibrio ritrovato ognuno dei due può dare il meglio di sé nel lavorare con l’altro e così sconfiggere i narcotrafficanti.

L’azione esterna è mossa dall’interno del personaggio: dal difetto, dalla caratteristica che non funziona più nella vita del personaggio e che bisognerà cambiare. Dal­l’in­terno all’esterno, la regola chiave di una buona storia tridimensionale.

Il conflitto interno e il conflitto esterno sono le due “sottotrame” della storia principale (subplot, usando i termini originali): ma non sono “sottotrame” nel senso di trame secondarie, trame aggiuntive, ma nel senso di fondamenta, di ciò che si trova sotto la storia esterna e ne regge lo svolgimento dando solidità e tridimensionalità a una storia altrimenti piatta, poco coinvolgente umanamente e priva di reale profondità. Tre conflitti, una sola storia: l’eleganza unita allo sviluppo tridimensionale.

Ricorda ciò che Aristotele diceva dell’unità della storia: se una sottotrama non fa parte del tutto, perché non riguarda ciò di cui la storia parla né a livello interiore, né esterno, né di relazione, come può essere “parte” della storia?

Possono essere scene interessanti o carine, ma se non fanno parte della storia vanno tolte dalla storia. I buoni film e i romanzi davvero ben fatti sono pieni di scene ottime per “altre storie”, e non per loro, che sono state tagliate e che magari sono finite, dopo un rimaneggiamento, in un’opera successiva dello stesso autore.

Breve riassunto del concetto chiave visto nelle pagine precedenti, prima di proseguire. La tridimensionalità del protagonista non nasce dall’ammassare dettagli a caso o dal farlo comportare secondo manierismi, come capita spesso ai personaggi degli anime/manga (talvolta fino a ridurli a vuote maschere), che nulla hanno a che fare con il suo difetto fatale o con il tema della storia.

Il nostro personaggio non diventa tridimensionale perché facciamo sapere al lettore qual è il suo sport preferito, o cosa mangia a colazione o che musica ascoltava da ragazzo… va bene avere dettagli, ma la quantità non fa la qualità. Anzi, tanti direbbero che “di meno è di più”!

Ciò che è importante davvero è ciò che genera conflitto, quindi i dettagli utili sono quelli che aiutano a generare un conflitto coerente in tutti gli aspetti della vita: esteriore, interiore e di relazione. Il personaggio diventa tridimensionale perché il suo difetto si esprime in tre dimensioni conflittuali legate alla sua personalità.

Tutto chiaro fino a qui?

di Marco Carrara per agenziaduca.it