♥ Tutto sulla Tecnica
Articolo di Alessio Billi del 19 ottobre 2016 per colpidiscena.blogspot.com
Da High Flying Bird di Steven Soderbergh a Tangerine di Sean Baker, sono diversi i produttori cinematografici che hanno deciso di avventurarsi nella realizzazione di un film o semplice cortometraggio, sfruttando esclusivamente il sensore fotografico degli iPhone. Infatti, che sia un modello appena lanciato o già in commercio da alcuni anni, la qualità dei filmati girati con il melafonino è piuttosto elevata e, se associata ad alcuni accessori esterni come pannelli luminosi e microfoni, potrebbe farci ottenere risultati piuttosto soddisfacenti.
«La prima volta che ho preso in mano una telecamera avevo 16 anni mentre oggi anche i giovanissimi se la trovano “in tasca”. Senza togliere nulla alle camere e produzioni tradizionali, per i filmmaker indie l’iPhone diventa la possibilità di sperimentare con le inquadrature, di rendere le produzione più snelle ed economiche e persino liberare il cast di elementi di scena che potrebbero distrarli dalla performance» spiega Giovanni Labadessa, produttore cinematografico e co-founder del Nòt Film Fest affiancato da Alizé Latini e Noemi Bruschi: un festival dedicato al cinema indipendente internazionale oramai giunto alla quarta edizione. «Due icone indie hanno scelto la videocamera del loro smartphone per girare tre dei loro film. È il caso di Unsane e High Flying Bird di Steven Soderbergh oppure Tangerine di Sean Baker. Questo ci mostra concretamente quanto quell’idea possa garantire qualità. Ovviamente però, tutto questo funziona solo se applicato a un idea di estetica cinematografica e una visione registica affine a questo nuovo formato. Infine, l’iPhone permette a giovanissimi di avere a disposizione uno strumento potentissimo per crescere come produttori di film: sono quindi curioso di vedere cosa si prospetta per il cinema del futuro» conclude Labadessa.
Sul tema, inoltre, è Lorenzo Follari, regista e sceneggiatore italiano che vive e lavora a Stoccolma e co-fondatore della società di produzione Harvest Film AB a commentare: «Un iPhone è solo la camera: l’ultima cosa a cui pensare se si vuol fare un buon prodotto. Può sembrare strano ma quando si gira un film o un cortometraggio la camera è solo lo strumento di cattura dell’immagine. Quello che è importante è tutto ciò che gli si pone davanti. Da questo punto di vista, dunque, una camera vale l’altra e in un momento in cui la tecnologia va così veloce anche lo smartphone diventa dunque un valido strumento di ripresa - con i suoi pregi ma anche con i suoi limiti. Un normale smartphone permette a chiunque di cimentarsi come filmmaker, e questo è forse ciò che di più importante ci sia. Girare con il proprio telefono in buona qualità permette a chiunque abbia una buona idea di realizzare un prodotto, di sperimentare sul set e di essere creativo, senza bisogno di costi stratosferici. La tecnologia rende dunque il cinema, il fare cinema, aperto a tutti. Le idee contano, non l’attrezzatura».
Pertanto, se vi piace l'idea di realizzare un buon film utilizzando il melafonino, l'impresa non sarebbe poi così impossibile ma senza dubbio è necessario prendere in considerazione alcuni accorgimenti per catturare le scene in modo corretto. Esistono, infatti, alcune applicazioni - come FiLMiC Pro - che ci permettono di settare la videocamera dell'iPhone come una normale camera o reflex, regolando i parametri in maniera analitica a seconda del risultato che vogliamo ottenere, così come app e servizi utili per la fase di pre-produzione o strumenti per catturare l'audio in modo corretto: «Per realizzare un ottimo film utilizzando solamente il proprio iPhone, è fondamentale per prima cosa prestare molta attenzione al suono da catturare nel momento in cui filmiamo una scena. Gli adattatori del microfono e i microfoni multipli che registrano il suono separatamente sono strumenti fondamentali per aiutarci in questo e permetterci quindi di ottenere un perfetto audio per il nostro film» ci spiega Peter Baxter, regista e produttore inglese oltre che fondatore dello Slamdance Film Festival - un'alternativa indipendente al Sundance Film Festival - e conclude «Una cosa molto importante da segnalare sul tema è che filmare con un iPhone abbassa l'inibizione degli attori esordienti e non professionisti, permettendo al regista di catturare i momenti significativi in ogni modo possibile!».
Quindi, quale opportunità migliore per produrre un film anche senza possedere attrezzature costosissime? Nella gallery potrete scoprire 6 consigli di Lorenzo Follari per girare un film con iPhone nel modo migliore.
Utilizza un'app professionale
Per le riprese, una buona applicazione da utilizzare è FiLMiC Pro: un'applicazione di produzione di film incredibilmente avanzata per iOS e Android che permette di sfruttare al massimo il proprio dispositivo trasformandolo in una videocamera professionale. Tra i vari benefici, offre maggior controllo sulla fotocamera del telefono, consentendo la modifica manuale dell'esposizione, ISO, velocità dell'otturatore, messa a fuoco e zoom. Filmic Pro, ad esempio, è stata utilizzata da Steven Soderbergh per realizzare High Flying Bird. Foto di PhotoMIX Company da Pexels
Imposta i parametri manuali
A seconda dell’app che utilizziamo è importante imparare a settare le impostazioni in maniera manuale e non automatica, come se stessimo utilizzando una videocamera professionale o reflex. In questo modo potremo sperimentare al massimo senza affidarci alle impostazioni automatiche già proposte dal telefono che purtroppo non ci fanno esprimere a pieno la nostra creatività.
Fai attenzione al suono
Il suono è tanto importante quanto le immagini, pertanto quando giriamo un video con iPhone ricordiamoci di utilizzare le app e strumenti esterni che ci permettono una presa perfetta dell'audio, così che la qualità di quest’ultimo rispecchi quella del video
I tool di pre-produzione
L’aiuto regia, insieme a tutto il reparto di produzione, ha a disposizione un infinito numero di app per organizzare le riprese in modo professionale ma anche rapido e immediato. Un regista o un direttore della fotografia può avere il viewfinder in un app - per decidere magari quale lente sia più adatta ad una determinata inquadratura. Un gaffer, invece, può controllare con SunSeeker dove si trova il sole a qualunque momento del giorno e in qualsiasi location, così da calibrare le riprese esterne utilizzando al meglio la luce naturale oppure una segretaria di edizione avrà le sue note sullo smatphone - o iPad di solito - grazie ad una comoda applicazione.
La post-produzione
Ci sono varie app che ci possono aiutare ad eseguire la post-produzione come Adobe Premiere Rush, una versione lite di Premiere Pro disponibile per i dispositivi iOS gratuitamente. Grazie alle funzioni offerte, i registi possono scattare, modificare e condividere i loro video in un unico dispositivo, aprendo i file Rush direttamente in Premiere. La timeline, inoltre, è molto intuitiva e consente agli utenti di organizzare video, audio, grafica e foto, regolare l'audio, migliorare il colore, aggiungere titoli, transizioni o addirittura voci fuori campo.
Sfrutta i servizi in cloud
È una buona idea organizzare il lavoro in maniera più facile e veloce utilizzando un'app dedicata anziché la carta: in questo modo la condivisione sarà istantanea e tutte le modifiche verrranno comunicate in tempo reale a tutti. Per troupe di 40-50 o più persone, avere tutti i documenti aggiornati dal vivo in un cloud è ormai indispensabile!
ARTICOLO di
Le seguenti indicazioni sono valide sia per i video realizzati con apparecchiature amatoriali, sia quelli prodotti da apparecchiature di tipo professionale. Si tenga conto, comunque, che è solo la continuità con cui viene utilizzata la strumentazione tecnica a garantire la produzione di un filmato di qualità via via migliore.
Ecco le regole da seguire:
# Focalizzare in precedenza lo sviluppo della storia, stendendo a tavolino uno story-board. Insieme allo story-board conviene fare un elenco di materiali che servirà per le riprese, luci, microfoni, camera e cavalletto, etc.
# Registrare per circa un minuto una base di nero, ponendo il tappo davanti l’obbiettivo.
# Quando la telecamera lo consente, fare sempre il bilanciamento del bianco in manuale sul filtro esatto a secondo delle condizioni di luce: 3200° Kelvin con luce artificiale e quando si riprende al tramonto o all’alba, 5500° Kelvin con luce solare. Se si effettua una ripresa al sole o all’ombra, la temperatura colore cambia, in questo caso bisogna avere l’accortezza di fare di volta in volta il bilanciamento del bianco con la luce ottimale di ripresa, poiché le due situazioni hanno differenti e marginali dominanti di colore. Sulla neve o nelle giornate di sole estivo, intorno al mezzogiorno, molte volte bisogna inserire un filtro ND che riduce sensibilmente la luce che arriva in macchina. Nelle nuove camere digitali il bianco si può selezionare tra vari preset: luce artificiale, sole, nuvole etc., nella funzione manuale si riesce ad ottenere un bianco giusto ricordandosi che il foglietto bianco, la parete o qualsiasi oggetto bianco deve essere illuminato correttamente dalla sorgente di luce presente nell’ambiente, per sapere se è stato accettato dalla macchina, tenendo premuto il tasto del bianco manuale deve smettere di lampeggiare il simbolo che appare nel view-finder.
# Premuto il tasto di registrazione posto sulla telecamera, prima di iniziare a registrare immagini in movimento occorre rimanere fermi per almeno 2 secondi in caso di montaggio in macchina, almeno 5 secondi in caso di post-produzione (montaggio ottenuto con due videoregistratori). Su immagini fisse bisogna aumentare, sempre a seconda del tipo di montaggio, rispettivamente 2 o 5 secondi il tempo di registrazione. Questo serve per precauzione nel primo caso, in quanto le camere poste in commercio iniziano a registrare circa un secondo dopo che la spia rossa si illumini o che compaia la parola REC nel view-finder della telecamera e nel secondo caso per avere un segnale sincronizzato, non avere dei fastidiosi sganci su un immagine iniziale e non avere l’immagine in movimento tagliata.
# Se si ha il tempo necessario, provare il movimento di partenza e di arrivo prima di registrare una scena.
# Controllare sempre il fuoco prima di riprendere il soggetto tenendo presente quanto segue:
A- se il soggetto e la camera, durante la ripresa, non sono in movimento, il fuoco viene ottenuto zoomando vicino (tele), mettendo successivamente a fuoco il centro dell’immagine riprodotta nel view-finder e infine allargando fino ad ottenere l’inquadratura desiderata.
B- Se il soggetto o la camera sono in movimento, fare il fuoco ottimale correggendo morbidamente.
C- Naturalmente le nuove camere in commercio hanno l’autofocus, ma per alcune scene conviene sempre, se la camera lo permette, usare il fuoco in manuale.
# Avere possibilmente un appoggio stabile, (cavalletto) o bilanciare bene la camera se la ripresa viene effettuata a spalla, tenendo le gambe divaricate a circa 45° (non oltre la larghezza delle spalle) con il peso del corpo perfettamente in centro. Controllare sempre nel view-finder la linea dell’orizzonte.
# Quando il tipo della ripresa lo consente, non registrare più di 20 secondi di immagini panoramiche e 10 secondi di primi piani d’ascolto.
# Non tornare indietro su un movimento effettuato. Ad esempio su una panoramica a destra non tornare subito a sinistra, su uno zoom da totale a primo piano non tornare a totale. Questa regola si può ignorare durante un’intervista, però bisogna avere l’accortezza di aspettare almeno 50 secondi o di più prima di riallargare o stringere, questo perché poi in fase di montaggio si può intervenire.
# Mantenere un taglio il più possibile fotografico nelle inquadrature.
# Tenere la persona intervistata in asse con l’ottica della camera, cioè non più bassa o non più alta.
# Se possibile garantirsi di una buona illuminazione.
# Evitare, quando è possibile e quando lo story-board non lo prevede le immagini in controluce ( forte illuminazione alle spalle del soggetto, per es. le finestre).
# Curare anche la ripresa audio usando appropriati microfoni ausiliari se la camera lo permette (mic. In o aux. In).
# Nel caso di registratori con due piste audio separate - mono canale 1 (CH 1), canale 2 (CH 2) - bisogna tenere sempre l’audio originale su CH 2 e la musica o il commento (voce fuori campo) su CH 1. Sulle nuove camere digitali bisogna registrare in funzione 12 Bit.
# Per evitare di tagliare le immagini e l’audio all’inizio di un’intervista, ricordarsi che l’intervistatore deve contare mentalmente tre secondi prima di iniziare a parlare dopo il via.
# Corredare sempre, quando i mezzi lo consentono, il filmato con un titolo di presentazione e con musiche adeguate alla ripresa. In un filmato senza interviste, oltre al commento sonoro sarà necessario inserire anche un commento parlato per alleggerire la visione del filmato.
# Avendo la possibilità di montare su computer, alcuni programmi permettono di inserire delle barre colore e una nota musicale, in genere di 1000 Hertz, in questo caso si procede con circa un minuto di barre con la nota, circa 20 secondi di nero e se ci fosse la possibilità il counter animato che da 7 secondi porta a zero, questo serve a tarare eventuali apparecchiature in fase di messa in onda (in caso di televisioni), di taratura di apparecchi televisivi in caso di videoproiezioni e in ultimo per dare una coda iniziale per preservare il filmato in caso di nastro rovinato accidentalmente.
# Non eccedere nella lunghezza del filmato, perché un documentario o un’intervista lunga provoca noia e disinteresse negli utenti finali.
# Nel montaggio di un’intervista alternare i brani parlati con immagini inerenti all’argomento trattato, registrate sul luogo o prelevate dal proprio archivio video o fotografico.
# Nel montaggio alternare sempre delle immagini in movimento a delle immagini fisse e non montare mai in sequenza delle immagini che abbiano la stessa inquadratura (in gergo: stacco in asse), lo stesso movimento (per es.: panoramica a sinistra con panoramica a sinistra o a destra), immagini di gruppo poste sullo stesso asse o aventi lo stesso taglio di inquadratura.
# Non esagerare con gli effetti nelle riprese o nel montaggio, per es. uso di filtri particolari, posizioni strane di ripresa, effetti speciali ottenuti con appositi mixer video, generatori di effetti speciali o montati su computer.
da dreamvideo.it
Le luci offrono una gamma enorme di scelte, per tipi e dimensioni, di conseguenza esistono svariate modalità di utilizzo della luce nella scena.
Luce disponibile
Questa è la luce che si può trovare in qualsiasi luogo ed ha fonti naturali: luce del sole, lampade fluorescenti, incandescenti od alogene, una semplice candela o un fuoco di un camino; sono esempi in cui queste possono interagire differentemente in un ambiente.
Luce dura e Luce morbida
Viene definita dura quella luce che è diretta, che crea così un contrasto netto tra l'oggetto inquadrato e le sue ombre. Viene utilizzata, in genere, per una definizione marcata di superfici e quindi, per le sue caratteristiche, aumenta l'illuminazione globale dell'oggetto.
L'illuminazione naturale dei raggi solari è un esempio di luce dura.
In contrapposizione alla luce dura vi è la luce diffusa, o morbida, che sfuma ed ammorbidisce i contrasti di ombre. Viene utilizzata per smorzare i i toni decisi della luce dura; inoltre può essere utilizzata per bilanciare l'insieme dell'illuminazione generale di una scena.
La luce del sole durante le giornate nuvolose è un esempio classico di luce morbida.
Un esempio di luce dura è quella che si crea utilizzando un faretto montato sopra la telecamera. Infatti, la luce del faretto è unidirezionale, e viene proiettata in modo diretto sul soggetto creando appunto un contrasto netto tra luce e l'ombra.
Se interponiamo un filtro diffusore tra la luce ed il soggetto, questa si trasformerà in luce morbida.
Un altro sistema per ottenere una luce diffusa consiste nell'utilizzare un riflettore, come possono essere, ad esempio, un cartellone bianco od un ombrello diffusore.
La luce chiave (Key Light)
Cosiddetta perchè è la luce principale che illumina il soggetto.
È frequente che ci si riferisca ad essa chiamandola, in gergo tecnico, "chiave" così come quando si dice "utilizziamo la luce solare come chiave".
In effetti è la fonte di luce più forte e viene posizionata generalmente di lato rispetto alla telecamera.
Essendo abbastanza intensa viene usata spesso come sorgente di luce diretta.
Luce di riempimento (Fill Light)
Questa luce si usa per diffondere la luce sul soggetto ottenendo un risultato di morbidezza che attenua le ombre decise e nette create dalla luce-chiave.
La luce di riempimento è solitamente posizionata dall'altro lato della telecamera rispetto alla luce-chiave e di norma ha una potenza minore rispetto alla luce principale (chiave).
Luce posteriore (Back Light)
Viene utilizzata per illuminare la parte posteriore del soggetto in modo da "staccare" il soggetto dallo sfondo e quindi dare maggior realismo alla scena.
Questa luce, di solito, è posizionata esattamente dalla parte opposta della luce principale (chiave).
Articolo da dreamvideo.it
"Lavorare con la luce è dipingere con la cinepresa." - Eisenstein
"La luce può eliminare alcune cose, può sottolinearne altre, può modificare l'aspetto delle une e delle altre." - Pudovkin
Qual'è lo scopo principale dell'illuminazione? Garantire che il soggetto sia illuminato a sufficienza affinché sia assicurata una visione nitida dello stesso nel video.
Ma non solo, l'illuminazione ha una grande importanza anche per la composizione dell'inquadratura. Per ogni situazione, per ogni concetto, per ogni idea che si vuole esprimere, esiste un'illuminazione adatta.
Una illuminazione sbagliata può sminuire la bellezza di una scena e annullare o modificare l'interpretazione di un attore.
Modellare luci ed ombre comporta una conoscenza tecnica molto approfondita, che ogni direttore della fotografia dovrebbe avere.
Si parte con la cosiddetta luce disponibile ossia quella luminosità che è presente normalmente in ogni luogo: quando ci si appresta a girare delle scene in esterni, che sia di primo mattino o di pomeriggio, la luce naturale è già sufficiente ad assicurare una buona riuscita della ripresa, ma, nonostante questo, la maggior parte delle volte è necessario ricorrere a luci artificiali.
Quando si parla di luce sufficiente, si intende che il soggetto inquadrato sia "nitido" anche nei dettagli. Attenzione a non credere troppo all'esposimentro della telecamera, il quale può dare valori non sempre corretti, per esempio se abbiamo il soggetto davanti ad un grande muro bianco, l'esposimetro vede una gran quantità di luce riflessa dal muro e segnala che la luce è sufficiente quando, invece, il soggetto è buio perchè la luce incidente è poca.
Un'altro aspetto dell'illuminazione è la possibilità di nascondere o evidenziare alcuni elementi che vengono ritenuti importanti durante la ripresa.
Utilizzo della luce naturale, che entra da un pozzo, per evidenziare lo speleologo.
Utilizzo di una luce "spot" per evidenziare il vino che viene versato nel bicchiere.
Con la luce si può:
* attirare l'attenzione su una zona precisa dell'inquadratura;
* evidenziare o nascondere dettagli e forme;
* dare maggiore o minore spazialità ad oggetti e ambienti;
* creare atmosfere;
* creare stati d'animo;
* evidenziare i contorni rispetto alle superfici;
* evidenziare le superfici rispetto ai contorni;
* alterare e creare colori.
La luce è uno strumento creativo e la sua scelta è molto importante nella realizzazione di un video.
È importante sottolineare la differenza sostanziale tra l'occhio umano e la telecamera: sono differenti i modi e le capacità di cogliere i dettagli e le sfumature degli oggetti scuri e chiari e il contrasto fra questi.
Le telecamere professionali riescono ad assicurare risultati buoni anche nelle condizioni di illuminazione peggiore (o particolari), ma sono molto costose.
Le telecamere di medio livello, e certi modelli in particolare, sono state migliorate e sono più accessibili come prezzo. Sono sempre da preferire i modelli con 3 CCD.
Tecnicamente il problema principale sta nel fatto che le telecamere, hanno un intervallo tonale più ristretto rispetto all'occhio umano; questo significa che è basso il rapporto tra l'oggetto più scuro e quello più chiaro in cui si possono cogliere bene i dettagli.
Se l'occhio umano ha un intervallo tonale che va da 10 a 1, una telecamera può soltanto gestire un intervallo tonale che va da 2 a 1, per questo motivo non può riprodurre le zone più chiare e quelle più scure di una scena.
Articolo da dreamvideo.it
Da Datavideo, ecco un sistema semplice ed economico per realizzare un perfetto Chroma Key. Semplice perchè non richiede grandi spazi; economico perchè non richiede tanta luce aggiunta. Il sistema Datavideo si basa su un telo riflettente speciale, di colore grigio che, illuminato dalla luce dell'anello illuminatore (che si applica all'ottica della macchina da presa), assume le "classiche" colorazioni verde o blu (uno switcher consente di passare da un colore all'altro, a seconda delle esigenze fotografiche e produttive).
Anello illuminatore, telo speciale e "bucatore": ecco tutto quello che occorre a Datavideo per realizzare un Chroma Key di ottima qualità. La cui principale caratteristica consiste proprio nella poca luce richiesta: è sufficiente illuminare la figura in primo piano, secondo le esigenze espressive del regista o del direttore della fotografia, perchegrave; il telo speciale Datavideo non necessita di luce dedicata.
Mentre in un normale Chroma Key occorre illuminare bene e in modo il più possibile uniforme il telo (verde o blu che sia), nel sistema Datavideo questa luce aggiunta non serve! L'anello illuminatore "inganna" la camera al punto che il telo, anche quando non è perfettamente teso, non presenta pieghe o grinze all'atto di "bucare"!
Insomma, con il sistema Datavideo allestire uno studio Chroma Key è davvero molto semplice: si risparmiano tempo e denaro, due degli elementi "magici" di qualunque processo produttivo.
Inoltre, in combinazione con il mixer Datavideo SE-900, è possibile creare un vero e proprio Multi Camera Virual Set. Il mixer SE-900, che dispone di 8 ingressi, "dedica" 4 ingressi alle sorgenti "live" (ovvero le inquadrature dal vivo di 4 camere) e altri 4 ingressi agli sfondi preimpostati, che possono essere delle immagini J-PEG come anche dei filmati. Mantenendo una certa coerenza tra l'inquadratura dal vivo e lo sfondo aggiunto, si pu˜ dare l'illusione che il personaggio o i personaggi ripresi dal vivo si muovano in un vero e proprio "studio virtuale", in un ambiente insomma costruito grazie alle apparecchiature Datavideo.
L'esperienza di un video maker: intervista a Francesco Camozza
- Allora, Francesco, tu hai utilizzato il sistema Chroma Key Datavideo per un tuo lavoro, giusto?
Esatto.
- Cosa ci puoi dire in merito?
Beh, sono molto soddisfatto del risultato e soprattutto del poco tempo impiegato per ottenerlo. Dovevo realizzare una ripresa che avesse un panorama il più possibile vasto di Torino come sfondo. Allora sono andato in collina in diversi giorni, sia soleggiati che brumosi. Ho ripreso diverse vedute di Torino che poi ho utilizzato come sfondi per la scena recitata dal vivo, che attraverso i diversi aspetti della città sullo sfondo esprime gli stati d'animo dei personaggi.
- Un'idea interessante!
Beh, l'idea è merito dello sceneggiatore. Io l'ho realizzata visivamente, e devo dire che il Chroma Key Datavideo ci ha consentito di girare su un piccolo palcoscenico con giusto due faretti da 100 sugli attori e una piccola diffusa.
Molto pratico.
- Eri diffidente verso il sistema?
No, ero curioso di provarlo, mi sembrava... troppo semplice! Ma devo dire che è stato perfetto per le nostre esigenze.
- Qual è stato il problema maggiore, se c'è stato un problema?
No, nessun problema, direi...
- E il maggior vantaggio, secondo te?
La facilità di utilizzo. Di solito fare un blue o un green screen impegna di più un direttore della fotografia! Noi ce la siamo cavata davvero con poco!
Se sei un regista di qualsiasi tipo, devi conoscere le regole della produzione cinematografica e video. Comprendere queste regole ti dà il controllo sulle tue immagini. Una delle regole più importanti da conoscere è la regola dei 180 gradi. Abbiamo messo insieme una guida che ti insegnerà come seguire la regola dei 180 gradi, oltre a infrangerla e piegarla in modo da poter attraversare tale linea immaginaria con sicurezza.
1. Che cos'è la regola di 180 gradi?
Una delle prime cose insegnate nella scuola di cinema è la linea dei 180 gradi. È un utile punto di partenza da conoscere per qualsiasi tipo di produzione video perché ti introduce a una regola pratica del cinema e ti invita a pensare visivamente.
La regola dei 180 gradi è una linea guida per le relazioni spaziali tra due personaggi sullo schermo. La regola 180 imposta un asse immaginario, o linea dell'occhio, tra due personaggi o tra un personaggio e un oggetto. Mantenendo la telecamera su un lato di questo asse immaginario, i personaggi mantengono la stessa relazione sinistra / destra tra loro, mantenendo lo spazio della scena ordinato e facile da seguire.
Quando la telecamera salta sull'asse invisibile, questo è noto come attraversare la linea o spezzarla, e può produrre un effetto disorientante e di distrazione su uno spettatore.
2. Come seguire la regola dei 180 gradi
La regola stabilisce che una volta stabilita la linea, è necessario decidere da quale lato della linea posizionare ogni successiva configurazione della videocamera. In breve, è necessario mantenere la fotocamera sullo stesso lato della linea. Altrimenti, hai superato il limite.
La sfida (Heat) è un film del 1995 scritto e diretto da Michael Mann con Al Pacino e Robert De Niro.
Ecco una scena del ristorante che mette in pratica perfettamente la linea 180. La linea di 180 gradi attraversa il tavolo attraverso Pacino fino a De Niro. Guarda il video, ma presta attenzione alla loro vista:
Pacino guarda a destra.
De Niro guarda a sinistra.
Questo viene fatto in modo che lo spettatore possa mantenere un senso di orientamento durante la scena.
Alcuni film e registi hanno scelto di mantenere una linea coerente per tutto il film. Questo livello di coerenza è fantastico e quei film traggono sicuramente beneficio da una spietata attenzione ai dettagli, ma non è necessario per ogni storia.
Ci sono momenti in cui puoi trarre vantaggio dall'infrangere o rompere la regola di 180 gradi, mentre gli attori sono al top dell'interpretazione, la sensazione che genera tale interruzione di linea dovrebbe essere una tua decisione.
In caso contrario, potresti sprecare la tua energia cinematografica.
3. Gestire le scene con più linee dell'occhio
Se ti ritrovi a girare una scena con un gruppo di personaggi, aiutati a pensare al tuo set come se fosse una rappresentazione teatrale, con la cinepresa posizionata tra il pubblico.
La stessa linea che separa lo spettatore dagli artisti è la stessa linea che userai per mantenere una direzione dello schermo costante.
Puoi superare questa linea e tentare di stabilire linee individuali tra ciascun personaggio, ma ogni volta che lo fai amplifichi il grado di difficoltà a mantenere un orientamento coerente in tutta la scena.
Articolo di Sc Lannom da studiobinder.com
Vedere un singolo attore o attrice fare due o più parti in un film è spesso interessante, specie se a essere interpretati e a interagire tra loro sono due gemelli o addirittura due personaggi che in qualche modo sono la stessa persona: copiata, clonata, sdoppiata, sognata o in viaggio nel tempo. Soluzioni narrative di questo tipo sono vecchie quasi quanto il cinema, ma nei decenni le tecniche sono cambiate profondamente: come ha raccontato di recente Insider, si partì con un creativo ma molto artigianale taglia-e-cuci e, dopo una serie di miglioramenti tecnici e tecnologici, si è arrivati alla vastissima (ma costosissima) gamma di possibili soluzioni digitali di questi anni. Uno dei primi a sperimentare lo sdoppiamento nel cinema fu l’illusionista, inventore e regista francese Georges Méliès: “uno dei primi” a fare parecchie cose, nel cinema. In "Un homme de têtes", un cortissimo cortometraggio del 1898, Méliès mise contemporaneamente in scena diverse versioni della sua testa, e lo fece grazie a una tecnica nota come mascherino/contromascherino: in breve, prevedeva che un pezzo di lente della cinepresa venisse coperto, così che l’immagine non si imprimesse sul corrispettivo pezzo di pellicola, lasciando quindi quel pezzo libero per una diversa immagine (in questo caso una delle teste di Méliès).
Visto che nella storia del cinema sono state rare le coppie di attori o attrici che fossero davvero gemelli o gemelle, molti altri registi dovettero ingegnarsi quanto e più di Méliès per fare scene con doppelgänger sempre più lunghe e complicate. Ma in genere l’approccio non fu granché diverso: Il cowboy con il velo da sposa, film del 1961 doppiamente interpretato da Hayley Mills, fu girato oscurando di volta in volta la metà a sinistra o quella a destra della lente della cinepresa, e unendo poi le due diverse metà. Sempre prestando grandissime attenzioni affinché nessuno spostasse la cinepresa o qualche oggetto del set tra una scena e l’altra. La tecnica usata in Il cowboy con il velo da sposa aveva però i suoi limiti, in quanto impediva un vero contatto fisico tra le due metà e obbligava a fare scene tra loro molto simili e spesso forzatamente simmetriche: un gemello a sinistra, un gemello a destra e in mezzo, tra loro, qualche elemento di arredamento che permettesse di capire bene dove e come tagliare e ricucire le due metà.
Già nella prima metà del Novecento, comunque, ci fu chi riuscì a far interagire fra loro due gemelli. In Il prigioniero di Zenda, Ronald Colman interpreta due personaggi: la scena in cui si stringono la mano fu girata con due attori, Colman e una controfigura il cui viso era dietro una parte di lente coperta. Poi fu riavvolta la pellicola, e la scena fu di nuovo girata coprendo tutto tranne la parte col viso precedentemente coperto, che al secondo giro apparteneva a Colman. La tecnica di Méliès, ma portata agli estremi.
Le cose cambiarono alla fine degli anni Settanta, dopo che diversi registi iniziarono a impratichirsi con la tecnologia che permetteva di registrare e duplicare più volte i medesimi movimenti di cinepresa. Il primo film a usarla diffusamente fu Star Wars: Episodio IV – Una nuova speranza, ma poi tornò utile a molti altri, specialmente ai film con i gemelli. Permise infatti di girare una scena con svariati movimenti di cinepresa con un attore che interpretava il gemello A, e poi rigirarne un’altra daccapo, con quello stesso attore che interpretava il gemello B. Una sua efficace applicazione è quella di Inseparabili, con due gemelli monozigoti interpretati da Jeremy Irons.
Un altro miglioramento fu portato poi dal green screen, che permise di far recitare gli attori (anche uno per volta) davanti a uno schermo verde, aggiungendo in seguito altri attori o sfondi di ogni tipo. Questa tecnica, insieme ad alcune altre, fu usata nel 2002 per Il ladro di orchidee, un film che secondo Insider contiene circa 130 scene in cui il protagonista Nicolas Cage è presente due volte, nei panni dei gemelli Charlie e Donald Kaufman.
Non sempre però il green screen funziona, perché in certi casi – in particolare in quelli con scene all’aperto e con luminosità variabile – può dare spiacevoli problemi. Nel caso di Il ladro di orchidee, per esempio, fu usato per circa una scena gemellare su cinque. Per quelle più complicate fu invece utilizzato il “digital rotoscoping”: una tecnica che, in buona sostanza, permette di tagliare e ricucire tra loro digitalmente vari pezzi di scena, anche nel caso in cui la scena non sia stata girata originariamente su un green screen. Con questa tecnica si possono quindi prendere un busto, una mano o una testa e spostarle in una scena diversa, al posto di un altro busto, un’altra mano o un’altra testa.
Ma nemmeno questo è sufficiente se, anziché due gemelli, si vogliono ottenere decine di versioni di uno stesso personaggio, come nel caso degli agenti di Matrix. Per situazioni come questa si deve fare affidamento alle immagini generate a computer e alla creazione di una serie di cloni digitali di un unico attore e personaggio. Immagini di questo tipo sono però ancora lontane dall’essere davvero indistinguibili da quelle reali, e quindi spesso usate solo per inquadrature senza troppi primi piani, e soprattutto incredibilmente costose. Tutto Matrix Reloaded, un film pieno zeppo di effetti speciali, costò 15o milioni di dollari e la sua scena con decine di agenti ricreati digitalmente contribuì, da sola, a quasi un terzo di quel budget.
Nel caso in cui i cloni siano pochi o i gemelli solo due, in anni recenti si è spesso scelto di usare la tecnica della performance capture, quella usata ad esempio dall’attore Andy Serkis per il personaggio di Gollum nel Signore degli Anelli. Per far sì che nel film The Social Network entrambi i gemelli Winklevoss fossero interpretati da Armie Hammer, il regista David Fincher scelse di mettere sulla faccia di un altro attore di corporatura simile a quella di Hammer una versione digitale della faccia di Hammer. L’altro attore (Josh Pence) si dovette quindi allenare insieme a Hammer perché i loro movimenti diventassero molto simili tra loro. Nel film, quindi, ogni tanto si vede il corpo di Pence, ma mai il suo volto.
Le più innovative tecniche usate per mostrare gemelli, cloni o versioni alternative di certi personaggi si stanno avvicinando sempre più alla creazione di quelli che sono a tutti gli effetti dei doppi digitali di certi attori. Se ne parlò in particolare dopo Gemini Man, film del 2019 di Ang Lee con due Will Smith protagonisti: uno è l’attore, oggi 52enne, l’altro una sua versione digitale con la metà dei suoi anni, creata apposta per il film. Ma, volendo, riutilizzabile anche in futuro.
Per Noi – film del 2019 di Jordan Peele, in cui ogni membro di una famiglia è assalito dal suo doppelgänger – si scelse invece di utilizzare di volta in volta una tecnica diversa, a seconda delle esigenze di ogni scena. A suo tempo, Insider dedicò al film un video monografico, la cui visione è però sconsigliata a chi preferisce non sapere troppo sulla trama.
Non sempre, infatti, si sceglie di usare la soluzione più recente e innovativa: ci sono ancora casi, anche nel grande cinema, in cui ci si può accontentare di una controfigura che assomiglia molto a un attore, o anche di di tecniche di per sé non molto differenti da quelle che a suo tempo usò Méliès.
Anche perché se è vero che la tecnologia può ormai fare moltissimo, è pure vero che per gli attori e le attrici non sempre è facile recitare in mezzo al niente, davanti a uno schermo verde e magari addirittura con una tutina addosso, provando a immaginarsi tutto quello che qualcuno aggiungerà solo in seguito. Insider fa vedere, per esempio, che per il film del 2013 Enemy Jake Gyllenhaal passò una parte del suo tempo sul set recitando davanti a una pallina da tennis messa su un’asta.
La pallina serviva a Gyllenhaal per avere qualcosa da guardare così da non dare l’idea di stare fissando il vuoto. E per chi si occupava di postproduzione era relativamente semplice da rimuovere (di certo più semplice rispetto a una controfigura umana). Più avanti, in postproduzione, qualcuno tolse asta e pallina e aggiunse Gyllenhaal.
Articolo di IlPost.it
Come fare un buon video con l’iPhone o in generale con uno smartphone? Ci sono alcuni trucchi e delle tecniche di base che conviene seguire per ottenere il massimo quando si usa la videocamera di un cellulare di ultima generazione, in modo da realizzare video che qualche volta hanno caratteristiche paragonabili a quelle di clip girate con dispositivi professionali. Alcuni possono sembrare suggerimenti banali e ovvi, ma paradossalmente la maggior parte degli utenti di uno smartphone li dimentica appena si accinge a effettuare una ripresa video. Vale allora la pena di fare un elenco con tutte le regole di base da rispettare per ottenere buoni risultati in termini di qualità video.
1. Tenere lo smartphone in posizione orizzontale e non come normalmente lo si maneggia: il bordo più lungo va in basso. Le dimensioni del video che si registra infatti hanno sempre la base più lunga dell’altezza, quindi al momento in cui lo si riprodurrà, se la ripresa è stata effettuata con lo smartphone in verticale si avrà un video con delle fasce laterali nere. Del tutto inadatto alla maggioranza degli schermi su cui si andrà effettivamente a rivederlo.
2. Mantenere ben fermo lo smartphone. La regola numero uno di chiunque effettui una ripresa video è assicurarsi che la videocamera non si muova durante le riprese, a meno che non si debba seguire un soggetto in movimento o si effettuino spostamenti volontari del campo visuale. E anche in quest’ultimo caso, quasi sempre lo spostamento della videocamera deve essere fluido e continuo, sempre senza scatti. Cosa fare allora? Usare entrambe le mani per reggere lo smartphone. Tenere i gomiti stretti contro il corpo. Se si è in piedi divaricare le gambe leggermente in modo da ottenere una posizione stabile e comoda. Trovare un buon punto d’appoggio sul terreno evitando di stare in equilibrio precario. Quando si muove lo smartphone per seguire il soggetto cercare di piegare tutto il corpo e non solo le braccia e le mani e se si deve camminare abituarsi a farlo in modo da spostare il baricentro del corpo solo orizzontalmente e non anche verticalmente. In altri termini, bisogna tenere la testa sempre alla stessa altezza e spostarsi solo avanti e indietro. Se si usa spesso lo smartphone per realizzare video, può essere utile acquistare un accessorio che aggiunge una maniglia esterna (o addirittura un cavalletto) al dispositivo per poterlo maneggiare comodamente e più stabilmente.
3. Controllare l'inquadratura. Di default l’app per la ripresa installata nell’iPhone riproduce sullo schermo una preview del video che si sta per registrare. Va tenuto presente però che già il sensore a 720p dell’iPhone riprende un’inquadratura più ampia dello stesso display, per cui colpendo rapidamente col dito due volte lo schermo (i geek direbbero: facendo un doppio tap) si può visualizzare l’immagine completa, dove viene riquadrata la parte di schermata che effettivamente sarà inclusa nel video. In generale, raramente negli smartphone la parte ripresa nel video e quella effettivamente rilevata dal sensore è corrispondente, anche perché a seconda delle dimensioni del video scelte (4:3 o meglio il 16:9) il taglio dell’inquadratura cambia. Spesso può essere opportuno passare a visualizzare tutta l’area utile in modo da scegliere meglio cosa effettivamente fare rientrare nell’area di ripresa del video.
4. Attenzione alla messa a fuoco! Si è talmente abituati all’autofocus – la messa a fuoco automatica – che ci si dimentica di tenere presente che alle volte ci occorre una messa a fuoco differente da quella di default. Il riquadro che si vede al centro dello schermo quando si sta per riprendere è il punto su cui l’obiettivo punta il suo fuoco. In alcuni casi, per esempio quando il soggetto non si trova al centro dell’inquadratura, sarà necessario dare un colpetto sul punto in cui vogliamo che sia puntata la messa a fuoco. Allo stesso modo sarà possibile cambiare il punto focale mentre si sta riprendendo. Ovviamente in questo caso bisognerà fare attenzione a maneggiare bene lo smartphone in modo da evitare sussulti o movimenti accidentali che rovinerebbero la qualità della ripresa.
5. Regolare il bilanciamento dei colori. Prima di iniziare a riprendere si deve sempre verificare che il bilanciamento dei colori sia corretto. Regola preliminare a qualsiasi ripresa: fare il bianco! Basta andare sulle regolazioni e scegliere Bilanciamento del bianco. Qui di solito si può scegliere fra luce naturale, nuvoloso, luce incandescente o luce fluorescente. In alternativa si può impostare la regolazione auto, lasciando che sia il software a decidere come regolare i colori nel modo più opportuno. Va detto anche che, in qualsiasi momento durante una registrazione, quando si dà un colpetto sullo schermo in corrispondenza del soggetto sul quale si punta la messa a fuoco quasi tutte le app di videoripresa dei cellulari aggiustano anche le condizioni di luce in riferimento a quello che viene inquadrato nel punto di messa a fuoco. Ad ogni modo si deve essere avvertiti che una ripresa in cui improvvisamente cambia il bilanciamento dei colori senza una ragione evidente (per esempio perché il soggetto si sposta da un esterno a un ambiente chiuso) è sempre una cattiva ripresa. Quindi bisogna stare attenti che la resa dei colori sia sempre costante.
6. Fare diverse riprese della stessa scena. La maggior parte degli utenti poco addentro alle tecniche di ripresa pensa che un video sia il risultato di un’unica ripresa. Chi conosce i rudimenti delle tecniche di regia sa bene che il prodotto finale è il risultato del montaggio di tanti spezzoni di ripresa girati indipendentemente l’uno dall’altro, anche sullo stesso set. Un buon video non è mai il prodotto di un unico piano sequenza, ma della sagace ripresa della scena da più punti di osservazione e in condizioni e piani differenti. Si deve pianificare a monte, prima di iniziare a riprendere, come si ha in mente di sviluppare la ripresa. Eventualmente prendendo anche degli appunti in cui descrivere cosa si ha in mente e come successivamente si vuole montare la ripresa. Così facendo è facile girare diversi video sulla stessa scena in modo da unirli opportunamente insieme successivamente per creare il video finale. Normalmente conviene fare diverse clip brevi con angoli di ripresa e piani differenti e poi montarle in modo da creare una continuità nella successione delle inquadrature.
7. Alternare inquadrature ampie e strette. Nella scelta delle inquadrature, si deve evitare di fare sempre e soltanto inquadrature ampie, ma sapere scegliere cosa inquadrare in dettaglio restringendo la ripresa e eventualmente zoomando. Tenere presente che nel montaggio finale solitamente alternare o comunque mettere in sequenza inquadrature ampie e inquadrature strette serve a migliorare la qualità e l’estetica del girato, oltre a renderlo più stimolante ed espressivo.
8. Le condizioni di luce sono fondamentali! Lo sanno bene i professionisti della regia quando scelgono un direttore della fotografia. Un buon film è innanzi tutto la capacità di fare delle belle riprese e perché queste risultino tali agli occhi dello spettatore è necessario che l’illuminazione della scena sia perfetta e che i dispositivi di ripresa la riprendano in modo fedele a quello che si vuole fare vedere allo spettatore. Quindi prima di iniziare a girare occorre studiare bene come illuminare la scena e se il soggetto che si intende riprendere riceve una buona illuminazione. Gli smartphone dispongono di un buon flash-led, ma si deve ricorrere alla sua luce solo se proprio non ci sono altri modi per illuminare la scena, perché la luce del flash risulterà frontale, scialba e abbastanza fioca, rendendo quasi qualunque video estremamente dilettantesco.
9. Attenzione alle riprese a distanza ridotta. Scegliere l’inquadratura migliore, tenendo conto che gli smartphone hanno un obiettivo leggermente grandangolare, quindi poco adatto alle riprese a breve distanza. Per i primi piani di un volto può essere opportuno riprendere il soggetto da lontano e applicare un lieve zoom, anche in post-editing utilizzando un software di videoritocco in fase di montaggio. Se si inquadra un volto a distanza ravvicinata infatti si otterrà un effetto deformante alquanto sgradevole e innaturale. D’altronde se si applica uno zoom digitale pesante nel corso della ripresa c’è il rischio di sgranare l’immagine ottenendo un risultato assolutamente scadente in termini di definizione dell’immagine. Conviene allora fare delle prove per vedere quando e fino a che punto si può effettuare una zoomata con il proprio smartphone senza alterare troppo la qualità del girato.
10. Occhio alla batteria! L’ultima raccomandazione può sembrare del tutto superflua, ma ha rovinato il lavoro di una quantità inimmaginabile di videomaker improvvisati: la batteria è sufficientemente carica? Se si ha intenzione di fare dei video con lo smartphone è opportuno, prima di qualsiasi altra azione, verificare per tempo che la batteria sia al massimo, perché il rischio che sul più bello il dispositivo si spenga rovinando tutto il lavoro che si vuole svolgere è sempre altissimo. Una ripresa video, soprattutto quando viene effettuata in alta definizione, impegna severamente le risorse hardware del dispositivo, quindi anche una carica che può sembrare adeguata può risultare insufficiente. Se si ha in programma di usare spesso e lungamente lo smartphone per girare dei video può essere un buon investimento quello di acquistare delle batterie esterne addizionali, che tolgono d’impiccio quando quella interna si esaurisce.
5) NON PERMETTERE ALL’AUDIO DI ROVINARE IL VIDEO
È ormai risaputo che le persone preferiscono guardare un video mal realizzato ma con un ottimo audio, piuttosto che guardare un buon video ma con un suono terribile.
Nonostante il tuo Iphone abbia un ottimo microfono, ti suggerisco comunque di acquistarne uno e posizionarlo proprio sopra lo smartphone.
A mio avviso, il migliore in commercio, è il Rode Videomic ME-L, che potrai acquistare direttamente su Amazon.
In caso non lo riuscissi a trovare, ecco un altro ottimo prodotto creato dalla RODE.
Entrambi i microfoni sono eccellenti per la registrazione audio e offrono una qualità davvero straordinaria. Si collegano direttamente al telefono e funzionano molto bene anche con FILMIC PRO.
Un altro ottimo microfono che ho acquistato da poco è il Boya By- DM200.
Il Boya BY-DM200, molto simile al RODE VideoMic Me-L, è un microfono stereo a condensatore cardioide, che si collega perfettamente alla porta del tuo Iphone, per darti una registrazione audio molto pulita, anche se sei in movimento.
Il microfono viene fornito anche di un paravento in finta pelliccia, utile se stai girando sotto la pioggia o con un vento estremo.
Se stai cercando un’alternativa più economica al Rode VideoMic Me-L, questo microfono potrebbe essere un’ottima scelta.
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6) ILLUMINA IL TUO VIDEO
Il filmmaker principiante può spesso ignorare la necessità di illuminare una scena per realizzare il proprio video.
Se non ti impegni ad illuminare la scena correttamente, sappi che otterrai un’immagine finale di scarsa qualità.
Tra le tante accortezze, dovrai comunque cercare sempre di sfruttare la luce che hai a disposizione, dovrai avere la consapevolezza di come ti posizioni rispetto al sole, e tante altre cose.
Tuttavia, se hai deciso di acquistare un kit luci o solamente una luce che ti supporti durante le riprese, l’impegno per illuminare la scena aumenta e si fa più complicato.
Per questo motivo, prima di continuare la lettura di questo paragrafo, ti suggerisco di studiare le guide che ho creato appositamente sull’illuminazione.
Eccole:
- Come utilizzare la luce naturale nei tuoi video
- Cosa sono le gelatine e come utilizzarle
- Le basi dell’illuminazione: cos’è e come utilizzarla
Di seguito, ho elencato i migliori kit d’illuminazione che potrai acquistare veramente a poco prezzo.
A) STUDIO FOTOGRAFICO CON OMBRELLI E SOFTBOX
Ho acquistato questo prodotto una settimana fa e devo dire che ne sono rimasto davvero soddisfatto.
Il Kit comprende 3 sfondi, 2 softbox, 2 ombrelli e davvero tante tante lampadine.
La particolarità di questo kit d’illuminazione è che ogni Softbox possiede 5 lampadine con INDIPENDENT SWITCH.
Questo vuol dire che potrai scegliere il numero di lampadine da accendere o spegnere contemporaneamente.
Ma perché cinque lampadine con INDEPENDENT SWITCH sono molto meglio di una lampadina con un solo interruttore?
Ecco la spiegazione:
- Quando non hai bisogno della luce massima, puoi cambiarne una parte e risparmiare energia
- Le lampadine con interruttore singolo funzioneranno molto più a lungo di una singola lampadina
- Nel caso in cui una lampadina non funzioni, ha ancora 4 lampadine con cui lavorare
- Per un principiante, migliora la sua sensibilità alla luce e il livello della fotografia
- Per un professionista, la diversità dell’illuminazione significa che può gestire più dettagli
Curioso di vederlo, vero?
Eccoti accontentato:
Oltre a questo kit un po’ complesso se sei alle prime armi, ecco di seguito delle lampade che, posizionate sopra il tuo IPhone, ti aiuteranno ad illuminare la scena.
B) LUME CUBE 1500
Il LUME CUBE è un piccolo ma potente mini proiettore a LED, che si adatta perfettamente alla tua borsa e non occupa molto spazio.
Come suggerisce il nome, il mini proiettore ha un potere di 1500 Lumen, che equivale a circa 25 watt e che è molto potente per una luce di queste dimensioni.
Un’altra grande caratteristica del LUME CUBE è che puoi controllarlo direttamente dal tuo smartphone.
Se desideri regolare la luminosità infatti, potrai farlo in modalità wireless tramite Bluetooth.
In effetti, puoi controllare fino a cinque LUME CUBES in questo modo in modo da poterli avere in diversi posti e avere comunque il pieno controllo su di essi.
Nel kit troverai, oltre al mini proiettore, dei supporti a magnete o a ventosa.
Questo è di grande aiuto se stai girando in uno spazio ristretto come, ad esempio, in una macchina.
Puoi persino metterli in una custodia impermeabile e gettarli in una piscina, e quindi controllarli con il tuo smartphone.
C) ROTOLIGHT NEO
Il ROTOLIGHT NEO, anche se è un po’ costoso, è una luce a LED di altissima qualità.
È di forma rotonda, e al suo interno è composto da 120 luci a LED.
Questi LED hanno anche una modulazione d’onda incorporata, per cui non dovrai preoccuparti di nessun fastidioso sfarfallio.
Ha un potere Lux di 1077, che equivale a circa 75 watt.
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7) STABILIZZATI
Se desideri che il tuo filmato non venga distorto, sfocato o influenzato da piccoli movimenti fastidiosi, il mio consiglio è quello di mantenere il telefono nella posizione più stabile possibile.
Prima regola: usa sempre entrambe le mani per rendere stabile la tenuta del tuo smartphone, e tieni lo smartphone possibilmente il più vicino possibile al tuo corpo mentre registri il video.
Lo so, se non sei abituato a registrare video, tenere questa posizione può essere un po’ difficile e stancante.
Per questo motivo, di seguito, troverai i 3 migliori stabilizzatori per IPhone, provati dal sottoscritto.
A) DJI OSMO MOBILE 3
Il DJI Osmo Mobile 3 è attualmente uno dei migliori Gimbal per smartphone che si possono trovare sul mercato.
Come suggerisce il nome, questa è la terza generazione della serie Osmo Mobile. E in tutti questi anni l’azienda cinese ha sicuramente imparato a soddisfare i propri clienti regalandogli delle novità che solamente i loro dispositivi offrono.
La caratteristica principale del DJI Osmo Mobile 3 è legata al fatto che si può ripiegare. Questo risolve uno dei principali problemi di quando si parla di Gimbal per smartphone, ossia la praticità.
Un’altra caratteristica importante è legata al suo peso.
Il dispositivo infatti pesa solamente 405 grammi, il che lo rende portatile e leggero, pronto da utilizzare per le strade della città ma anche sulle salite ripide della montagna. Grazie alla modalità Stand-By, inoltre, potrai usare lo smartphone anche quando il dispositivo è chiuso, in modo da poter iniziare a registrare in zero secondi.
B) ZHIYUN SMOOTH 4
La cinese Zhiyun non ha bisogno di grandi presentazioni.
È un’ottima azienda che è riuscita, nel corso degli anni, a sorprendere ripetutamente i propri fan grazie agli ottimi accessori realizzati per i videomaker professionisti.
Lo Smooth 4 è uno stabilizzatore ultra professionale a 3 assi, progettato per eliminare quasi completamente le vibrazioni della telecamera. Montando lo smartphone sul Gimbal, infatti, i 3 motori brushless riescono a ruotare sui tre diversi assi: quello della panoramica, quello dell’inclinazione e quello della rotazione.
Questi movimenti, che vanno opposti al movimento della fotocamera, riescono a mantenere lo smartphone perfettamente stabile.
C) FEIYUTECH VIMBLE 2S
Ho acquistato questo Gimbal agli inizi del 2018 e ancora oggi lo utilizzo quando voglio registrare i miei video nella maniera più fluida possibile.
La principale caratteristica del Feiyutech Vimbel 2S è la sua lunghissima barra di prolunga, a cui potrai collegare il tuo smartphone. Il Gimbal pesa solamente 428 grammi, e sebbene sia così leggero, è molto pratico e facile da utilizzare.
Il Kit comprende il dispositivo, la barra di prolunga, diversi cavi per la ricarica e uno splendido treppiede che potrai avvitare direttamente allo stabilizzatore.
Sull’impugnatura è presente un joystick che consente al Gimbal di spostare il telefono da sinistra verso destra o dall’alto verso il basso. A seconda della forza con cui lo si preme, il movimento può più o meno accelerare.
8) LE MIGLIORI APP PER MODIFICARE O EDITARE I VIDEO
Sebbene esistano decine e decine di App di editing video per l’iPhone, il mio consiglio è quello di utilizzare sempre dei programmi da scaricare sul Pc o sul Mac. Il mio software preferito è da sempre AVID, ma devo ammettere che nel corso degli anni Adobe Premiere ha fatto passi da gigante.
Tuttavia, se hai deciso di montare e modificare le tue immagini video direttamente sullo smartphone, ecco una sere di App che ti saranno sicuramente utili.
A) ADOBE PREMIERE RUSH
Premiere Rush è un’App di editing video, che ti consentirà di sottrarti dalla ripida curva di apprendimento associata agli strumenti di editing video più complessi di Adobe come Premiere Pro, After Effects e Audition.
Al contrario, Premiere Rush semplifica l’elaborazione rapida delle clip facilitandone il caricamento sulle principali piattaforme social. È importante sottolineare che l’App converte automaticamente i video nelle proporzioni e nei livelli di qualità specifica richiesti da ciascuna piattaforma, quindi non dovrai preoccuparti di nulla di tutto ciò.
Ad ogni modo, Premiere Rush non è utile solamente agli YouTuber. Se sei un editor professionista, grazie a questa App, sarai in grado di trasferire i contenuti su cui hai lavorato in Premiere Pro e apportare ulteriori modifiche direttamente sul tuo telefono o sul tablet.
Puoi scaricare tutte le App di Adobe tramite questo link.
B) MOVIE PRO
Movie Pro è un’ottima APP per registrare video, esattamente come FILMIC PRO. Sebbene però la mia preferita resti quest’ultima, devo ammettere che grazie a MOVIE PRO, le funzionalità per girare degli ottimi video sono aumentate.
Con MOVIE PRO potrai scattare delle immagini mentre stai girando, avrai il controllo manuale sulla messa a fuoco, sull’esposizione, sul bilanciamento del bianco e infine, potrai scegliere quale temperatura colore utilizzare.
Con MOVIE PRO potrai inoltre impostare la risoluzione prima di girare e potrai scegliere il frame rate che più preferisci.
C) LUMAFUSION
LumaFusion è un’App realizzata appositamente per tutti gli utenti iOS. Prodotta dai creatori della Pinnacle Studio, l’applicazione è comunemente utilizzata dai giornalisti, dai filmmaker e dai produttori video di mezzo mondo.
L’interfaccia offre sei tracce video/audio per inserire foto, video, titoli e grafica, oltre ad altre 6 tracce audio da utilizzare per la narrazione, la musica e gli effetti sonori.
L’interfaccia è molto simile a quella di Final Cut Pro X, con la sua timeline magnetica e gli strumenti avanzati che includono la capacità di sovrascrittura, il keyframing, la correzione del colore, il supporto completo per PAL a 25fps durante la fase di esportazione, il mixer audio completo, l’esportazione senza perdita dei dati, il supporto per i video in verticale, gli strumenti avanzati per la creazione dei titoli e la capacità di rallentare o velocizzare il movimento delle clip.
L’ultima versione, la 2.4, è stata rilasciata lo scorso novembre e include, oltre alle cose già citate, il supporto HDR con l’elaborazione a 10bit per gestire facilmente i contenuti video realizzati con i nuovi iPhone.
D) IMOVIE
iMovie è un’applicazione gratuita di editing video, sviluppata direttamente dai produttori della Apple. L’App ti consente di creare dei fantastici trailer in stile hollywoodiano, utilizzando le foto e i video che potrai importare direttamente dal rullino foto del tuo dispositivo.
iMovie supporta la risoluzione video in 4K mentre il prodotto finito può essere trasferito su un dispositivo della Apple e proiettato su uno schermo. Puoi inoltre trasferire i video tra iPhone, iPad e iPod touch, utilizzando Airdrop o iCloud Drive. I video possono infine essere condivisi su qualsiasi piattaforma di condivisione video o di social media.
Le principali caratteristiche dell’applicazione includono la capacità di correggere i video mossi, modificare le clip frame by frame e modificare l’audio sorgente oltre alle numerosi personalizzazioni che comprendono gli effetti speciali, la titolazione, la stabilizzazione, il ritaglio e la rotazione della clip.
L’app ti permette anche di lavorare con il green screen in modo da rimuovere istantaneamente lo sfondo delle clip girate davanti ad uno schermo verde o blu, oltre alla possibilità di utilizzare le 80 colonne sonore che si adattano automaticamente alla precisa lunghezza del tuo film.
L’unico svantaggio dell’App è che non offre la possibilità di scaricare le tue tracce musicali a meno che tu non abbia un’App diversa che potrai poi condividere con iMovie.
[…]
Concludendo, spero che questo lungo post ti abbia aiutato a centrare gli strumenti più efficaci per rendere ottimali i tuoi video, e soprattutto ti sia utile per migliorarne la resa. Se hai bisogno di consulenza e consigli, o se hai sperimentato altri strumenti di cui vuoi approfondire i dettagli, scrivimi pure. Buon lavoro!
Francesco Menghini per https://francescomenghini.net/
Girare in 4K significa registrare un video di qualità 4 volte superiore a 1080p. Tieni presente il fatto che, a seconda del modello che utilizzi, l’Iphone offre diverse modalità di registrazione. Ad esempio, il 6S e il 6S Plus sono stati i primi ad offrire i 4K a 30fps. L’IPhone 7 e il 7 Plus offrono la stessa modalità di registrazione mentre l’IPhone 8, l’8 Plus e l’Iphone X supportano i 4K a 24fps, 30 fps e 60fps. L’Iphone Xs, l’XsMax e l’Xr registrano invece, nella stessa modalità dell’IPhone 8.
Vediamo adesso come impostare la registrazione in 4K sul tuo “melafonino”.
- Vai su Impostazioni
- Clicca su Fotocamera
- Vai su Registra Video
- Selezione la modalità prescelta
Attenzione però: se scegli di registrare in 4K a 60fps, il tuo smartphone ti offrirà la massima qualità e fluidità, ma ti richiederà anche circa 400Mb per archiviazione al minuto.
Per risolvere questo problema, ti suggerisco di acquistare un SanDisk iXpand Flash Drive per Iphone! In questo modo riuscirai ad aumentare la quantità di spazio di archiviazione disponibile, senza correre il rischio di rimanere senza più Giga per registrare.
Per chiarire questo aspetto, ecco una tabella da tenere bene a mente:
Registrazione video standard:
- 720p HD a 30 fps: 40 MB al minuto
- 1080p HD a 30 fps: 60 MB al minuto
- 1080p HD a 60fps (video più fluido): 90 MB al minuto
- 4K a 24 fps: 135 MB al minuto
- 4K a 30 fps: 170 MB al minuto
- 4K a 60fps: 400 MB al minuto
Registrazione video Slow-motion
- 1080p HD a 120fps: 170 MB al minuto
- 1080p HD a 240fps: 480 MB al minuto
Se scegli di girare il video in 4K a 60fps, sappi che avrai bisogno di tantissima luce perché, per mantenere il movimento fluido, l’otturatore richiederà una maggiore velocità.
In condizioni di scarsa illuminazione, ti consiglio quindi di registrare in 4K ma a 30fps.
Il tuo video sarà comunque buono, e in più non avrai bisogno di uno spazio di archiviazione esterno.
Entriamo ora nel vivo di questo post: nelle righe che seguono troverai 7 suggerimenti da mettere subito in pratica per realizzare dei fantastici video. Prima di tutto però, lascia che ti dia un suggerimento extra.
Prima di iniziare qualsiasi lavoro di ripresa, assicurati che l’obiettivo del tuo IPhone sia ben pulito. A questo link troverai un ottimo Kit che uso personalmente.
Altra cosa da fare è quella di disattivare le notifiche mentre si sta girando.
Prima di iniziare le riprese quindi, ti suggerisco di impostare l’IPhone su modalità NON disturbare, in modo da bloccare le notifiche all’interno dello smartphone. Per disattivarle dovrai scorrere il dito verso l’alto e cliccare sull’icona a forma di mezzaluna NON DISTURBARE.
Perfetto, ora siamo davvero pronti!
1) NON UTILIZZARE L’APP DELL’IPHONE
Devi sapere che l’APP Video utilizzata dal tuo Iphone è ottima, ma non è stata progettata per registrare video ad altissima qualità.
Personalmente, da molti anni, utilizzo un’APP che mi da tantissime soddisfazioni. Si chiama FilmicPro e puoi scaricarla direttamente dal tuo APP STORE. Non ci credi?
Ecco un video girato con Filmic Pro che ha ricevuto numerosissimi premi:
Una delle caratteristiche principali di Filmic Pro è l’opzione per selezionare un bitrate più alto.
La massima qualità è di 50 Mbit/Sec, che rappresenta un enorme miglioramento rispetto al bitrate standard (24.0 Mbit/Sec) che trovi di default nell’Iphone.
Dunque, se deciderai di NON utilizzare l’APP dell’Apple, con Filmic Pro riuscirai a realizzare dei video di qualità molto più superiore. Utilizzando Filmic Pro avrai anche la possibilità di registrare utilizzando frequenze diverse e avrai il pieno controllo sulla messa a fuoco, sull’esposizione e molte altre cose.
Allora, come prima cosa, scarica immediatamente Filmic Pro e continuiamo con la nostra guida.
2) IMPOSTA IL CORRETTO BILANCIAMENTO DEL BIANCO
Se sei un assiduo lettore del mio blog, già saprai che sono un accanito fan del bilanciamento del bianco.
Impostare manualmente il bilanciamento del bianco infatti, è sempre la migliore opzione.
In questo modo sarai sicuro di ottenere i giusti colori e tutto quello che andrai a girare, sembrerà più naturale.
Tuttavia, se hai scelto di iniziare a lavorare con Filmic Pro (mi raccomando, non aspettare di scaricare l’APP), dovrai impostare il bilanciamento del bianco manualmente. Per farlo, dovrai prendere un foglio bianco, posizionarlo davanti all’obbiettivo della fotocamera e quindi cliccare sul pulsante “bilanciamento del bianco”.
Ecco come ti apparirà la schermata:
Se vuoi saperne i più, ti consiglio di leggere questo articolo:
3) USA SEMPRE LA GRIGLIA
A meno che tu non sia un professionista del filmmaking, il mio consiglio è quello di utilizzare sempre la griglia.
In questo modo sarà più semplice rispettare la regola dei terzi in modo da realizzare dei video più professionali.
Per impostare la griglia, dovrai andare su IMPOSTAZIONI > FOTOCAMERA > GRIGLIA.
Se invece stai utilizzando Filmic Pro, vai su IMPOSTAZIONI (la ruota dentata in basso a destra) e clicca su GUIDA.
Per saperne di più sulla regola dei terzi, ti consiglio di leggere la mia guida sulla composizione fotografica.
4) IMPOSTA E BLOCCA L’AF (AUTO-FOCUS)
Bloccare l’autofocus e l’esposizione significa avere il controllo totale sulle impostazioni del tuo IPhone.
In questo modo infatti, impedirai allo smartphone di cambiare automaticamente la messa a fuoco o l’esposizione su altri soggetti all’interno dell’inquadratura.
Per bloccare l’AF/EF ti basterà aprire il video, impostare l’inquadratura, selezionare dove mettere a fuoco e tenere premuto il dito finché apparirà un piccolo banner giallo con scritto BLOCCO AF/EF.
........................
di Francesco Menghini per https://francescomenghini.net/
Vi siete mai chiesti come funziona il cibo nei film, se gli attori mangiano veramente, se ingoiano o sputano, e se il cibo cucinato è effettivamente buono? In questo articolo scopriamo le tecniche più usate dalla settima arte per riprendere i personaggi che consumano delle pietanze.Immaginatevi un interprete che gira la scena di una cena tra amici. Lo fa per tutta la mattinata, con il set oscurato e le portate servite una dopo l’altra più volte fino a che l’inquadratura non viene proprio come la vuole il regista. Finito di mangiare di fronte alla cinepresa fa pausa pranzo e se ne va in mensa con i colleghi. Gusta le pietanze che il set offre e se ne ritorna sul tavolo imbandito dove ricomincia a lavorare alla sequenza e a mettere in bocca alimenti di vario tipo. Come fa a non stare male e ad avere fame?
Come si riprende il cibo nei film?
In questa scena di Bastardi senza gloria gli attori recitano con il cibo. In particolare lo strudel che Hans Landa ordina a Shoshanna gli permette di imporre il suo controllo sulla situazione (simboleggiato dalla sigaretta spenta nella panna sul finale). Christoph Waltz esprime la doppiezza del suo personaggio attraverso la masticazione. È lunga, vistosa, spesso il cibo gli resta in bocca e tra i denti. Ben più contenuta è Mélanie Laurent, che mangia con la bocca chiusa, piccoli e rapidi bocconi.
C’è una particolarità però: sound design a parte (che con i rumori crea l’illusione di vedere qualcosa che non c’è), nessuno dei due attori ingoia mai il cibo che sta mangiando. Nonostante Tarantino insista molto nelle inquadrature con un montaggio molto generoso, non li vediamo mai deglutire il boccone. Si taglia sempre poco prima del fatto per andare in contro campo e ritornare poi mentre il personaggio si porta alla bocca un’altra fetta di dolce.
Questo trucco di montaggio si può ritrovare nella stragrande maggioranza dei film. Magari non ne La vita di Adele dove di cibo ci si ingozza e ci si sporca, o in Oldboy dove si mangia veramente un polpo vivo. Generalmente però chi recita finge anche di mangiare, soprattutto quando la stessa scena deve essere rifatta all’infinito.
Perché non ingoiano il cibo?
Le ragioni sono molte, come spiegato bene anche da questo video di TikTok. I piatti offerti in scena sono perfettamente commestibili. Ci sono eccezioni, come quelli con valenza puramente estetica, ma generalmente è cibo vero.
Il regista e il segretario di edizione hanno il duplice problema di far sì che sembri veramente un pasto, pur mantenendo la continuità di inquadratura in inquadratura. Il cibo può restare all’aria aperta anche per ore. Per questo spesso in scena si giocherella con le pietanze senza mai nemmeno portarle alla bocca.
Già essere costretti a masticarlo non è propriamente piacevole, figurarsi ingerirlo. Così la scena viene predisposta perché gli attori possano sputare.
Cioè, stai dicendo che allo stop gli attori sputano?
Non sempre. Dipende da cosa stanno mangiando e da quanto tempo stanno girando. In caso di lavorazioni lunghe o di molteplici take è una pratica normale per non ingozzarsi fino a stare male. Anche se si avesse fame, ingozzarsi di patatine o hamburger freddi sarebbe un attentato alla salute.
Il vino al cinema invece è un preparato colorato assolutamente non alcolico. Le tazzine di caffè generalmente sono vuote. Lady Gaga in House of Gucci aveva suscitato delle discussioni nella scena in cui sbatte il cucchiaio contro la tazzina dopo averlo mischiato. Non c’erano alcune tracce di caffè, nessuna goccia saltava in seguito al movimento.
L’estetica è importante. Dove l’impiattamento, la forma e i colori delle pietanze contano particolarmente si consulta un food designer. Questo succede spesso nel caso, ad esempio, nella serie Servant dove il protagonista cuoco passa gran parte del tempo a preparare delizie per gli occhi. Se infatti chi è di fronte alla cinepresa può fingere di gustarsi un buon piatto, per noi spettatori resta solo l’appagamento visivo. L’illusione che quello che viene consumato sia veramente delizioso. E forse è anche così. Sarà però probabilmente vecchio di ore. Quando vedete un piatto fumante che continua ad esserlo di inquadratura in inquadratura è probabilmente frutto di post produzione con l’aggiunta di effetti digitali.
Non si può fare altro che recitare, anche quando si mangia. Esattamente come quando si fuma una sigaretta in scena. Ma quella è un’altra storia.
Un obiettivo è in grado di mettere a fuoco solo a una precisa distanza. Ciononostante, soggetti più vicini o più lontani rispetto a quello messo a fuoco, possono comunque risultare nitidi in una fotografia. Questa zona di nitidezza apparente può essere tanto piccola da non essere quasi percepibile o può aumentare tanto da far vedere i soggetti nitidi fino all’orizzonte. “Zona di nitidezza apparente” è un’ottima definizione per la Profondità di Campo.
Solo la perfetta messa a fuoco a una distanza precisa può generare un’immagine perfettamente nitida costruita da un’insieme di piccoli punti, ma altri oggetti più vicini e più lontani appariranno comunque nitidi, la loro sfocatura è troppo poca per essere percepita dall’occhio umano, e nella visione della foto è proprio la loro apparente nitidezza la cosa che conta.
Se qualcosa appare a fuoco (anche se teoricamente non lo è) vuol dire che è abbastanza nitida per sembrare a fuoco nella tua foto. Nella fotografia di paesaggio, in genere tentiamo di avere tutto nitido, a partire dall’erba vicino al treppiedi fino alle colline più lontane, ma questa deve essere una scelta del fotografo, non è certo una regola ne una legge. Nello sport e nel ritratto, una profondità di campo limitata è spesso apprezzata, poiché lo sfondo e gli oggetti più vicini sfocati, concentrano l’attenzione sul soggetto principale.
SOTTO CONTROLLO
La profondità di campo può variare enormemente, ed è condizionata principalmente da tre fattori. Il primo è l’apertura di diaframma, cioè la dimensione del foro creato dal diaframma dell’obiettivo. I diaframmi più aperti danno una minore Profondità di Campo. Ricordati che i valori di diaframma sono il risultato di una frazione e quindi per esempio f/16 indica un diaframma minore (più chiuso) e f/4 uno più maggiore (più aperto). La maggior parte delle D-SLR Nikon hanno una serie di modalità scena: Paesaggio tenderà a impostare diaframmi più chiusi per incrementare la Profondità di Campo, mentre Sport o Ritratto preferiranno aperture maggiori. Per controllare l’apertura del diaframma, utilizza la modalità d’esposizione a Priorità dei diaframmi, imposta la ghiera delle modalità su A e cambia i diaframmi con la ghiera di comando. Sulle fotocamere dotate di due ghiere, usa quella secondaria, posta anteriormente. Mentre cambi l’apertura di diaframma, la fotocamera automaticamente regolerà il tempo in modo da farti ottenere sempre un’esposizione corretta. Modificare l’apertura di diaframma è facile, ma non sempre da i risultati che ci si aspettano. Per fortuna la Profondità di Campo è condizionata anche dalla lunghezza focale. Una maggiore lunghezza focale riduce la Profondità di Campo. Impostare, invece, una focale più grandangolare (come per esempio 18mm) va bene per provare a mantenere tutto nitido. Quindi se vuoi sfocare lo sfondo usa una focale lunga.
Il terzo fattore è la distanza tra la fotocamera e il soggetto su cui si mette a fuoco. Minore è questa distanza, minore è la Profondità di Campo ottenuta. Questo è evidente con soggetti macro in cui la Profondità di Campo sparisce del tutto ed è possibile mettere a fuoco un singolo dettaglio.
Ma la Profondità di Campo, rispetto al punto di messa a fuoco si estende verso infinito, ma anche verso la fotocamera, e mettere a fuoco sul punto più distante della scena può non bastare per ottenere il massimo della Profondità di Campo.
Sfortunatamente, i tre fattori per controllare la profondità di campo non sempre lavorano in armonia. Potresti decidere di montare un obiettivo grandangolare per aumentare la profondità di campo, ma questo farebbe risultare il tuo soggetto più piccolo nell’inquadratura. Allora potresti decidere di avvicinarti molto di più al soggetto per averlo più grande... ma questo ridurrebbe di nuovo la Profondità di Campo!
TRE MODI PER CONDIZIONARE LA PROFONDITÀ DI CAMPO
Come il diaframma, la distanza di messa a fuoco e la lunghezza focale possono cambiare ciò che apparirà nitido
Le zone rosse indicano quanto della scena dovrebbe essere a fuoco per ciascuna delle nove situazioni proposte.
1. | CAMBIARE IL DIAFRAMMA Più aperto è il diaframma che usi minore sarà la profondità di campo che ottieni. E questo non è uno svantaggio, ma una possibilità in più di gestire l’immagine rendendo meno importanti le parti fuori fuoco. |
2. | CAMBIARE LA DISTANZA DI MESSA A FUOCO Più vicino è il soggetto su cui stai mettendo a fuoco, minore sarà la profondità di campo nella foto. |
3. | CAMBIARE LA LUNGHEZZA FOCALE Anche l’impostazione dello zoom o l’obiettivo che stai usando condiziona la profondità di campo. Minore è la lunghezza focale, maggiore è la profondità di campo ottenuta.. |
di https://www.nikonschool.it/ per
In questa piccola guida vi voglio parlare della profondità di campo in ambito fotografico, cercando di spiegare in maniera semplice che cosa significa, da cosa è influenzata, come controllarla e come fare a calcolarla.
Come scegliere le migliori musiche per un film? Quentin Tarantino è uno dei registi più raffinati nella scelta del soundtrack come ci ricorda questo breve video saggio. Come scegliere le migliori musiche per un film? Quentin Tarantino è uno dei registi più raffinati nella scelta del soundtrack come ci ricorda questo breve video saggio laddove è capace di spaziare dal genere hip hop alla musica classica.
La storia del cinema è passata anche attraverso quegli autori che si opponevano al suono per difendere il primato delle immagini. Una storia vecchia, ma che fa sempre bene ricordare quando si tratta di associare musica ed immagini. Non sempre affidarsi a un musicista può dare il risultato voluto.
Per questo Tarantino è stato molto attento alla scelta dei brani musicali che dovevano "accompagnare" le scene più memorabili nela sua filmografia. Come al solito non basta accompagnare, occore quel virtuoso contrasto tra immagine e suoni da cui possa derivare un immaginesuono unica ed originale. Per intenderci, ci sono ndelle sequenze nella storia del cinema che non riusciremmo ad immaginare senza le musiche: una per tutte 2001 Odissea nello spazio, senza il valzer straussiano, i western di Sergio Leone senza le musiche di Ennio Morricone e così via per infiniti altri esempi.
Nel video di oggi troviamo una conferma al fatto che Tarantino ha operato delle scelte importanti in tutti i suoi film, riuscendo in pratica sempre a raggiungere un risultato apprezzabile. Certo nella filmografia di Tarantino la musica è davvero tutto, perché ispira anche i movimenti dei personaggi come succede nella macabra danza che vediamo nelle immagini da Le iene, durante il momento della tortura. Ma nello stesso film, anche indimenticabile è la sequenza di apertura che presenta i personaggi. Insomma, il video di oggi è solo un approccio parziale al cinema musicale toutcourt di Quentin Tarantino.
da farefilm.it
Wim Wenders non si è mai considerato un vero narratore, ma qualcuno che ama preoccuparsi delle immagini, siano esse quadri, disegni o fotografie: queste ultime lo hanno da sempre interessato e più di qualsiasi altra cosa, persino di più della sua attività cinematografica, “perché ogni foto è più dello sguardo di un uomo ed è superiore alle capacità del suo fotografo”. Lo spiega chiaramente nella prefazione al suo album-saggio, Una volta, che dopo essere stato pubblicato nel 1993, è di recente tornato nelle librerie grazie alla casa editrice Contrasto. “Ogni foto è anche un aspetto della creazione al di fuori del tempo e il poter fotografare è un atto di presunzione e di ribellione: è troppo bello per essere vero, ma è anche altrettanto troppo vero per essere bello”. E’ un’azione priva di conseguenze che avviene in un singolo istante e all'interno di una certa relazione tra l’occhio e la macchina fotografica e di tutto questo potete averne la prova sfogliando questo libro, un gioiello speciale che farà contenti gli estimatori del regista oltre a molti appassionati di fotografia. Ne troverete più di trecento, a colori e in bianco e nero, disposte per sequenze e accompagnate da sessanta piccole storie, tutte scritte da Wenders, tutte con il medesimo incipit (“Una volta”), ma guai a confonderle con le fiabe, perché a lui non sono mai piaciute.
“Mi infastidiscono, perché ho trovato sempre paurosi e terrorizzanti i personaggi, troppo crudeli o inverosimili le situazioni”, si legge nell'intervista che apre il volume, rilasciata a Leonetta Bentivoglio in due tempi (nel 1991 a Monaco di Baviera e nel 1993 a Berlino), ma in ogni caso quel suo particolare ‘C’era una volta’ è da sempre legato ai bambini, perché Wenders è interessato a un certo modo di conoscenza, alla loro visione e al loro rapporto con la realtà. Li vuole sempre nei suoi film e anche in ruoli rilevanti perché non vuole dimenticarsi come cineasta del loro punto di vista, della loro curiosità e di quella innocenza con cui sanno guardare il mondo, ma soprattutto perché sono una fonte di ispirazione continua. Vivendo al momento, ovvero senza curarsi del passato né del futuro, i bambini sono simili ai fotografi – “che devono avere la capacità di vivere per il momento e dentro il momento” – ma mai ai registi – “perché in un film è necessario preoccuparsi sempre dell’insieme, della struttura generale, di quel che viene prima e dopo e non si è mai liberi di vivere solo il momento, ma bisogna mantenersi sempre in rapporto con quel che si è già fatto e con quello che si farà tra una settimana o un mese”.
Fotografare rimane, dunque, per Wenders un’azione quasi infantile, perché priva di conseguenze, una di quelle che avviene in un singolo istante e all'interno di una certa relazione tra l’occhio e la macchina fotografica. Guardando le sue foto (tutte scattate rigorosamente in pellicola) – che restano un attimo di “ascolto del vedere”, la traccia di un incontro irripetibile e senza seguito con un pezzo di mondo - viene sempre in mente una storia diversa, dal momento che la storia può essere differente e non appartenere solo ad un’immagine.
Sono i paesaggi e i grandi spazi illimitati a colpirlo principalmente, dall'Europa con la sua Germania (“la mia infanzia”) all'America (“la mia seconda vita da adulto”), fino all'Australia, passando per la Russia, l’India e la Cina. Quasi mai fotografa persone perché “fare ritratti equivale di solito a fotografare persone che ti guardano” e questo non è una cosa che gli appartiene, neanche nei film, dove l’inquadratura che gli piace di meno è proprio il primo piano. Attraverso i suoi scatti ci fa incontrare personaggi del calibro di Godard, Kurosawa, Handke, Scorsese e Coppola, ma nel farlo ci presta i suoi occhi e, pertanto, quei grandi li vediamo da dietro, da lontano, sfocati o solo accennati, e ciò rende il tutto ancora più particolare.
Quelle foto sono delle vere opere d’arte, delle opere pittoriche dove tutto accade dentro una cornice che stabilisce un ordine preciso all'interno del quale si descrive un pezzo di mondo. Un suggestivo atto creativo volto alla ricerca d’identità (ed è questo che le collega maggiormente al viaggiare, altra sua grande passione) in cui è fondamentale quella “disposizione” (Einstellung, in tedesco), che indica sia l’atteggiamento col quale qualcuno si dispone a qualcosa quanto l’immagine che lo stesso produce. Immagini che colpiscono senza mai scioccare e che incuriosiscono senza mai totalmente affascinare: restano dentro come testimoni di un atto nel tempo nel quale qualcosa viene strappato al suo momento e trasferito in una diversa forma di continuità.
di Giuseppe Fantasia, per L'Huffington Post - Tutte le foto sono © Wim Wenders
Nel corso del presente articolo focalizzeremo la nostra attenzione sull’analisi di alcune specifiche tecniche, generalmente riportate su tutti i data-sheets di proiettori e l’influenza che esse hanno sulla qualità d’immagine di un VPR. Alcune considerazioni potranno sembrare ovvie ai videofili più esperti, ma non possiamo tuttavia esimerci dal riconoscere la necessità di informare quanti si avvicinano alla videoproiezione per la prima volta. E, pensando a quest’ultimi, cercheremo di rispettare il più possibile un approccio di tipo Top-down, scendendo nei particolari ed affinando la nostra analisi solo dopo aver opportunamente stabilito i concetti generali, fornendo informazioni via a via sempre più dettagliate.
Purtroppo, nel nostro paese non si è ancora formata una diffusa cultura della videoproiezione, questo, in parte dovuto proprio alla difficoltà di assistere a dimostrazioni di alto livello, con sistemi sapientemente assemblati. Diciamola tutta: il consumatore medio associa, erroneamente, il concetto di videoproiezione stesso ai sistemi in dimostrazioni nei megastore. Nulla in contrario alla grande distribuzione s’intenda, ma, sfortunatamente non mi è mai capitato di assistere a dimostrazioni di buona qualità in simili luoghi. Anzi, direi che mediamente si osservano: macchine mal tarate, schermi inadeguati, saloni parzialmente illuminati, fasci luminosi che provenendo da luoghi attigui irraggiano direttamente le superfici degli schermi interferendo con il flusso luminoso del proiettore, ed… orrore degli orrori: "proiettori dati" usati per proiettare films. Questi fattori, regolarmente frequenti nelle sale di dimostrazione dei molti centri commerciali sparsi per le nostre città, concorrono a peggiorare enormemente la qualità d'immagine di un sistema di proiezione. E se poi, proprio accanto al pallido e slavato schermo, viene a trovarsi quasi per machiavellica casualità, un monitor al plasma con luminosità e contrasto impostati a fattore "Warp 7" allora il commento entusiasta dei visitatori: "Ehh... il Plasma sì che si vede bene!" diventa condivisibile e perfino assimilabile. Facile capire, davvero facile capire, perché il Plasma rappresenti oggi "l'oggetto del desiderio" del consumatore medio di sistemi Home Theater. Se ignorassi cosa è capace di fare un VPR correttamente scelto ed installato (a saperlo far funzionare), non avrei alcun problema a preferirgli un buon/ottimo plasma.
Un’immagine proiettata, di elevata qualità, è frutto di un sistema articolato nel quale il proiettore è solo uno dei tanti ingranaggi, e dove molti altri fattori concorrono alla qualità finale. Assemblare un ottimo sistema di proiezione non è compito semplice perché il proiettore interagisce con l'elettronica a monte e con l'ambiente circostante esattamente come fanno i diffusori con ampli-sorgente e l’acustica di una stanza. Per questo motivo, sarebbe il caso di iniziare a pensare al proiettore come uno dei tanti anelli di una catena di riproduzione, e ricordare che il grado di sinergia dei singoli anelli e l’interazione tra proiettore e luogo di proiezione, schermo, sorgente video, cavi di connessione, determinano la differenza tra risultati spettacolari e risultati mediocri (anche a fronte di investimenti economici impegnativi). Rispolverando un altro vecchio e buon principio: in una catena di riproduzione video contano più le giuste sinergie che la somma del valore dei singoli anelli della catena.
Ma ora passiamo all’analisi delle nostre specifiche tecniche.
Risoluzione
Come già avevamo avuto modo di abbozzare nella precedente puntata, la risoluzione è uno dei principali parametri caratterizzanti la qualità di visualizzazione di un VPR, assieme al rapporto di contrasto e alla natura della tecnologia di visualizzazione adottata (Crt, Dlp, Lcd).
In generale quando ci si riferisce a proiettori, televisori e monitor Crt, la risoluzione viene indicata mediante una cifra ed accompagnata alternativamente dalla lettera "i" o dalla "p". Ad esempio, 480i indica una risoluzione di 480 linee interlacciate, mentre 720p indica una risoluzione di 720 linee in scansione progressiva.
Nei proiettori digitali la definizione si indica mediante una coppia di valori che esprimono sia la quantità totale di pixels presenti sulla matrice sia la modalità con la quale tali pixels sono posizionati, ad esempio: 800X600, 1024X768, 1024X720.
La prima cifra rappresenta il numero di punti di visualizzazione orizzontali, il numero di colonne della nostra matrice, tanto per intenderci (oppure in altre parole, il numero di pixels presenti in ogni linea orizzontale), mentre la seconda cifra definisce il numero di punti di visualizzazione verticali.
Quando, riferendoci a proiettori digitali parliamo di risoluzione, prendiamo sempre in considerazione la sola risoluzione nativa, vale a dire il numero di pixels fisicamente presente sulla matrice Lcd o sul chip Dlp.
I proiettori digitali possono, all’occorrenza, visualizzare anche un set di risoluzioni differenti da quella nativa, ma per farlo si rendono necessari complicati calcoli per la rilocazione dei pixels, procedimento che comporta inevitabilmente un incremento della quantità di artefatti digitali nell’immagine. Quest’ultima distinzione si rende necessaria poiché molti data-sheets riportano anche le risoluzioni visualizzabili mediante tecniche di rilocazione, occorre dunque puntualizzare che la miglior qualità di visualizzazione si ottiene unicamente con la risoluzione nativa, quella fisica.
Quanto più alto il numero di pixels fisicamente presenti, tanto maggiore la capacità di rappresentare su schermo immagini dettagliate, dai contorni fluidi e continui. Pertanto, si può affermare con tranquillità che la risoluzione è un indicatore dell’accuratezza o del dettaglio riproducibile.
Inoltre, quanto più alta la risoluzione nativa tanto minore la percezione di pixelation, quanto più bassa la risoluzione nativa e tanto maggiore la probabilità di avvertire la retinatura anche ad elevata distanza dallo schermo.
Come abbiamo avuto modo di illustrare nel precedente articolo, la retinatura è funzione diretta dell’area inattiva delle nostre matrici digitali, e di conseguenza dipendente dal rapporto d’apertura. Questo conferma, una volta ancora, che l’unica risoluzione veramente influente è la nativa, rilocare infatti un’immagine di 1024x768 in una matrice di 800X600 non comporterebbe alcun controllo sulla retinatura, giacché la percentuale di area attiva di visualizzazione permarrebbe immutata, anzi introdurrebbe ulteriori artefatti digitali.
Qui di seguito riportiamo un esempio d’immagine con retinatura e la stessa immagine senza traccia del retino.
La nostra continua ricerca della qualità assoluta dovrebbe farci tendere verso il prodotto con maggior risoluzione giacché l’incremento della risoluzione assicura altri effetti benefici oltre a quelli già menzionati. Risoluzioni elevate offrono maggior grado di libertà nella determinazione della:
- distanza minima di osservazione
- dimensione massima dello schermo
Per darvi un metro di paragone: un’immagine prodotta da un proiettore con matrice di 800X600 punti, proiettata su di uno schermo da 80" di larghezza, ed osservata da una distanza di 4 metri, lascia ancora intravedere la propria retinatura. A parità di larghezza d’immagine e distanza d’osservazione, la retinatura diventa meno visibile utilizzando matrici da 1024X768, e quasi impercettibili o appena intuibili con risoluzioni native di 1280X1024.
Se ne deduce che, la scelta migliore relativamente al parametro risoluzione, ricadrà sempre sul proiettore con risoluzione nativa superiore. Per dirla in soldoni: è decisamente meglio portarsi a casa una macchina con matrice di 1280X1024 che una con matrice da 800X600.
Ovviamente, per beneficiare a pieno delle risoluzioni elevate è necessario che il segnale all’origine abbia la stessa risoluzione della matrice del proiettore (ma di questo parleremo in futuro).
Aspect Ratio (Formato)
L’informazione di risoluzione oltre a fornirci con esattezza il numero di pixels fisicamente presenti nella matrice, ci permette anche di dedurre il tipo di formato nativo della matrice usata. Risoluzioni quali 800X600, 1024X768, e 1280X1024 , 1600X1200 (UXGA), indicano l'uso di matrici in formato 4:3; le risoluzioni 854X480, 954X544, 1280X720, 1366X768, indicano invece l’uso di matrici in formato 16:9. Al momento attuale, la risoluzione minima desiderabile, nel caso di formato 4:3, corrisponde a 1024X768, mentre la risoluzione minima desiderabile per una matrice 16:9 è 1280X720.
L’aspect ratio, è un indicatore del rapporto che intercorre tra larghezza dell’immagine e la sua altezza. Il rapporto 4:3, ad esempio, indica che la larghezza dell’immagine equivale a 1.33 volte la sua altezza, e cioè 4/3=1.33. Nel caso del formato 16:9, se ne deduce che la larghezza corrisponde a 1.77 volte l’altezza, per questo motivo il formato 16:9 può essere indicato anche come 1:1.77, che equivale a dire che ad ogni unità di altezza corrispondono 1.77 unità di larghezza, in soldoni: la larghezza è 1.77 volte l’altezza dell’immagine.
La realizzazione di matrici native in formato 16:9 risponde all’esigenza di avvicinare la risoluzione nativa dei moderni proiettori al formato cinematografico originale memorizzato nei nostri DVD.
Sappiamo che il materiale cinematografico prodotto sino a metà del secolo scorso, era girato in 4:3, solo a partire dalla seconda metà del ’900 il cinema iniziò ad utilizzare formati sempre più allungati orizzontalmente per aumentare la dimensione degli schermi e la spettacolarità senza troppo affaticare la visione umana. La produzione cinematografica attuale utilizza esclusivamente il formato Widescreen (1:85) e il formato CinemaScope (2:35), di conseguenza tutte le trasposizioni di materiale cinematografico utilizzano il formato 16:9.
La maggior parte delle telecamere ad uso video producono invece immagini nel formato 4:3, di conseguenza la quasi totalità dei programmi televisivi, serials, telefilms, programmi musicali, riprese dei concerti, sono in formato 4:3.
La scelta del vostro proiettore, relativamente all’aspect ratio, dovrebbe privilegiare unicamente le vostre abitudini e gusti in fatto di programmi d’intrattenimento. Se intendete usare il proiettore prevalentemente per la programmazione sportiva o i telefilms, allora la scelta giusta non può essere che il 4:3, se al contrario il vostro obiettivo è riprodurre nell’intimità della vostra casa l’emozione dello spettacolo cinematografico allora il formato migliore è il 16:9.
Ad ogni modo, un proiettore 4:3 non preclude la fruizione di materiale in 16:9 e viceversa, anche se significa perdere aree di visualizzazione utili.
Luminosità
Un altro parametro molto importante è la luminosità, molto importante ma non fondamentale o "il più importante" come invece vorrebbe farci credere certa pubblicità.
La luminosità indica la quantità di luce irraggiata dal Vpr su una superficie, misurata in lumen secondo lo standard ANSI (cercate di ricordare questo concetto perché vi ritorneremo spesso in futuro).
Come vi dicevo, la luminosità non è di per sé una misura qualitativa, ma solo quantitativa. Essa non ci fornisce alcuna indicazione sulla bontà dell’immagine che il nostro ipotetico VPR proietterà, non fornisce indicazioni sulla sua intellegibilità, ed ancor meno sull’accuratezza. In definitiva, non possiamo assolutamente basarci sulla sola indicazione di luminosità per determinare a priori la supposta superiorità di un modello rispetto ai concorrenti. Se così fosse i tritubo sarebbero esclusi a priori da qualunque valutazione comparativa, fuori gara con i loro "modesti" 200-240 ANSI lumen.
Di per sé la misura di luminosità indica solamente quale dei proiettori oggetti di valutazione produce maggior quantità di luce, tutto qui.
La luminosità assume invece significato concreto quando rapportata ad altri parametri, quali:
-dimensione dello schermo
-caratteristiche di riflettività dello schermo
-luminosità ambientale
-caratteristiche di riflettività di tutte le pareti degli oggetti presenti nella stanza
La luminosità finale di un sistema di proiezione, così come l’occhio umano la percepisce, sarà il risultato della combinazione dei fattori sopra menzionati. In particolare diminuisce al crescere della dimensione dell’immagine proiettata (dimensione schermo), diminuisce al crescere della luminosità ambientale, diminuisce al crescere del coefficiente di riflettività delle pareti, ed infine diminuisce al decrescere del fattore di guadagno dello schermo (il gain).
Le due immagini riportano un esempio di luminosità inadeguata (foto sinistra) e buona luminosità (foto a destra). Come si può facilmente notare a "farne subito le spese" sono i dettagli nelle aree più scure del fotogramma (notate ad esempio quanto il corridoio alle spalle dei robot si confonda in un impasto scuro nella foto a sinistra), ma anche le aree di maggior intensità luminosa perdono slancio (confrontate ad esempio il corpo metallico dei robot o il pannello giallo-arancio alla destra della porta), la sensazione globale che se ne trae è di una generale mancanza di vivacità dell’immagine.
A questo punto qualcuno potrebbe pensare che: più luminoso = meglio. Non sempre!
A contrario di quel che si potrebbe istintivamente credere (e la pubblicità si impegna molto a farcelo credere), non sempre al crescere della luminosità prodotta corrisponde un aumento dell'intellegibilità e gradevolezza d'immagine. Oltre certi valori si rischia infatti di saturare la gamma dinamica dell'immagine riducendo la rilevabilità di dettagli nelle aree più chiare.
Prendiamo ad esempio i due fotogrammi sopra riportati. Dopo un’occhiata superficiale il fotogramma di destra può dare una sensazione di maggiore vivacità, ma basta osservare e confrontare con più attenzione le due foto per comprendere che l’eccessiva luminosità ha illuminato a tal punto lo schermo di destra che i dettagli più chiari si schiantano letteralmente in un "impasto indefinito di bianco" (fate caso alle striature sulla pinna dorsale del pesce più grande "Branchia", o le arcate del teatro di Sidney oltre la finestra, ad esempio).
Per darvi alcuni termini di paragone:
- un proiettore con luminosità di 500 ANSI lumen è considerato più che sufficiente per svolgere degnamente compiti in amito HT, a patto che la stanza permanga sempre debitamente oscurata e si mantenga la dimensione dello schermo entro gli 80", per ottenere il miglior "punch".
- Luminosità di 800-1000 ANSI lumen, permettono l’accensione di punti luce all’interno della stanza, anche se ovviamente la massima incisività si ottiene in condizione di completa oscurità. Con 1000 ANSI lumen si possono iniziare ad usare schermi generosi, diciamo dai 100" ai 119".
- Luminosità di 2000 ANSI ed oltre, se da un lato offrono maggiore libertà operativa dall’altro possono creare ulteriori problemi, richiedendo un’oculata scelta della dimensione dello schermo e del materiale che ne costituisce la superficie, nonché un’attenta valutazione della distanza di osservazione giacché incrementando la dimensione dello schermo si aumenta la percettibilità della pixelation. Per questo motivo la scelta del proiettore non può prescindere l’accurato studio del luogo nel quale sarà inserito.
La luminosità di un proiettore può essere espressa in lumen o ANSI lumen. Fate molta attenzione all'unità di misura utilizzata poiché sottoindende metodi di misurazione decisamente differenti.
Nel caso di valori espressi in lumen, la misura fa riferimento alla luminosità di picco al 10% del bianco. Tale valore si misura proiettando un rettangolo bianco di dimensioni ridotte (generalmente 10%-20% dell’area massima visualizzabile) e registrando la luminosità nel rettangolo. Questa procedura trova giustificazione nel fatto che durante la proiezione di materiale video la quantità di bianco presente in ogni singolo fotogramma varia tra il 10% e il 30% dell’intera immagine, i casi di fotogrammi interamenti bianchi sono rarissimi se non inesistenti durante fruizione di materiale video. L’opposto avviene durante la proiezione di materiale informatico dove spesso si rende necessaria la visualizzazione di grafici e dati su fondo completamente bianco, ecco perché ancora oggi ha senso poter esprimere la luminosità massima in lumen e ANSI lumen. Per le nostre finalità video, la misura in lumen risulta più che sufficiente, l’organizzatore di un centro conferenze avrà al contrario necessità di conoscere la misura in ANSI prima di ordinare un VPR.
Valori espressi in ANSI lumen indicano, la luminosità massima sull'intera superficie dello schermo, ottenuta come media delle singole misure effetuate in 9 differenti sottoaree dello schermo.
Secondo lo standard ANSI (American National Standard Institute) il proiettore deve illuminare di bianco l'intera superficie dello schermo, superficie che verrà opportunamente suddivisa in 9 quadranti, 3 orizzontali e 3 verticali, al centro dei quali sarà posizionato il sensore per la misurazione. Il sensore verrà spostato di volta in volta da un quadrante a quello successivo, ottenute le nove letture di luminosità, se ne effettuerà la media matematica, il risultato di suddetta media andrà poi moltiplicato per la superficie totale dello schermo (espressa in mq). Il valore così ottenuto fornisce la misura del flusso luminoso espresso secondo lo standard ANSI.
Sfortunatamente non tutti i data-sheets riportano la misura di massima luminosità al 10% del bianco (la luminosità espressa in lumen), tale misura è particolarmente importante quando si analizzano proiettori Crt.
I migliori proiettori Crt, nonostante i "soli 220-240 ANSI lumen", possono arrivare a produrre luminosità di 1300 lumen al 10% del bianco.
Per questo motivo, durante la fruizione di materiale video, l’immagine proiettata da un VPR Crt da 1300 lumen risulta doppiamente più luminosa rispetto a quella dei concorrenti digitali da 600-700 ANSI lumen. In verità, il Crt risulta più luminoso anche di macchine digitali da 1000-1300 ANSI lumen, per via del miglior rapporto di contrasto.
Se ne desume che:
- poste due immagini di ugual luminosità misurata, la vista umana percepisce l’immagine con miglior rapporto di contrasto come più luminosa; ecco finalmente spiegato perché la tecnologia Crt continua a battersi dignitosamente sotto il profilo della luminosità anche quando contrapposta a tecnologie capaci di output luminoso decisamente superiore.
Quanto detto, vale unicamente per il materiale video in locali a luminosità ambientale controllata (che poi risulta essere il nostro campo di interesse), e non si applica in alcun modo alla visualizzazione di dati.
Rapporto di Contrasto
Il contrasto è, assieme alla risoluzione, il parametro di maggior importanza per valutare la qualità d’immagine dei proiettori video.
Nei nostri data-sheets il contrasto viene indicato come rapporto tra la massima e la minima luminosità espresse in lumen.
Un rapporto di contrasto di 600:1, ad esempio, indica che:
la luminosità (espressa in lumen) di un’immagine completamente bianca è 600 volte maggiore della luminosità (sempre in lumen) di un’immagine completamente nera. In altre parole, il rapporto di contrasto è un indicatore di escursione dinamica di un proiettore.
Un proiettore con alto rapporto di contrasto proietterà, sempre, immagini più ricche e con colori più saturi rispetto ad un proiettore con basso rapporto di contrasto, proprio perché l’escursione tra il bianco ed il nero è maggiore.
Un proiettore con rapporto di contrasto insufficiente produrrà una non ben definita tonalità di grigio al posto del nero. Inoltre, la capacità di un videoproiettore di visualizzare i dettagli, durante scene scure, cresce al crescere del rapporto di contrasto.
Sfortunatamente, quest’abilità è appannaggio di macchine ad altissimo rapporto di contrasto, molto lontane dai classici 400:1 dei singoli pannelli Lcd.
Quanto minore il rapporto di contrasto e tanto maggiore il numero di dettagli che si perderanno in un "impasto di grigi", cosa particolarmente irritante durante la visione di materiale con lunghe sequenze scure.
Ricordate che la capacità di "risolvere" i dettagli in scene scure è una delle qualità maggiormente desiderabili in un proiettore per uso video.
Le immagini seguenti simulano la differenza di contrasto avvertibile passando da un VPR Lcd con rapporto di 400:1 ad un VPR Crt con rapporto di contrasto di > 1.000:1.
Il rapporto di contrasto influenza anche l’illusione di tridimensionalità di un’immagine. Le immagini sotto riportate rendono, a mio parere, distintamente la percezione di compressione dei piani di profondità dovuti ad un basso rapporto di contrasto.
Nel primo fotogramma i due attori sembrano comprimersi contro il fondale roccioso annullando quasi completamente il senso di tridimensionalità che invece perviene dal fotogramma a destra. Nell’immagine con minor rapporto di contrasto (sinistra) si perde anche l’intellegibilità di moltissimi dettagli scuri e medio scuri (confrontate ad esempio le ombre dei capelli riportate sulla fronte degli attori, o le ombreggiature create dalle pieghe dei tessuti).
Livello di Rumorosità
In genere si pone poca attenzione al livello di rumorosità di un proiettore (a contrario della luminosità, non è tra le caratteristiche che fanno vendere), gli stessi manuali e depliant pubblicitari relegano questa misura, a mio avviso importante, alle ultimissime posizioni. La rumorosità di un proiettore può, in certi casi, diventare motivo di distrazione, soprattutto durante la visione di film particolarmente silenziosi e lenti. Pensiamo ad esempio alle lente e assolutamente silenziose sequenze, di "2001 Odissea nello spazio". Potete star certi che Kubrik le aveva studiate ad arte per creare atmosfere ora alienanti, ora trasbordanti tensione. Ve le ricordate? Ecco… vi posso assicurare che un proiettore rumoroso è in grado di riportarvi immediatamente a terra, col sedere ben piantato sulla vostra poltrona buona, distruggendo all’istante l’atmosfera surreale che il regista tentava creare.
Il livello di rumorosità di un proiettore viene misurato in dB (decibel), che è una scala logaritmica ed indica il livello di pressione acustica di un suono rispetto ad un suono di riferimento. Un incremento di 3dB viene percepito dall’orecchio umano come un raddoppio dell’intensità sonora, al contrario una diminuzione di 3dB viene avvertita come dimezzamento dell’intensità sonora. Quindi, differenze che sulla carta possono sembrare di poco conto potrebbero rivelarsi molto meno trascurabili all’atto pratico.
Giusto per darvi il solito metro di paragone: 10dB equivalgono al fruscio di un vento debole, 20dB al vento, 30dB al frusciare di foglie o il rumore di fondo di una biblioteca, ecc…
I migliori proiettori attualmente in produzione producono livello di rumorosità compreso tra i 20 ed i 30dB, che è già un ottimo livello, tuttavia sufficiente a disturbare più d’un soggetto sano di udito. Sfortunatamente ci possiamo basare solo sui dati riportati nelle specifiche tecniche giacché è difficilissimo riuscire a valutare all’atto di una dimostrazione (negozi, fiere) l’impatto acustico che un dato VPR può generare nel nostro ambiente domestico.
Nella maggior parte dei casi però, è sufficiente evitare di installare il proiettore esattamente sopra la testa del pubblico, per ottenere un inserimento in ambiente acusticamente tollerabile. Nel peggiore dei casi si può pensare di installare il VPR all’interno di una controsoffittatura, oppure realizzare un’apposita scatola che ne limiti l’emissione sonora in ambiente.
Riassumendo: se la rumorosità del nostro VPR è troppo elevata basterà allontanarlo il più possibile dal pubblico o, nella peggiore delle ipotesi, isolarlo acusticamente.
Nuovi consigli per tutti i nostri aspiranti direttori della fotografia là fuori, stavolta, provenienti dal professionista Jas Shelton, la cui filmografia comprende opere quali A casa con Jeff di Jay/Mark Duplass, The Stanford Prison Experiment di Kyle Patrick Alvarez e le serie tv First Day e Togetherness.
Leggi tutto: Consigli per aspiranti direttori della fotografia?
Mi è capitato tante volte di farmi la stessa domanda: se i miei film preferiti non fossero stati accompagnati da quella particolare colonna sonora, li avrei amati allo stesso modo? Chissà, credo sia impossibile stabilirlo. Una cosa, però, è certa: la componente musicale di ogni film, per me, fa la differenza. Moltissima differenza. Ecco perché ho deciso di stilare una lista, assolutamente soggettiva! Ho dovuto necessariamente fare una scelta (ardua) basata ovviamente sulla mia esperienza e sui miei gusti, escludendo i Musical.
E allora, in ordine assolutamente casuale, ecco le prime 5!
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Mi chiamo Sam(I Am Sam)(Jessie Nelson, 2001)
Un’incredibile interpretazione di Sean Penn, nei panni di un quarantenne con un ritardo mentale che vive con la figlia Lucy (interpretato dall’allora piccolissima Dakota Fanning), con la partecipazione di Michelle Pfeiffer. Film commovente, delicato e profondo, che non si dimentica.
LA COLONNA SONORA: UN PICCOLO GIOIELLINO.
Sì, la colonna sonora è stupenda (lo ammetto: sono di parte) e l’ho regalata molte volte, ma a dirla tutta vince a mani basse: la sua particolarità sta nel fatto di essere composta esclusivamente da cover dei Beatles. Inizialmente si volevano includere le versioni originali ma dato che Sean Penn (attore protagonista del film) non è riuscito ad ottenere i diritti per l’uso dei brani originali, ha ingaggiato dei nuovi artisti per incidere queste cover: un tributo riuscitissimo!
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Forrest Gump (Robert Zemeckis, 1994)
Cosa si può dire di questo film che non sia già stato detto?
Ormai un classico del Cinema, il film descrive la vita di Forrest Gump, un uomo dotato di uno sviluppo cognitivo inferiore alla norma, nato negli Stati Uniti d’America a metà degli anni quaranta, attraverso la cui storia il regista Robert Zemeckis trova il pretesto per raccontare i più importanti avvenimenti della storia statunitense.
LA COLONNA SONORA: UN MUST.
I titoli iniziali si aprono col famosissimo tema “The Feather Theme”, composto da Alan Silvestri (con cui Zemeckis aveva già lavorato in Ritorno al futuro) che ha scritto anche tutti i pezzi musicali strumentali che accompagnano il film.
Per Forrest Gump sono stati scelti brani dal vastissimo repertorio musicale dal dopoguerra fino agli anni ’90: spaziando da Elvis Presley a Simon e Garfunkel, dai Doors a Bob Dylan, la colonna sonora di Forrest Gump è costellata da perle musicali che hanno accompagnato tutte le fasi storiche e culturali della storia americana. È stato uno degli album più venduti negli Stati Uniti, arrivando a 12 milioni di copie vendute.
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Il buono, il brutto, il cattivo (Sergio Leone, 1966)
Uno dei capolavori di Sergio Leone, è considerato la quintessenza del genere spaghetti western. Ambientato nel 1862 negli Stati Confederati d’America, dove infuria la guerra di secessione tra la Confederazione sudista e l’Unione nordista, racconta di una vera e propria caccia al tesoro da parte dei tre protagonisti, appunto “Il Buono (Clint Eastwood), il Brutto (Eli Wallach), il Cattivo (Lee van Cleef).
Mi ricordo ancora quando, ancora piccola, mio papà aspettava con trepidazione la messa in onda del film in questione, prevista “alle 20:30 su Rai Uno” (vi ricordate? si andava a letto prima, evidentemente, negli anni ’80!). Allora non capivo la trama, ma di certo mi ricordo quanto fascino esercitasse su di me quella musica così suggestiva!
Piccola curiosità: il brano “L’estasi dell’oro”, viene spesso utilizzato dai Metallica per aprire i loro concerti.
LA COLONNA SONORA: CAPOLAVORO.
La colonna sonora è affidata a Ennio Morricone, amico d’infanzia di Sergio Leone: un capolavoro musicale al servizio di ogni singola immagine, incredibilmente innovativo. Morricone si avvale di spari, fischi, cori sovrapposti, grida e jodel, che contribuiscono a ricreare l’atmosfera suggestiva che caratterizza il film. Il motivo principale, somigliante all’ululato del coyote, è una melodia composta solamente da due, riconoscibilissime note e viene utilizzata per i tre personaggi principali del film, ma con un differente strumento usato per ognuno: flauto soprano per il Buono, la voce umana per il Brutto e l’ocarina per il cattivo.
Durante la famosissima scena del “Triello” (o stallo messicano) trascorrono ben 7 minuti senza alcun dialogo: l’unica a parlare è la musica che arriva dritta al cuore, mentre gli sguardi dei protagonisti creano una tensione che sembra quasi si possa tagliare col coltello.
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Ritorno al futuro (Robert Zemeckis, 1985)
Indubbiamente il mio film preferito di sempre! Chi mi conosce bene sa perfettamente che non c’è cosa peggiore di guardare questo film in mia compagnia: anticipo ogni singola battuta, mi emoziono e trattengo il respiro ancora oggi!
È forse il più significativo film sui viaggi nel tempo e sicuramente, malgrado gli effetti speciali siano considerevolmente migliorati nel corso degli anni, non dimostra l’età che ha.
Marty è un diciassettenne del 1985 che, grazie all’incredibile invenzione del suo amico scienziato Doc, si ritrova catapultato nel 1955 con una macchina del tempo costruita modificando una Delorean: dovrà sistemare qualche paradosso temporale in cui si ritrova suo malgrado, che potrebbe irrimediabilmente interferire con la tessitura del continuum spazio-tempo e che potrebbe distruggere l’intero Universo. Grazie al suo amico Doc dell’anno 1955 Marty riuscirà a tornare nel 1985, sistemando il passato ma anche (soprattutto) il nuovo futuro.
LA COLONNA SONORA: SUGGESTIVO.
La complessa trama del film ha offerto la possibilità di creare una colonna sonora davvero eterogenea: la parte orchestrale, maestosa ed intensa, venne affidata ad Alan Silvestri, che fu in grado di sottolineare ogni sfumatura del film grazie al bellissimo tema musicale così riconoscibile già dalle prime due note, che compare anche nei due film successivi, che completarono la trilogia di “Back to the Future”.
“The Power of Love” è il singolo che Huey Lewis scrisse proprio per il film; stranamente, però, la canzone non ha precisi riferimenti alla trama del film, poiché di fatto è sostanzialmente una canzone d’amore (ma forse è perfetta proprio per questo!). Huey Lewis and the News (il suo gruppo) firmò anche la canzone “Back in time”, che accompagna i titoli di coda. Tra i brani che compaiono del film spiccano ovviamente le hit degli anni ’50, come la celeberrima “Johnny B. Goode” scritta da Chuck Berry (che nel film viene suonata e cantata proprio da Marty durante il ballo scolastico nel 1955), “The Ballad of Davy Crockett”, Pledging My Love e “Mr. Sandman”.
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Bianco, rosso e Verdone (Carlo Verdone, 1981)
Il film è un comico road movie ambientato in Italia nei primi anni ottanta diretto da Carlo Verdone. I protagonisti sono tre uomini, tutti interpretati da Carlo Verdone, che si mettono in viaggio per raggiungere i rispettivi seggi elettorali: Furio, un funzionario statale estremamente logorroico e paranoicamente pignolo in viaggio con moglie e figli; Mimmo, un giovane ingenuo e goffo ma allo stesso tempo affettuoso e premuroso con sua nonna e Pasquale, un emigrato del Sud Italia residente a Monaco di Baviera, che tornando in Italia dopo tanto tempo, trova un’accoglienza tutt’altro che calorosa.
La bravura di Verdone come attore è pari alla sua capacità di regista: è bravissimo infatti a “caricaturizzare” i tre personaggi e a racchiudere in essi (che sono diventati un cult per gli amanti del cinema italiano) e nelle loro storie i cliché, le contraddizioni e le peculiarità del nostro Paese di quegli anni, un’Italia di cui, forse, abbiamo addirittura un po’ di nostalgia.
LA COLONNA SONORA: INTRAMONTABILE.
Ebbene sì, sono ripetitiva e noiosa: ancora una volta, ecco una colonna sonora interamente firmata da Ennio Morricone, che si misura questa volta in una pellicola comica, con estremo successo, non deludendoci neanche questa volta.
Morricone è bravissimo a sottolineare i tre personaggi e le loro spiccatissime caratteristiche: per farlo, per esempio, si avvale di strumenti quali mandolino e fisarmonica, tipici della tradizione italiana, che danno voce all’emigrante Pasquale nella “Marcetta popolare” o della bravura del whistler Alessandro Alessandroni che col suo fischio accompagna il corteggiamento quasi danzante in autostrada da parte del musicista bello e dannato verso la “desperate housewife” Magda, moglie esasperata del pignolo Furio. Struggente e perfetta la musica che accompagna il finale a sorpresa, scena in cui finalmente l’ingenuo Mimmo riesce a raggiungere il seggio elettorale in cui dovrà votare la nonna, la bravissima e compianta Sora Lella (Elena Fabrizi).
Vi aspetto per la seconda parte di questo articolo, in cui parlerò delle altre 6 colonne sonore che ho amato.
E voi? Quali sono le colonne sonore che avete amato?
di Ilenia Soprano da yamahamusicclub.it
Le videocamere appartenenti alla fascia professionale (tipo prosumer) hanno già previsti ingressi microfonici bilanciati, identificabili perché al posto del jack si possono osservare due connettori del tipo XLR (grossi e rotondi). La scelta di non applicare delle linee bilanciate sulle telecamere di fascia media dipende prima dal costo dei microfoni bilanciati di tipo xlr, dalla complessità del circuito elettronico e dallo spazio non disponibile nei ridottissimi châssis delle telecamere, tanto da non permettere l'inserimento degli ingombranti connettori XLR.
Il vantaggio del loro uso è evidente, soprattutto se vengono usati dei microfoni senza filo, possiamo cioè mettere i microfoni a spillette (come fanno in tv) persino nascondendole sotto la camicia, se stiamo registrando una ficion, e nascondere il trasmittente del radiomicrofono da qualche parte negli abiti degli attori, mentre il ricevente lo attacchiamo ad una delle 2 (normalmente presenti) prese XLR. Così possiamo far parlare 2 attori in contemporanea, senza far vedere i microfoni, anzi riprendendo in modo perfetto ciò che dicono anche se si muovono e non parlano rivolti verso la nostra telecamera.
Il loro costo non è altissimo, ma in ogni caso il risultato sarà professionale. Ed è questo quello che conta per il nostro lavoro.
"Tutto quanto precede il montaggio è semplicemente un modo di produrre una pellicola da montare" Stanley Kubrick
"Lo scopo del montaggio è conferire alla rappresentazione cinematografica significato e logica narrativa" (enciclopedia Garzanti). Ma non solo; per il cineasta William Dieterle : "Il montaggio non è semplicemente un metodo per mettere insieme scene e frammenti distinti; in realtà, è un metodo per guidare, in modo deliberato e forzato, lo spettatore". Dunque, con il montaggio, l'autore organizza la sua opera articolando immagini in modo da condurre lo spettatore, secondo il proprio punto di vista, in un percorso espressivo e concettuale personalissimo. Più semplicemente il montaggio è lo stile del film e, pare chiaro, che organizzare la semplice concatenazione delle inquadrature e la loro sequenzialità ne è lo scopo meno rilevante; con il montaggio il cineasta predispone un'esperienza emotiva ma anche e soprattutto intellettuale di straordinario impatto.
Nel periodo del muto, per il russo Vsevolod I. Pudovkin , "ll montaggio è dunque il vero linguaggio del regista (...); l'atto creativo cruciale nella produzione di un film (...); per giudicare la personalità di un regista cinematografico non si deve far altro che osservare i suoi metodi di montaggio. Quello che per uno scrittore è lo stile, per il regista è il suo modo particolare ed individuale di montaggio". E ancora, l'autore attraverso il montaggio può "costringere lo spettatore a guardare non come egli è abituato a vedere". Un cinquantennio più tardi poco è cambiato; Jean-Luc Godard , regista del sonoro sostiene: "Dire regia è automaticamente dire, ancora e di nuovo, montaggio. Quando gli effetti di montaggio superano per efficacia gli effetti di regia, la bellezza della regia stessa ne risulterà raddoppiata"; e per George Lucas infine: "... è la quintessenza del cinema come forma d'arte".
Ma torniamo ad inizio secolo: convenzionalmente si ritiene che Georges Méliès con "Il viaggio della luna" del 1902 e "Il viaggio attraverso l'impossibile" del 1904, sia stato il primo ad introdurre la narrazione cinematografica: le sequenze, riprese con piano fisso, venivano collegate tra loro con il montaggio-incollaggio di spezzoni di pellicola (rulli o bobine). Ma solo quando, da questo semplice incollaggio, si è passati al montaggio cinematografico vero e proprio, si è avuta la «liberalizzazione» della macchina da presa: da piani fissi e statici, responsabili di riprese di «natura», teatrale si diventa improvvisamente capaci di esprimere un linguaggio artistico. Il montaggio cinematografico in quanto tale, lo si deve, in forma embrionale, soprattutto a Edwin Stanton Porter in "Vita di un pompiere americano" del 1902 e "La grande rapina al treno" del 1903. David Wark Griffith seguendo la strada intrapresa da Porter e da altri pionieri, intuì che in una sequenza le singole inquadrature dovevano essere montate tra loro in base ad esigenze di necessità drammatica. Si deve a lui, principalmente, la codifica del linguaggio cinematografico e la sperimentazione dei vari aspetti. Per la prima volta ha impiegato magistralmente il primo piano, considerato per l'epoca un'audace novità, il flashback, con cui fu possibile rompere la linearità del tempo filmico proiettando alcune scene cronologicamente antecedenti e il montaggio alternato, che ha permesso le cosiddette sequenze di «salvataggio all'ultimo minuto» che, staccando continuamente dalle sequenze dedicate al salvato a quelle del salvatore, ci tengono continuamente con il fiato sospeso. Ma se a D.W.Griffith , di cui ricordiamo almeno "La nascita di una nazione" del 1915 e "Intolerance" del 1916, si deve gran parte della nascita del cinema in quanto arte, a Vsevolod I.Pudovkin e Sergej M. Ejzenstejn , per il muto, ed a Orson Welles per il sonoro, se ne deve gran parte dell'evoluzione.
Karel Reisz e Gavin Millar scrivono: "Fin dagli inizi della carriera Griffith si rese conto che riprendere un'intera scena a distanza fissa imponeva grossi limiti alla narrazione.Volendo mostrare allo spettatore il pensiero o le emozioni di un personaggio, capì che il modo migliore per farlo, era quello di avvicinare la macchina da presa, registrando così con più precisione l'espressione del viso (...); la scoperta fondamentale di Griffith è stata quella di rendersi conto che una sequenza deve essere composta da singole inquadrature incomplete, scelte ed ordinate in base a motivi di necessità drammatica". E sostengono ancora che: "Il cinema, attraverso il montaggio si è trasformato da semplice mezzo per registrare l'attualità in un mezzo estetico di grande sensibilità". Dunque il lavoro di montaggio è rilevante sia sul piano pratico, in quanto dà struttura e ritmo al film, sia su quello estetico, poiché influisce inevitabilmente anche sulla recitazione. La sua importanza è prioritaria e molti lo considerano l'essenza stessa del cinema, "L'elemento peculiare (specifico filmico) che permettere al cinema di assurgere ad autonoma espressione artistica". L'introduzione del sonoro consentì al cinema di raccontare storie più complesse di quanto non fosse possibile ai tempi del muto: non solo le scene risultarono più realistiche, ma la musica, i rumori e soprattutto i dialoghi, ne accentuarono l'impatto drammatico. Per questo, ma anche per problemi di natura tecnica legati alla presa diretta del sonoro che limitava fortemente la mobilità degli attori, il linguaggio basato sul montaggio, per qualche tempo non progredì; ma ben presto, insieme alla recitazione ed alla stesura dei dialoghi , tornò ad essere "Il principio fondamentale dell'arte cinematografica". È intuitivo, infatti, che consente una profondità della narrazione, che in teatro per esempio è quanto mai impossibile; una rappresentazione teatrale si potrebbe paragonare ad una scena ripresa in campo lungo con macchina fissa. Frammentando l'avvenimento in brevi inquadrature di diversa durata, angolo e piano di ripresa, si può controllare in modo più efficace l'intensità drammatica dei fatti mentre la narrazione avanza, riuscendo a comunicare un senso di movimento altrimenti impossibile con un piano sequenza, un campo lungo o anche con un montaggio invisibile; inoltre le inquadrature sui particolari descrivono la storia in modo completo e convincente, quindi più vicino alla realtà di quando non possa fare un'unica inquadratura in campo lungo.
Il montaggio invisibile è particolarmente usato nel cinema classico e in quello americano ( John Ford e Frank Capra ); è funzionale alla trasparenza della storia e la macchina non rivela mai la sua presenza a vantaggio della fluidità visiva e della narrazione, più continua ed omogenea. In parole povere la regia, durante la visione, non si avverte mai. Nel cinema europeo e in quello d'avanguardia, invece, il cineasta solitamente lascia il segno della propria personalità con un montaggio che si discosta da norme e convenzioni, imponendo il suo ritmo con continui cambi d'inquadrature sia nelle angolazioni che nei piani. La macchina da presa allora diventa parte attiva della narrazione (non occhio distaccato come accade in una scena fissa generalmente in campo lungo). In genere il responsabile del montaggio è il produttore e/o il regista. È da notare però che soltanto alcuni cineasti di grande successo possono permettersi il controllo e la supervisione del montaggio, il cosidetto the last cut (il taglio finale)!
Il tecnico di montaggio, il montatore, ha il compito e la possibilità di scegliere vari fotogrammi della stessa inquadratura per trovare il punto in cui lo stacco risulta drammaticamente più efficace: non solo riordina la successione delle sequenze, ma ne interpreta e valorizza i particolari. Walter Murch , il solo ad essere stato premiato con un doppio Oscar per il montaggio sia dell'immagine che del suono dello stesso film ( "Il paziente inglese", 1996, di Anthony Minghella), ha montato tra l'altro "Apocalypse Now", "La conversazione" e l'intera saga de Il Padrino di Francis Ford Coppola ; sostiene che una delle responsabilità fondamentali del montatore è: "Costruire un ritmo interessante e coerente di emozioni e di pensieri, sulla piccola e grande scala, per consentire al pubblico di lasciarsi andare, di darsi al film". E sugli stacchi: "... oltretutto la discontinuità ci permette anche di scegliere la migliore angolazione per ogni emozione e ogni particolare della storia, per poi montarle insieme con un impatto complessivo maggiore. Se fossimo limitati da un continuo flusso d'immagini, sarebbe più difficile e i film sarebbero meno precisi e dettagliati".
In questi cento anni di cinema il montaggio, dal punto di vista tecnico, ha subito una rivoluzione, consumata a cavallo degli anni ottanta-novanta, con il passaggio da quello meccanico a elettronico digitale. Le consolle per il montaggio meccanico della pellicola, che hanno imperversato per settant'anni, e cioè le conosciutissime Moviola e Kem e le meno conosciute ma altrettano valide Steenbeck , Prevost e Moritone , sono ormai state quasi completamente pensionate dai sistemi per il montaggio elettronico-digitale, basati su computers capaci di memorizzare in alta risoluzione l'intero girato su pellicola, e cioè i sistemi AVID e Lightworks . Esiste un altro sistema per il montaggio digitale: l' Edit Droid della Lucasfilm basato su l'uso dei laser-disc per l'immagazzinamento del girato. Con le consolle digitali è possibile montare una sequenza senza tagliare materialmente il rullo, cosa che aveva comportato l'impossibilità di rivedere l'originale filmato. Al conseguente risparmio di tempo e denaro si aggiunge anche una maggiore velocità di lavorazione con un incredibile aumento delle possibilità creative. Terminato il montaggio con l'Avid, poi si passerà direttamente a quello meccanico sulla pellicola. Il primo film montato interamente in digitale ad aggiudicarsi l'Oscar per il Montaggio (a Walter Murch) è stato "Il paziente inglese" di Anthony Minghella.
Il montaggio, "È il solo aspetto specifico della sola arte del film" ( Stanley Kubrick ).
IL CINEMA È ARTE, MA L'ARTE DEL CINEMA È IL MONTAGGIO - di Gabriele La Rovere - http://www.laregiacomeperfezione.it/
Il montaggio è quell'operazione che consiste nell'unire la fine di un'inquadratura con l'inizio della successiva.
Per lo spettatore si parla di EFFETTO di MONTAGGIO, ovvero il passaggio da un'immagine A ad un'immagine B.
La TRANSIZIONE (che fa parte del discorso filmico) da un'inquadratura all'altra avviene tramite:
• Lo STACCO, ovvero tramite il passaggio diretto e immediato da un piano a quello successivo;
oppure
• Con la DISSOLVENZA, che può essere:
• d'APERTURA: l'immagine appare progressivamente a partire dal nero dello schermo.
• In CHIUSURA: l'immagine scompare progressivamente fino a diventare nera.
• INCROCIATA: l'immagine che scompare e quella che compare si sovrappongono per pochi instanti.
Le dissolvenze erano usate con molta frequenza nel cinema classico in particolare per evidenziare i passaggi da un scena all'altra e indicare così la presenza di un ellisse o salto temporale.
In particolare le dissolvenze in chiusura rappr., rispetto a quelle incrociate, una pausa più pronunciata e per questo erano usate per indicare salti temporali maggiori.
Altre soluzioni cadute col tempo in disuso, sono quelle dell' IRIS dove un foro circolare si apre o si chiude intorno a una parte dell'immagine, o della TENDINA dove la nuova immagine si sostituisce alla precedente facendola scorrere via dallo schermo.
A livello della storia, per PIANO D'AMBIENTAZIONE si intende quel tipo di inquadratura prettamente descrittiva che avvia una scena col compito di introdurne i caratteri ambientali, per permettere allo spettatore di possedere tutte le informazioni necessarie ad una corretta comprensione dell'episodio che sta per essere narrato.
* LO SPAZIO
Un qualsiasi ambiente può essere scomposto da un insieme di inquadrature che ci danno di esso una serie di prospettive.
Esiste, quindi, un ambiente - spazio diegetico - e una rappresentazione di questo ambiente attraverso una successione di inquadrature - spazio filmico - determinata dalle scelte del regista.
Esistono due modi per rappresentare uno spazio diegetico :
• A un piano d'insieme dell'ambiente seguono una serie di inquadrature che lo frammentano. Questo tipo di rappresentazione tende alla chiarezza espositiva ed è tipica del cinema classico.
• Lo spazio d'insieme è costruito attraverso una serie di inquadrature parziali che ce ne mostrano sempre e solo una parte. Se nel caso precedente l'intero è scomposto dal montaggio, qui è il montaggio delle parti a comporre l'intero.
Entrambi i casi si riferiscono a quel gioco di segmentazione dello spazio chiamato decoupage.
Quindi il montaggio può subordinare la rappresentazione dello spazio a precise esigenze narrative, contribuendo a determinare i nuclei drammatici degli eventi rappresentati.
* IL TEMPO
Il montaggio è il mezzo che decide la durata di ogni singolo piano. Il criterio generale è che un campo lungo, dato il suo maggior numero d'informazioni, necessita di un tempo maggiore di un primo piano.
Il rapporto tra tempo e montaggio può essere studiato secondo la tripartizione di ordine, durata e frequenza.
• ORDINE: il montaggio è lo strumento che determina il rapporto tra l'ordine degli eventi della storia e quello dell'intreccio. Il cinema classico ha sempre preferito mantenere una struttura lineare e cronologica degli eventi. L'unica eccezione è rappresentata dai flashback (salti temporali, in cui un evento passato è rievocato) che possono essere di due tipi: DIEGETICI, che prendono vita dalle parole o dai pensieri di un personaggio che racconta l'evento, e NARRATIVI, propri cioè dell'istanza narrante che racconta un episodio passato.
Poi c'è il flashforward, ossia l'anticipazione di un evento futuro, che è quasi sempre narrativo ( Easy Rider, 1969).
• DURATA: Il montaggio può rispettare la durata reale degli eventi, dando vita a una coincidenza tra il tempo della storia e il tempo del discorso; in questo caso si parla di SCENA (TS=TD) .
Se il tempo della storia è più lungo del tempo del discorso si ha un sommario che dà vita a delle SEQUENZE (TS>TD) in cui sono presenti delle ellissi *, o salti temporali.
Un'altra possibilità è quella dell' ESTENSIONE (TSdove il tempo della storia si fa più breve del tempo del discorso e questo si trova con lo slow motion procedimento per cui la velocità rallentata delle immagini impone una durata del tempo del racconto superiore del tempo della storia e il fermo fotogramma in cui l'immagine in movimento si fissa sullo schermo divenendo simile a una fotografia.
A livello di montaggio l'estensione può realizzarsi attraverso l'overlapping editing , ovvero un particolare effetto di montaggio dove la parte finale dell'azione rappresentata in un piano viene nuovamente mostrata in quello successivo. ( esempi nei film di Ejzenstejn).
• FREQUENZA: è il rapporto che si stabilisce fra il numero di volte che un determinato evento evocato dal racconto, e il numero di volte che si presume esso sia accaduto nella storia. Possono esserci 4 possibilità:
• SINGOLATIVO : Raccontare una sola volta quanto è avvenuto una sola volta;
• SINGOLATIVO : Raccontare n volte quanto è avvenuto n volte;
• RIPETITIVO : Raccontare n volte quanto è avvenuto una sola volta (es. Ottobre);
• ITERATIVO : Raccontare una sola volta quanto è avvenuto n volte.
* Il MONTAGGIO ELLITTICO è un montaggio di contrazione temporale che non solo omette il superfluo ma anche ciò che il film non vuole mostrare allo spettatore; in questo modo l'ellissi invita lo spettatore ad una partecipazione attiva e a lavorare con l'immaginazione. In sostanza l'ellissi agisce nel tempo assumendo le stesse funzioni del fuori campo che al contrario agisce nello spazio.
Esistono almeno tre modi per indicare un'ellisse:
Tramite dissolvenze: era il metodo più usato fino agli anni ‘50 che avvertiva lo spettatore della presenza di un'ellisse. In seguito trovandosi davanti un pubblico più maturo, il cinema successivo a preferito ricorrere all'uso di semplici stacchi e ad espedienti di messa in scena.
Un secondo modo per indicare un'ellisse è quello del campo vuoto. Es. Una prima inquadratura permane sullo schermo anche dopo l'uscita del personaggio; la seconda inquadratura si aprirà vuota per poi mostrarci l'entrata del personaggio.
Un terzo procedimento è quello dell'inserto ( cut away ), ovvero di una inquadratura di transizione su qualcos'altro, che dura meno del tempo dell'azione messa in ellissi.
Una particolare forma di contrazione temporale è quella della sequenza a episodi o di montaggio che allinea un certo numero di brevi scene (separate nella maggior parte dei casi da dissolvenze) che si succedono in ordine cronologico.
La sequenza a episodi, molto diffusa nel cinema classico, trova un esempio efficace in un noto passaggio del film “Quarto Potere” di Orson Welles del 1941, ossia quello dedicato al degradarsi dei rapporti fra Kane e la sua prima moglie.
Il montaggio alternato: alterna inquadrature di due o più eventi che si svolgono in luoghi diversi ma, di solito, simultaneamente e che sono destinati a convergere in uno stesso spazio. (es. in Griffith). Il montaggio può anche assumere la funzione di descrivere un determinato ambiente: in questo caso le inquadrature vengono l'una dopo l'altra, e non l'una a causa dell'altra.
Il montaggio, a partire da Griffith e Ejzenstejn, è stato a lungo considerato come l'elemento specifico del linguaggio filmico. Quando parliamo di cinema classico ci riferiamo a quello stile distinto che ha dominato la produzione Hollywoodiana tra il 1917 e il 1960.
Ciò a cui in primo luogo questo cinema mirava era il dar vita ad uno spettatore inconsapevole, che si proiettasse nella vicenda narrata, si identificasse con i protagonisti del racconto, scordandosi di essere in un cinema.
Quindi il lavoro di scrittura doveva essere il più mascherato possibile e questo tramite l'uso del montaggio. Questo però può apparire come una forza che disgrega la continuità spazio-temporale della realtà rappresentata, correndo il rischio di allontanare lo spettatore dalla finzione.
Si tratta dunque di mascherare il montaggio, ed è proprio questo tipo di montaggio che ha preso il nome di Découpage classico.
Nel découpage classico la rappresentazione che il montaggio dà dello spazio e del tempo è fortemente subordinata alle esigenze della narrazione e alla chiarezza della sua esposizione. Uno dei principi chiave del découpage è quello della CONTINUITA' il cui fine è quello di controllare la forza disgregatrice del montaggio per dar vita ad uno scorrevole flusso di immagini da un'inquadratura a un'altra e facilitare la proiezione dello spettatore nel mondo della finzione.
A questo riguardo un ruolo essenziale è giocato dal raccordo, il cui compito è quello di mantenere degli elementi di continuità fra un piano e l'altro, in maniera che ogni mutamento di inquadratura sia il meno evidente possibile.
• Raccordo di sguardo: un'inqu. ci mostra una persona che guarda qualcosa, quella successiva ci mostra questo qualcosa;
• Raccordo sul movimento: un gesto iniziato dal personaggio nella prima inquadratura si conclude nella seconda;
• Raccordo sull'asse: due momenti successivi di un'azione sono mostrati in due inquadrature, la seconda delle quali è ripresa sullo stesso asse della prima, ma più vicina o lontana di questa in rapporto al soggetto agente;
• Raccordo sonoro: una battuta di dialogo, un rumore o una musica si sovrappone a due inquadrature legandole così tra loro.
Un altro aspetto chiave del découpage classico è quello del sistema dello SPAZIO a 180 °.
Il modo migliore per spiegare questo sistema è quello di partire da una scena di dialogo costruita sul campo –controcampo: quel tipo di montaggio che mostra alternativamente due personaggi che dialogano, in cui si stabilisce una linea d'azione immaginaria entro la quale può muoversi la macchina da presa, senza effettuare il così detto scavalcamento di campo.
Scavalcamento di campo, può essere attuato tramite il posizionamento della macchina da presa sulla linea d'azione (ripresa in linea) e tramite l'uso di inserti.
L'uso dello spazio a 180° determina altri tre raccordi:
• Raccordo di posizione: due personaggi ripresi in un'inquadratura l'uno a destra e l'altro a sinistra, dovranno mantenere la stessa posizione in quella successiva.
• Raccordo di direzione: un personaggio che esce di campo a destra dovrà rientrare a sinistra in quella successiva.
• Raccordo di direzione di sguardi: la macchina da presa viene posizionata in modo tale che quando ognuno dei personaggi viene inquadrato singolarmente, il suo sguardo si rivolga verso l'altro personaggio.
Il montaggio del cinema a découpage classico non è l'unica forma di montaggio esistente; esistono anche quelli:
• CONNOTATIVO: basato sulla costruzione del significato;
• FORMALE: un modello che si impone per la sua natura grafica e ritmica;
• DISCONTINUO: un montaggio che nega i modelli della continuità Hollywoodiana.
• 1) Il montaggio CONNOTATIVO si caratterizza per la sua volontà di produrre del senso (creazione di nuovi significati – concetti).
L' effetto Kulesov dimostra come l'associazione di due immagini può produrre un senso diverso di quello che lo spettatore percepirebbe se le vedesse singolarmente.
Per Ejzenstejn la riproduzione filmica della realtà non ha in sé nessun particolare interesse: ciò che conta è il senso che di essa si cattura attraverso la sua interpretazione. Il cinema non può dunque limitarsi a riprodurre il reale, deve interpretarlo. Il montaggio è proprio lo strumento col quale arrivare a questo tipo di interpretazione.
Teoria delle attrazioni di Ejzenstejn: l'attrazione è qualsiasi elemento che esercita sullo spettatore un effetto sensoriale e psicologico per far recepire il lato ideale e la finale conclusione ideologica dello spettacolo (in ambito teatrale).
Attrazioni come libero montaggio di azioni.
Alla base dell'intera concezione ejzenstejniana del montaggio c'è il conflitto, la “collisione” tra 2 inquadrature che si trovano l'una accanto all'altra. Tali conflitti possono darsi non solo nel passaggio da un inquadratura all'altra, ma anche all'interno di una stessa inquadratura.
Il conflitto può essere di diversi tipi:
• Delle direzioni grafiche (delle linee)
• Dei piani (tra loro)
• Dei volumi
• Delle masse (volumi sottoposti a diverse intensità luminose)
• Degli spazi
• Tra suono e immagini (asincronismo)
Il montaggio intellettuale di Ejzenstejn mira a dar vita a una situazione in cui la stessa tensione – conflitto serve a creare nuovi concetti, nuove visioni.
• 2) Il montaggio FORMALE pone in primo piano gli effetti di tipo formale, sia grafico - spaziali che ritmico – temporali
• è un montaggio in cui le qualità grafiche e formali delle immagini prendono il sopravvento su qualunque criterio di ordine narrativo (es. in Psycho c'è una dissolvenza incrociata che unisce il movimento a spirale dell'acqua che fa mulinello nella doccia e un particolare dell'occhio di Marion ripreso dalla macchina da presa che ruota intorno ad esso). In questo caso c'è un analogia formale tra le due inquadrature che hanno in comune questa forma a spirale.
• Esistono 3 forme ritmiche dominanti presenti nella successione delle inquadrature:
ritmo regolare: si succedono brevi inquadrature della stessa durata;
ritmo accelerato: quando si succedono inquadrature via via più brevi;
ritmo irregolare: le inquadrature che si succedono presentano delle durate molto diverse fra loro.
• 3) Il montaggio DISCONTINUO è tipo di montaggio che mostra come si può raccontare una storia trasgredendo le regole della continuità classica.
Sul piano spaziale:
• Un modo è quello della violazione del sistema 180°. Alcuni registi (come Ozu) danno vita ad un sistema di rappresentazione circolare a 360°, nell'ambito del quale sistemano liberamente la loro cinepresa. La posizione dei personaggi sarà di volta in volta rovesciata sullo schermo, così come è destinato a mutare lo sfondo su cui i due personaggi sono collocati.
• Un secondo modo per dar vita a forme di discontinuità (spaziale e temporale) è tramite l'uso del falso raccordo (jump cut). Di questi raccordi se ne individuano di 2 tipi: A) quando due inquadrature consecutive di uno stesso personaggio non sono sufficientemente differenziate sul piano dell'angolazione (di almeno 30°) e della distanza; B) e quando più inquadrature di uno stesso personaggio si succedono mostrandocelo in luoghi e tempi diversi. (Quarto potere)
• Un altro metodo è quello del ricorso a inserti non diegetici che interrompono la regolare e continua successione di inquadrature attraverso piani estranei allo spazio e al tempo del racconto, che diventano spesso strumenti di associazioni metaforiche (es. pavone meccanico di Ottobre).
Sul piano temporale:
• Tramite l'uso di flashback e flashforward e tramite la ripetizione, sul piano del discorso, più volte di ciò che accade nella storia.
• Tramite la pratica dell' estensione, dove la durata della rappresentazione è superiore a quella dell'evento rappresentato (es. in Ottobre l'apertura della porta della sala degli zar: ripetiz. In 4 inquadrat. di un stesso evento).
• Un altro tipo di estensione è quello della sovrapposizione temporale (overlapping editing).
IL MONTAGGIO PROIBITO
PROFONDITA' DI CAMPO (a livello temporale ): è un immagine in cui tutti gli elementi rappresentati, sia quelli in primo piano che quelli di sfondo, sono perfettamente messi a fuoco. Essa pone lo spettatore in un rapporto con l'immagine più vicino a quello che egli ha con la realtà.
PIANO SEQUENZA – long take- (a livello spaziale ): è un'inquadratura molto lunga che svolge da sola il ruolo di un'intera scena e come la profondità di campo rifiuta l'uso del montaggio.
Se nel cinema a découpage classico o nel modello ejzenstejniano è il regista a decidere il significato per noi, piano sequenza e profondità di campo danno allo spettatore la possibilità di essere lui a decidere traendone gli aspetti più significativi.
Ci sono però due osservazioni critiche in proposito:
• La realtà e la sua rappresentazione non possono essere confuse, in quanto ogni immagine cinematografica è già rappresentazione della realtà, per le sue scelte di durata, campo e angolazione.
• Possono esistere piani sequenza e messe in scena in profondità che impongono una lettura univoca delle immagini.
Nel piano sequenza e profondità di campo non c'è una radicale negazione del montaggio in quanto vi è un montaggio interno che mette in relazione più elementi all'interno di una singola inquadratura.
APPUNTI PER L'ESAME DI:
ISTITUZIONE DI STORIA DEL CINEMA
al DAMS di Torino -2004
Tratto dal libro
MANUALE DEL FILM
Linguaggio, racconto, analisi
di GIANNI RONDOLINO, DARIO TOMASI
Libreria UTET
Ovvero come allestire un set e fare un piano di illuminazione completo.
1- scelta della location.
La scelta di una location è molto importante per il direttore della fotografia. Può aiutare molto o penalizzare fino a rendere impossibile “portare a casa quello che vuoi”: quindi scegliete bene!
Io personalmente quando vedo una location amo passeggiare intorno allo spazio, facendo lavorare la mia immaginazione, in modo da ascoltare cosa mi comunica quel luogo e naturalmente faccio due calcoli per vedere se è
grande abbastanza per ospitare la troupe e il set.
2- studiare come utilizzare le fonti di luce diegetica.
Questo punto si sposa bene con il primo perché nella scelta del luogo dove girare bisogna da un lato, tenere conto delle fonti di luci esistenti e, dall’altro vedere cosa possiamo aggiungere noi in modo tale da sopperire ad eventuali mancanze di fonti luminose.
Questo è un punto che non va mai dimenticato per ottenere un’illuminazione originale ed è importante saper usare bene tutti gli strumenti che abbiamo a disposizione: finestre, lampade, caminetti etc.
Questo ci aiuterà anche nello schema di illuminazione rendendo il tutto più “vero”.
3- posizionare l’inquadratura.
Nella narrazione: spazio,luce e gli stessi attori posso essere “raccontati” in modi infiniti e dare il proprio punto di vista è un elemento fondamentale.
Il come fa la differenza! Io mi lascio trasportare molto dal mio istinto e scelgo il posto dal quale guardare personalmente la scena, quello che trovo più adatto a me.
4- piazzare luce diretta sul soggetto.
Ora si inizia a costruire e la cosa principale da fare è illuminare il nostro oggetto di interesse. Che sia un’attore, un’auto o qualsiasi cosa vogliamo, “piazziamo” su questo elemento la luce principale, quella che sarà direttamente puntata su di lui frontalmente o di taglio, secondo il nostro gusto e valutando lo spessore narrativo che vogliamo usare.
5- luce riflessa sul soggetto.
La luce riflessa è quella che si crea quando la luce principale rimbalza su una superficie e torna indietro. Possiamo usare dei pannelli riflettenti o un lampada che crei questo effetto. Questa luce va calibrata molto bene e dosata con sapienza. Se usate una lampada per fare la luce riflessa posizionatela provando anche a vedere come viene spegnendo le altre e poi riaccendendole tutte assieme.
6- piazzare il controluce: mi raccomando, che sia credibile!
Il controluce sarà il nostro “effetto speciale”, in quanto sottolinea molto il soggetto colpito e lo rende “importante” ed in primo piano. Naturalmente l’equilibrio è tutto ed è facile esagerare e rendere l’immagine troppo artificiale.
7- attenzione alle doppie o triple ombre.
Certo penso che far sembrare la nostra scena un campo da calcio non è negli obbiettivi di nessuno vero? Nulla di più facile però che compaiano 2 o 3 ombre sul volto del soggetto: naturalmente evitatelo il più possibile. Invece cercate che ci sia un’ombra portante più marcata e le altre siano più sfumate possibile.
8- illuminate lo sfondo.
Ora si deve raccontare tutto il resto e per lo sfondo fate lo stesso percorso che avete fatto per il soggetto.
9- impostare l’esposizione sulla macchina.
Se non avete un esposimetro, un piccolo trucco per non sbagliare l’esposizione è quello di utilizzare la zebra, ovvero quel suggerimento della camera che vi fa vedere le zone sovraesposte.
La zebra 100% è vietato perché la bruciatura non è recuperabile succesivamente.
Meglio settarlo all’80% e quando lo vedete su un soggetto ben illuminato allora chiudete di mezzo stop e sarete sicuri di aver esposto al meglio.
Al massimo sistemate le luci di conseguenza.
10- check finale: fuoco oggetti in campo, esposizione, ombre strane e…
fidati del tuo istinto!
Ricontrolla tutti i punti ed ora chiediti se ti piace? Racconta l’emozione che vuoi?
Bene Motore… CiaK…Azione!
di GIOVANNI.ZIBERNA per sinesolecinema.com
Il sottocampionamento della crominanza è una tecnica che consiste nel codificare immagini riservando maggiore risoluzione al segnale di luminanza piuttosto che all'informazione di crominanza. È una tecnica utilizzata in molti modelli di compressione per segnali sia analogici che digitali, ed è usata anche dalla compressione JPEG e MPEG.
Aspetti tecnici
Un segnale video, soprattutto se a componenti, ha una larghezza di banda molto ampia, comportando tutta una serie di problemi per essere registrato o trasmesso. Di conseguenza, sono spesso usate tecniche di compressione per migliorare la gestione del segnale, aumentare la durata delle registrazione oppure aumentare il numero di canali di trasmissione. Dal momento che la visione umana è molto più sensibile alle variazioni di livello luminoso piuttosto che ai cambiamenti di colore, si può sfruttare questo principio per ottimizzare la compressione, dedicando più banda alla luminanza (Y) e meno alla differenza delle componenti cromatiche (Cb e Cr). Lo schema di sottocampionatura 4:2:2 Y'CbCr, per esempio, richiede solo due terzi della banda del (4:4:4) R'G'B'. Questa riduzione è pressoché impercettibile all'occhio umano.
Come funziona il sottocampionamento
Il sottocampionamento della crominanza differisce dalla teoria scientifica nel fatto che le componenti di luminanza e crominanza sono formate come somma pesata di componenti tristimolo R'G'B' dopo una correzione di gamma, invece che da componenti RGB tristimolo lineari. Come risultato, la luminanza e i dettagli di colore non sono del tutto indipendenti l'una dagli altri, ma avviene una sorta di "miscelazione" tra i due componenti. L'errore è maggiore nei colori molto saturi e si nota nel verde e nel magenta delle barre colore. Invertendo l'ordine delle operazione tra la correzione di gamma e la somma pesata dei segnali, il sottocampionamento può essere meglio applicata.
Originale senza sottocampionatura. Ingrandimento 200%.
Immagine dopo la sottocampionatura (compressa con codec DV di Sony Vegas.)
Sistemi di campionatura
Lo schema di sottocampionatura è normalmente indicato con una notazione a tre cifre (es. 4:2:2) o talvolta a quattro cifre (es. 4:2:2:4). Il significato dei numeri è il seguente:
- Riferimento di campionatura orizzontale della Luminanza (in origine, come multiplo della sottoportante a 3.579 MHz in NTSC o di 4.43 MHz in PAL).
- Fattore orizzontale Cr (relativo alla prima cifra).
- Fattore orizzontale Cb (relativo alla prima cifra), a meno che non sia posto a zero. In questo caso, lo zero indica che il fattore orizzontale Cb è identico alla seconda cifra e, in aggiunta, sia il Cr che il Cb sono sottocampionati 2:1 in senso verticale. Lo zero è scelto affinché la formula di calcolo della larghezza di banda rimanga corretta.
- Fattore orizzontale Alfa (relativo alla prima cifra). Può essere omesso se non è presente un canale alfa.
Per calcolare la larghezza di banda necessaria rispetto a un segnale 4:4:4 (o 4:4:4:4), si sommano tutti i fattori e si divide il risultato per 12 (o per 16 se c'è un canale alfa).
Gli esempi qui sopra sono esclusivamente teorici e a scopo dimostrativo. Si osservi anche che i diagrammi non indicano nessun filtraggio della crominanza, che dovrebbe essere applicato per evitare l'aliasing.
Tipi di sottocampionamento
4:2:2
I due campioni di crominanza sono campionati alla metà della risoluzione della luminanza, dimezzando la risoluzione cromatica. Questo riduce la banda del segnale video di un terzo senza quasi perdite percettibili.
Molti formato video di alta gamma usano questo schema: Digital Betacam e DVCPRO50 e DVCPRO HD, ad esempio.
4:2:1
Questo schema è definito tecnicamente, ma pochissimi codec lo usano. La risoluzione orizzontale Cb è la metà di quella Cr (e un quarto di quella Y). Questo schema sfrutta il principio che l'occhio umano è più sensibile al rosso che al blu.
4:1:1
Nella sottocampionatura 4:1:1, la risoluzione orizzontale cromatica è ridotta a un quarto. La larghezza di banda risulta dimezzata rispetto a uno schema non sottocampionato. In alcuni ambienti professionali, lo schema 4:1:1 del codec DV non era considerato di classe broadcast all'epoca della sua introduzione, e accettabile solo per applicazioni non professionali. Con il tempo, i formati basati su questo codec sono usati invece in ambienti professionali per l'acquisizione di immagini e l'uso nei server video, e, in maniera sporadica, il codec DV è stato usato anche nella cinematografia digitale a basso costo.
I formati che usano questo schema includono: DVCPRO (NTSC e PAL) e DV e DVCAM (NTSC).
4:2:0
Questo schema è utilizzato in:
- Tutte le versioni di codec MPEG, incluse le implementazioni MPEG-2 come il DVD (alcuni profili di MPEG-4 possono usare schemi di qualità più elevata, come il 4:4:4)
- DV e DVCAM (PAL)
- HDV
- Implementazioni comuni JPEG/JFIF, H.261, e MJPEG
I componenti Cb Cr sono sottocampionati di un fattore 2 sia verticalmente che orizzontalmente, e centrati a metà delle linee di scansione verticali.
Esistono tre varianti degli schemi 4:2:0, che differiscono per il posizionamento verticale e orizzontale.
- In MPEG-2, Cb e Cr coincidono orizzontalmente.
- In JPEG/JFIF, H.261, e MPEG-1, Cb e Cr sono posizionati a metà strada, tra i campioni di luminanza (Y) alternati.
- In DV 4:2:0, Cb e Cr sono alternati riga per riga.
Gli schemi colore PAL e SECAM sono particolarmente adatti a questo tipo di compressione. La maggior parte dei formati video digitali corrispondenti al PAL usano il sottocampionamento di crominanza 4:2:0, con l'eccezione del DVCPRO25, che usa lo schema 4:1:1. La larghezza di banda necessaria è dimezzata rispetto al segnale pieno per entrambi gli schemi.
Con il materiale interlacciato, il sottocampionamento 4:2:0 può creare artefatti sulle immagini in movimento, se il sottocampionamento viene applicato nello stesso modo del materiale progressivo. I campioni di luminanza, infatti, provengono da semiquadri diversi mentre quelli di crominanza provengono da entrambi i semiquadri. La differenza fra i campioni genera gli artefatti. Lo standard MPEG-2 prevede l'uso di uno schema alternativo per evitare il problema, dove la schema 4:2:0 è applicato a ogni semiquadro ma non ad entrambi i semiquadri contemporaneamente.
Originale. *Questa immagine mostra un singolo semiquadro. Il testo in movimento ha subito una sfuocatura.
Campionamento 4:2:0 progressivo applicato a materiale in movimento interlacciato. Si noti che la crominanza precede e segue il testo. *Questa immagine mostra un singolo semiquadro.
Campionamento 4:2:0 interlacciato applicato a materiale in movimento interlacciato. *Questa immagine mostra un singolo semiquadro.
Nello schema 4:2:0 interlacciato,ad ogni modo, la risoluzione verticale della crominanza è pressapoco dimezzata dal momento che i campioni comprendono un'area di 4x2 campioni invece di 2x2. Allo stesso modo, il dislocamento temporale tra i due semiquadri può portare ad artefatti sui colori.
Campionamento 4:2:0 progressivo applicato a un'immagine fissa. Sono mostrati entrambi i campi.
Campionamento 4:2:0 interlacciato applicato a un'immagine fissa. Sono mostrati entrambi i campi.
Se il materiale interlacciato deve essere deinterlacciato, gli artefatti sulla crominanza (derivati dal campionamento 4:2:0 interlacciato) possono essere rimossi sfumando la crominanza verticalmente.
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"Lo scopo del montaggio è conferire alla rappresentazione cinematografica significato e logica narrativa. Ma non solo." Il montaggio non è semplicemente un metodo per mettere insieme scene e frammenti distinti; in realtà, è un metodo per guidare, in modo deliberato e forzato, lo spettatore". Dunque, con il montaggio, l'autore organizza la sua opera articolando immagini in modo da condurre lo spettatore, secondo il proprio punto di vista, in un percorso espressivo e concettuale personalissimo. Più semplicemente il montaggio è lo stile del film e, pare chiaro, che organizzare la semplice concatenazione delle inquadrature e la loro sequenzialità ne è lo scopo meno rilevante; con il montaggio il cineasta predispone un'esperienza emotiva ed intellettuale di straordinario impatto. Dal periodo del muto ll montaggio è considerato il vero linguaggio del regista; l'atto creativo cruciale nella produzione di un film); per giudicare la personalità di un regista cinematografico non si deve far altro che osservare i suoi metodi di montaggio. Quello che per uno scrittore è lo stile, per il regista è il suo modo particolare ed individuale di montaggio. L'autore attraverso il montaggio può"costringere lo spettatore a guardare in modo inusuale".
Dire regia è automaticamente dire, ancora e di nuovo, montaggio. Quando gli effetti di montaggio superano per efficacia gli effetti di regia, la bellezza della regia stessa ne risulterà raddoppiata"; e il montaggio quindi è la quintessenza del cinema come forma d'arte".
Convenzionalmente si ritiene che Georges Méliès con "Il viaggio della luna" del 1902 e "Il viaggio attraverso l'impossibile" del 1904, sia stato il primo ad introdurre la narrazione cinematografica: le sequenze, riprese con piano fisso, venivano collegate tra loro con il montaggio-incollaggio di spezzoni di pellicola (rulli o bobine). Ma solo quando da questo semplice incollaggio si è passati al montaggio cinematografico vero e proprio, si è avuta la liberalizzazione della macchina da presa: da piani fissi e statici, responsabili di riprese di natura teatrale si diventa improvvisamente capaci di esprimere un linguaggio artistico. Il montaggio cinematografico in quanto tale, lo si deve, in forma embrionale, soprattutto a Edwin Stanton Porter in "Vita di un pompiere americano" del 1902 e "La grande rapina al treno" del 1903. David Wark Griffith seguendo la strada intrapresa da Porter e da altri pionieri, intuì che in una sequenza le singole inquadrature dovevano essere montate tra loro in base ad esigenze di necessità drammatica (enfasi drammatica). Si deve a lui, principalmente, la codifica del linguaggio cinematografico e la sperimentazione dei vari aspetti. Per la prima volta ha impiegato magistralmente il primo piano, considerato per l'epoca un'audace novità, il flashback, con cui fu possibile rompere la linearità del tempo filmico proiettando alcune scene cronologicamente antecedenti e il montaggio alternato, che ha permesso le cosiddette sequenze di «salvataggio all'ultimo minuto» che, staccando continuamente dalle sequenze dedicate al salvato a quelle del salvatore, ci tengono continuamente con il fiato sospeso. Ma se a Griffith, di cui ricordiamo "La nascita di una nazione" del 1915 e "Intolerance" del 1916, si deve gran parte della nascita del cinema in quanto arte, a Pudovkin e Sergej Ejzenstejn, per il muto, ed a Orson Welles per il sonoro, si deve gran parte dell'evoluzione.
Fin dagli inizi della carriera Griffith si rese conto che riprendere un'intera scena a distanza fissa imponeva grossi limiti alla narrazione.Volendo mostrare allo spettatore il pensiero o le emozioni di un personaggio, capì che il modo migliore per farlo, era quello di avvicinare la macchina da presa, registrando così con più precisione l'espressione del viso; la scoperta fondamentale di Griffith è stata quella di rendersi conto che una sequenza deve essere composta da singole inquadrature incomplete, scelte ed ordinate in base a motivi di necessità drammatica.
Il cinema, attraverso il montaggio si è trasformato da semplice mezzo per registrare l'attualità in un mezzo estetico di grande sensibilità. Il solo montaggio permise al cinema di assurgere ad autonoma espressione artistica; l'introduzione del sonoro consentì invece di raccontare storie più complesse di quanto non fosse possibile ai tempi del muto: non solo le scene risultarono più realistiche, ma la musica, i rumori e soprattutto i dialoghi, ne accentuarono l'impatto drammatico. Per questo, ma anche per problemi di natura tecnica legati alla presa diretta del sonoro che limitava fortemente la mobilità degli attori, il linguaggio basato sul montaggio, per qualche tempo non progredì; ma ben presto, insieme alla recitazione ed alla stesura dei dialoghi, tornò ad essere "Il principio fondamentale dell'arte cinematografica". È intuitivo, infatti, che consente una profondità della narrazione, che in teatro per esempio è quanto mai impossibile; una rappresentazione teatrale si potrebbe paragonare ad una scena ripresa in campo lungo con macchina fissa. Frammentando l'avvenimento in brevi inquadrature di diversa durata, angolo e piano di ripresa, si può controllare in modo più efficace l'intensità drammatica dei fatti mentre la narrazione avanza, riuscendo a comunicare un senso di movimento altrimenti impossibile con un piano sequenza, un campo lungo o anche con un montaggio invisibile; inoltre le inquadrature sui particolari descrivono la storia in modo completo e convincente, quindi più vicino alla realtà di quando non possa fare un'unica inquadratura in campo lungo. Il montaggio invisibile è particolarmente usato nel cinema classico e in quello americano (John Ford e Frank Capra); è funzionale alla trasparenza della storia e la macchina non rivela mai la sua presenza a vantaggio della fluidità visiva e della narrazione più continua ed omogenea; Secondo la scuola classica di Hollywood modello di studio del cinema occidentale, vi erano regole fondamentali per il montaggio che doveva risultare fluido, scorrevole e invisibile, permettendo allo spettatore di immergersi emotivamente nella storia senza percepire l’artificiosità della regia. Al regista era permesso solo catalizzare l’attenzione dello spettatore solo sui dettagli voluti. Nel cinema europeo e in quello d'avanguardia, invece, il cineasta solitamente lascia il segno della propria personalità con un montaggio che si discosta da norme e convenzioni, imponendo il suo ritmo con continui cambi d'inquadrature sia nelle angolazioni che nei piani. La macchina da presa allora diventa parte attiva della narrazione (non occhio distaccato come accade in una scena fissa generalmente in campo lungo). In genere il responsabile del montaggio è il produttore e/o il regista.
Il tecnico di montaggio, il montatore, ha il compito e la possibilità di scegliere vari fotogrammi della stessa inquadratura per trovare il punto in cui lo stacco risulta drammaticamente più efficace: non solo riordina la successione delle sequenze, ma ne interpreta e valorizza i particolari. Una delle responsabilità fondamentali del montatore è costruire un ritmo interessante e coerente di emozioni e di pensieri, sulla piccola e grande scala, per consentire al pubblico di lasciarsi andare, di darsi al film. La discontinuità ci permette anche di scegliere la migliore angolazione per ogni emozione e ogni particolare della storia, per poi montarle insieme con un impatto complessivo maggiore. Se fossimo limitati da un continuo flusso d'immagini, sarebbe più difficile e i film sarebbero meno precisi e dettagliati.
Sergej Mikhailovic Ejzenstejn ( nato il 23 gennaio del 1898 da famiglia ebre a Riga, in Lettonia e morto nel 1948): artista avanti anni luce nell'arte cinematografica
Ejsenstejn è stato uno dei più grandi registi della storia del cinema, teorico, intellettuale raffinato e artista di avanguardia. Malgrado questo, le circostanze gli permisero di completare solo 6 film in 25 anni. La degenerazione totalitaria staliniana che gli impedì in più occasioni di portare a termine i suoi lavori e la grossolanità commerciale e faziosa americana fecero la loro parte: ebbe problemi con la censura, fu costretto al silenzio, lavorò sempre in condizioni difficili, come potevano essere quelle tragiche della dittatura staliniana degli anni trenta.
La sua importanza ha assunto proporzioni smisurate non soltanto per la direzione e regia dei film ma anche nella teoria, i suoi scritti sul montaggio sono un punto di riferimento per tutti gli artisti e i critici del mondo.
E’ vivo e centrale in Ejzenstejn.il rapporto tra la Tecnica e L'arte,tipico di molte avanguardie almeno a livello intuitivo, si tenga presente che ancora oggi il cinema e la comunicazione audiovisiva viene letta con strumenti mutuati dalla critica letteraria ,che per girare un film c'è bisogno di strumenti tecnici è qualcosa che dimenticano in molti. Nel 1924 ebbe diresse il lungometraggio, "Sciopero", che rivelò chiaramente le sue esperienze di teatro, ma fu un film rivoluzionario in tutti i sensi, perché, per la prima volta sullo schermo, il protagonista non era un singolo individuo ma la massa, la collettività.
I rapporti tra cinema e avanguardia in Russia consistono, dopo il 1917, nell' attribuzione al nuovo mezzo espressivo di un ruolo particolare per la realizzazione di un progetto rivoluzionario, in termini politici ancor prima che estetici, il cinema quindi al servizio della rivoluzione. Ciò che caratterizza l' esperienza del cinema rivoluzionario russo è la convivenza di due progetti strettamente collegati: lo studio su basi sperimentali, come si pretendeva di fare nel laboratorio di Kulesov; (altro teorico dell'epoca) ed il progetto rivoluzionario politico.
Kulesov e i suoi allievi studiavano le leggi costitutive della comunicazione filmica e gli elementi specifici del linguaggio cinematografico e, mettendo a punto una sorta di grammatica della comunicazione visiva basata essenzialmente sul montaggio, partecipavano a un movimento politico che credeva nella possibilità di liberare l' arte dalla condizione di separatezza e di isolamento in cui l’ aveva collocata la cultura "borghese" per farne uno degli elementi propulsivi della costruzione di una nuova società. Il Montaggio comincia ad essere al centro della sua attenzione ,visti anche gli esperimenti di Kulesov che decise di costruire un teorema: Inquadrò, in primo piano, il volto di Mozzuchin, poi riprese un piatto di minestra, un bambino allegro e, infine, una donna morta (come si vede questi tre elementi sono, visivamente e concettualmente, molto distanti tra loro). Non restava che accostare l'inquadratura del volto dell'attore alle tre riprese girate per "creare senso", e così fece Kulesov. Sebbene l'espressione dell'attore rimanesse identica, essa sembrava assumere connotazioni differenti a seconda che venisse accostata al piatto di minestra (fame), al bambino allegro (paternità, affetto) oppure alla donna morta (lutto, dolore). Il montaggio cinematografico assume significati diversi in relazione alle tecniche con le quali si esprime. In tale progetto politico,quello della Rivoluzione, venne attribuito un ruolo di primo piano al cinema (Lenin affermò in più occasioni l'importanza del nuovo mezzo), in quanto strumento capace di riflettere le modificazioni dell' esperienza percettiva introdotte dalla tecnica e dalle mutate condizioni di vita della società industrializzata e di riplasmare le concezioni di spazio e di tempo in senso rivoluzionario..
Ejzenstejn elabora in questo ambiente la teoria del "montaggio delle attrazioni: l' arbitrarietà-accostamento non lineare e logico di due oggetti, degli elementi che compongono una narrazione, sono legati tra di loro da significati metaforici. In quegli anni fioriscono in Russia correnti artistiche importantissime: il cubofuturismo,il Formalismo, il Costruttivismo.
Nel 1926 gira La corazzata Potemkin, considerato da diverse giurie internazionali di cineasti e critici come " il piu bel film del mondo".
Il film è la massima espressione applicata del montaggio delle attrazioni (a posteriori), vale a dire le riprese vengono indirettamente montate mentre si riprende e si forma la sequenza: lo sguardo dello spettatore nota e vede l'effetto voluto dal regista. Il montaggio è un'idea che nasce dallo scontro di inquadrature indipendenti o addirittura opposte l'una all'altra; per cui attraverso il montaggio si crea sia un movimento fisico che un movimento delle idee prodotte esprimendo idee e pensieri con le immagini.
Mettendo insieme due inquadrature contrapposte si ha una terza che dà come risultato una idea diversa, non logicamente e meccanicamente legata alle prime due.
L'uso molteplice del montaggio, specifico filmico di Ejsenstejn è centrale nella narrazione e ne fa un punto di riferimento internazionale con il suo Montaggio che si vede ''interno alla macchina'' non nascosto come quello di Griffith
La scuola di Hollywood, pragmatica e vincolata alle proprie regole per la pratica filmica, si basa su principi tecnici predefiniti e una vasta produzione, ignorando lo sperimentalismo russo attento alla teoria piuttosto che alla pratica. Lo stesso Ejzenstejn ebbe una produzione letteraria decisamente superiore alla produzione filmica.
A La corazzata Potemkin succedettero Ottobre ( 1928 , rievocazione dei fatti del '17 a Pietroburgo,) e Il vecchio e il nuovo (1929), lirico documentario sulla vita che risorge nelle campagne grazie alla rivoluzione, suscitano feroci critiche da parte del PCUS e inducono Stalin a intervenire brutalmente; fu mandato all' estero, in USA prende accordi per un film sul Messico; ma dopo le riprese gli americani gli sottraggono il materiale e gli impediscono di montare il film che si sarebbe dovuto chiamare Que viva Mexico! non si fece mai. Tornato in patria gira Alessandro Nevskij (1938) e subito dopo Ivan il terribile e La congiura dei Boiardi.
Ejzenstejn sperimenta mentre crea,tipico dell'avanguardia,.cio gli procura non pochi problemi in patria dove si afferma una tendenza realista di regime grossolana e propagandistica (Realismo socialista)
Ejzenstejn, non ha fondato da solo il cinema, ma ha contribuito con Griffith e pochi altri a tracciarne le fondamenta a partire dalle quali sono poi cresciute le pareti della Casa del Cinema. Sicuramente Sergej Michailovic è tra coloro i quali hanno determinato le condizioni per il superbo compimento del passaggio dal cinematografo al cinema. L'arte e la pratica di montare le immagini della pellicola, di cui è stato ed è il massimo teorico, hanno sganciato i limiti della visione dell'immagine riprodotta-e-mostrata per farla diventare re-invenzione dell'immagine raccontata nella Storia e nel Tempo; anzi dell'immagine quale elemento del testo narrativo facendo procedere l'invenzione del secolo scorso dalla fase della descrizione a quella più articolata della narrazione cinematografica, il cinema diventa 7.ma Arte.
Nel cinema americano la regola della fluidità del montaggio impone la necessità di mantenersi nella ripresa entro un angolo di 180 gradi oltrepassato il quale si va incontro ad uno scavalcamento di campo che invertendo la direzione della ripresa confonde l’occhio dello spettatore. Nel controcampo infatti l’inversione dei soggetti confonde e disorienta lo spettatore, e quindi lo scavalcamento di campo deve essere funzionale solo ad una deliberata necessità di ottenere tali effetti, aggirando l’impatto emotivo attraverso carrellate o altri movimenti di macchina circolari attorno al soggetto.
Paolo S.
IL CINEMA È ARTE, MA L'ARTE DEL CINEMA È IL MONTAGGIO
"Tutto quanto precede il montaggio è semplicemente un modo di produrre una pellicola da montare" Stanley Kubrick
"Lo scopo del montaggio è conferire alla rappresentazione cinematografica significato e logica narrativa" (enciclopedia Garzanti). Ma non solo; per il cineasta William Dieterle:"Il montaggio non è semplicemente un metodo per mettere insieme scene e frammenti distinti; in realtà, è un metodo per guidare, in modo deliberato e forzato, lo spettatore". Dunque, con il montaggio, l'autore organizza la sua opera articolando immagini in modo da guidare lo spettatore, secondo il proprio punto di vista, in un percorso espressivo e concettuale personalissimo. Più semplicemente il montaggio è lo stile del film e, pare chiaro, che organizzare la semplice concatenazione delle inquadrature e la loro sequenzialità ne è lo scopo meno rilevante;c on il montaggio il cineasta predispone un'esperienza emotiva ma anche e soprattutto intellettuale di straordinario impatto.
Nel periodo del muto, per il russo Vsevolod I. Pudovkin,"ll montaggio è dunque il vero linguaggio del regista (...); l'atto creativo cruciale nella produzione di un film (...); per giudicare la personalità di un regista cinematografico non si deve far altro che osservare i suoi metodi di montaggio. Quello che per uno scrittore è lo stile, per il regista è il suo modo particolare ed individuale di montaggio". E ancora, l'autore attraverso il montaggio può"costringere lo spettatore a guardare non come egli è abituato a vedere". Un cinquantennio più tardi poco è cambiato; Jean-Luc Godard, regista del sonoro sostiene:"Dire regia è automaticamente dire, ancora e di nuovo, montaggio. Quando gli effetti di montaggio superano per efficacia gli effetti di regia, la bellezza della regia stessa ne risulterà raddoppiata".
Ma torniamo ad inizio secolo: storicamente si ritiene che Georges Méliès con "Il viaggio della luna" del 1902 e "Il viaggio attraverso l'impossibile" del 1904, sia stato il primo ad introdurre la narrazione cinematografica: le sequenze, riprese con piano fisso, venivano collegate tra loro con il montaggio-incollaggio di spezzoni di pellicola (rulli o bobine). Ma è solo da quando, da questo semplice montaggio meccanico, si è passati al montaggio cinematografico vero e proprio, che si è avuta la "liberalizzazione" della macchina da presa: da piani fissi e statici, responsabili di riprese di "natura" teatrale, si diventa improvvisamente capaci di esprimere un linguaggio artistico. Il montaggio cinematografico in quanto tale, lo si deve, in forma embrionale, soprattutto a Edwin S. Porter in "Vita di un pompiere americano" del 1902 e "La grande rapina al treno" del 1903.
David Wark Griffith seguendo la strada intrapresa da Porter, intuì che in una sequenza le singole inquadrature dovevano essere montate tra loro in base ad esigenze di necessità drammatica. Ha inventato, quindi, il linguaggio cinematografico definendone, per primo, gran parte degli elementi e sperimentando, sempre per primo, i vari aspetti del montaggio. Per la prima volta ha impiegato magistralmente il primo piano considerato per l'epoca un'audace novità, il flashback, con cui fu possibile rompere la linearità del tempo filmico proiettando alcune scene cronologicamente antecedenti e il montaggio alternato che ha permesso le cosiddette sequenze di «salvataggio all'ultimo minuto» che, staccando continuamente dalle sequenze dedicate al salvato a quelle del salvatore, ci tengono continuamente con il fiato sospeso. Ma se a D.W.Griffith, di cui ricordiamo almeno "La nascita di una nazione" del 1915 e "Intolerance" del 1916, si deve l'invenzione del linguaggio cinematografico, a Vsevolod I.Pudovkin e Sergej M.Ejzenstejn, per il muto, ed a Orson Welles per il sonoro, se ne deve gran parte dell'evoluzione.
Karel Reisz e Gavin Millar scrivono: "Fin dagli inizi della carriera Griffith si rese conto che riprendere un'intera scena a distanza fissa imponeva grossi limiti alla narrazione.Volendo mostrare allo spettatore il pensiero o le emozioni di un personaggio, capì che il modo migliore per farlo, era quello di avvicinare la macchina da presa, registrando così con più precisione l'espressione del viso (...); la scoperta fondamentale di Griffith è stata quella di rendersi conto che una sequenza deve essere composta da singole inquadrature incomplete, scelte ed ordinate in base a motivi di necessità drammatica". E sostengono ancora che:"Il cinema, attraverso il montaggio si è trasformato da semplice mezzo per registrare l'attualità in un mezzo estetico di grande sensibilità". Dunque il lavoro di montaggio è rilevante sia sul piano pratico, dando struttura e ritmo al film, sia su quello estetico, influendo inevitabilmente anche sulla recitazione. La sua importanza è prioritaria e molti lo considerano l'essenza stessa del cinema,"L'elemento peculiare (specifico filmico) che permettere al cinema di assurgere ad autonoma espressione artistica".
L'introduzione del sonoro consentì al cinema di raccontare storie più complesse di quanto non fosse possibile ai tempi del muto: non solo le scene risultarono più realistiche ma la musica, i rumori e soprattutto i dialoghi, ne accentuarono l'impatto drammatico. Per questo, ma anche per problemi di natura tecnica, il linguaggio basato sul montaggio, per qualche tempo non progredì: ma ben presto, insieme alla recitazione ed alla stesura dei dialoghi, tornò ad essere "Il principio fondamentale dell'arte cinematografica". È intuitivo, infatti, che consente una profondità della narrazione, che in teatro per esempio è quanto mai impossibile; una rappresentazione teatrale si potrebbe paragonare ad una scena ripresa in campo lungo con macchina fissa. Frammentando l'avvenimento in brevi inquadrature di diversa durata, angolo e piano di ripresa, si può controllare in modo più efficace l'intensità drammatica dei fatti mentre la narrazione avanza, riuscendo a comunicare un senso di movimento altrimenti impossibile con un piano sequenza, un campo lungo o anche con un montaggio invisibile; inoltre le inquadrature sui particolari descrivono la storia in modo completo e convincente, quindi più vicino alla realtà di quando non possa fare un'unica inquadratura in campo lungo.
Il montaggio invisibile è particolarmente usato nel cinema classico e in quello americano (John Ford e Frank Capra); è funzionale alla trasparenza della storia e la macchina non rivela mai la sua presenza a vantaggio della fluidità visiva e della narrazione, più continua ed omogenea. In parole povere la regia, durante la visione, non si avverte mai. Nel cinema europeo e in quello d'avanguardia, invece, il cineasta solitamente lascia il segno della propria personalità con un montaggio che si discosta da norme e convenzioni, imponendo il suo ritmo con continui cambi d'inquadrature sia nelle angolazioni che nei piani. La macchina da presa allora diventa parte attiva della narrazione (non occhio distaccato come accade in una scena fissa generalmente in campo lungo). In genere il responsabile del montaggio è il produttore e/o il regista. Il montatore ha il compito e la possibilità di scegliere i vari ciak della stessa inquadratura per trovare il punto in cui lo stacco risulta drammaticamente più efficace: non solo riordina la successione delle sequenze, ma ne interpreta e valorizza i particolari. È da notare però che soltanto alcuni cineasti di grande successo possono permettersi il controllo e la supervisione del montaggio, il cosidetto the last cut (il taglio finale)!
Il montaggio,"È il solo aspetto specifico della sola arte del film" (Stanley Kubrick).
da www.1aait.com
La messa a fuoco è un concetto più elastico di quanto si possa immaginare di primo acchito: impostando una certa distanza sull'obiettivo, è facile dimostrare sperimentalmente che il medesimo soggetto resterà a fuoco anche se si avvicinerà o si allontanerà dalla cinecamera, pur senza variare l'impostazione dell'anello delle distanze. L'ampiezza di questo spazio viene definito "profondità di campo", e in un mondo tridimensionale quale è quello in cui viviamo, il fatto che questa "profondità" esista è senz'altro un vantaggio; la PdC, in altre parole, consiste in quello spazio di fronte e alle spalle del soggetto, entro il quale quest'ultimo può muoversi (avvicinandosi o allontanandosi dalla cinepresa), restando nitido.
Osserviamo qualche esempio, magari anche per imparare come leggere una tabella della Profondità di campo, nel caso non si avesse dimestichezza.
Nel prospetto riprodotto in figura, sulla sinistra sono incolonnati i valori presenti sulla ghiera delle distanze dell'obiettivo, espressi in metri; i valori si ripetono ciclicamente per ciascuna delle tre focali prese in considerazione, indicate sull'estrema destra (f= 6, 15, 30 mm); in alto sono riportati orizzontalmente i valori di diaframma: da F: 2,8 a F: 45.
Abbiamo evidenziato alcune letture della PdC relativa alla focale di 15 e 30 mm: osservando la colonna relativa al diaframma 8, si nota che, alla distanza (teorica) di 1,6 m dal soggetto, la PdC va da 1,05 a 3,5 m. Alla distanza di 6 metri, la PdC cresce, estendendosi da 1,4 m all'infinito. Sempre alla distanza di 1,6 m e con diaframma 8, ma alla focale di 30 mm, la PdC si estende da 1,40 a 1,85 m; mentre alla distanza di sei metri, essa si estende da 3,7 a 15 metri.
Già con questi pochi esempi, si capisce che, per una medesima impostazione sulla ghiera delle distanze, l'ampiezza dello spazio detto PdC può variare grandemente, e dipende da alcuni fattori che esamineremo uno per uno.
Il primo di questi è la lunghezza focale dell'obiettivo: maggiore la focale, minore la PdC. A questo riguardo va detto che la PdC di un'ottica di data focale X è assoluta, ossia prescinde dal formato di pellicola che si trova dietro di essa: un 40 mm avrà sempre la stessa PdC, sia esso montato su di una 35 mm (sulla quale verrà considerata un'ottica "normale"), sia che si trovi su una cinepresa S/8 (sulla quale funzionerà da tele già piuttosto spinto). Va però fatta una precisazione: poiché, a parità di immagine osservata, un fotogramma 35 mm deve essere ingrandito circa venti volte meno di un fotogramma S/8, ecco che occorre mettersi d'accordo su cosa sia la messa a fuoco, ossia occorre domandarsi fino a che punto posso considerare nitida o accettabile un'immagine che comunque - in linea teorica - perfettamente a fuoco non è, stante il fatto che col formato superiore, è possibile "perdonare" scostamenti maggiori dal settaggio ottimale, rispetto al formato inferiore; e questo è possibile grazie alla maggior "densità" di informazioni che si può ottenere col 35 mm, e al fatto che, crescendo di formato, per una data focale, ci si sposta verso l'estremo grandangolo rispetto ai formati inferiori. Ciò dà l'mpressione che lo "sfocato che non appare tale" grazie alla P.d.C., sia meno pronunciata, quando di fatto è la stessa del formato minore.
Per comprendere meglio come possa verificarsi questa sorta di "inganno ottico" (che si basa su precise premesse fisiche), dobbiamo pensare all'immagine che si forma sulla pellicola come a una serie infinita di punti luminosi, focalizzati sull'emulsione dall'obiettivo. Ciascun punto-immagine, proveniente da un preciso punto della scena inquadrata, è un po' come una sorta di microscopica circonferenza, ed è tanto più netta quanto più piccolo è il suo diametro; ovviamente più precisa è la messa a fuoco, più è fatta salva questa condizione, mentre se ci scostiamo progressivamente dal fuoco ottimale, il diametro di questi punti cresce, e la definizione cala progressivamente, poiché ciascuna "circonferenza" va a sovrapporsi con quelle adiacenti. Ecco quindi che si parla di "circolo di confusione", fenomeno che si verifica quando il diametro di questi circoli diventa maggiore delle dimensioni medie delle particelle che compongono l'emulsione: la Schneider, ad esempio, per i suoi "Macro Variogon" montati sulle Nizo, nonché per gli Optivaron destinati alle cineprese a ottica intercambiabile, considera nel calcolo per la determinazione delle tabelle di PdC, un circolo di confusione di 0,02 mm, un valore medio-basso ricavato proprio tenendo conto delle problematiche di risolvenza intrinseche del S/8, e che rispetta almeno in parte la massima definizione ottenibile con la più risolvente delle emulsioni S/8, almeno fino a 25 anni fa. Questo significa che la Schneider per ogni punto-immagine che produce un circolo non più grande di 0,02 mm di diametro, considera "a fuoco" il corrispondente punto-scena da cui quel raggio luminoso viene originato. Chiaro che si tratta di una convenzione basata in parte anche su osservazioni empiriche, per cui, in teoria, nulla toglie che si possa prendere in considerazione valori di soglia anche più bassi: in questo caso la PdC sarà più ristretta, come capita con la tabella riprodotta più in alto. Viceversa con valori di soglia più elevati.
Fatta questa precisazione, va osservato che nel S/8 si ha comunque una PdC sempre relativamente ampia, in considerazione del fatto che le focali di uso comune presentano valori assoluti numericamente molto bassi. Questo può essere un aiuto, poiché perdona più facilmente errori e imprecisioni di messa a fuoco (specie se sono fatte salve pure le condizioni dei punti che seguono); ma può anche essere una limitazione quando si vuole ottenere una messa a fuoco molto selettiva, che isoli il soggetto principale da ciò che si trova alle sue spalle, facendolo risaltare dallo sfondo quasi come se si distaccasse da questo. Non potrò mai dimenticare la prima volta che vidi le mie prime stampe ottenute con la mia reflex e il semplice obiettivo da 50 mm: già con diaframmi non più chiusi di 5,6 (v. oltre), si otteneva un soggetto principale perfettamente nitido che si stagliava su uno sfondo ridotto a semplici e gradevolissime macchie di colore. Cosa quasi impossibile da ottenere col S/8 nella stragrande maggioranza dei casi, poiché raramente si usa la focale di 50 mm, in quanto "avvicina" molto al soggetto: per sfruttarla senza problemi, occorrerebbe allontarnarsene notevolmente. Una volta, per ottenere un effetto simile, fui costretto a usare la focale di 80 mm con la cinepresa montata su cavalletto, usando la cadenza di 54 fps per ridurre ulteriormente la PdC (v. oltre). Ma anche così lo sfondo, pur sfocato, non era gradevole quanto quello della reflex, per via probabilmente dello zoom e della forma romboidale (e non a iride) del diaframma, che producono di solito uno sfocato con caratteristiche che ricordano vagamente una sorta di forte mancanza di definizione. Specie col S/8, questo è uno dei limiti peggiori degli zoom rispetto ai cosiddetti "prime lenses", ossia obiettivi a focale fissa. Comunque da quanto esposto più sopra, si dovrebbe comprendere anche perché occorre usare la massima focale disponibile quando si fa la messa a fuoco: la riduzione della P.d.C. evidenzia il probabile sfocato e facilita l'operazione rendendo la regolazione più precisa.
Tornando al tema principale, il secondo paramentro da cui dipende l'ampiezza della PdC è l'apertura del diaframma d'uso: più è chiuso (=valori numerici alti), maggiore la PdC. Questo si spiega facilmente se pensiamo a quanto detto poco sopra riguardo ai punti-scena e ai cerchi di confusione: all'allontanarsi dal "fuoco ideale", aumenta il diametro dei circoli di confusione, come conseguenza dell'aumentato diametro - per così dire - dei raggi luminosi in transito attraverso l'ottica: ma chiudendo il diaframma, questi raggi luminosi vengono "tosati" e "snelliti", sì da compensare in certa misura, l'errore/tolleranza di focheggiatura; "l'impatto" sull'emulsione tenderà nuovamente - in certa misura - a un ideale punto dal diametro infinitamente piccolo. A riprova di ciò, è possibile utilizzare una reflex a controllo della P.d.C.; chiudendo il diaframma all'effettiva apertura di lavoro, si osserverà un'immagine più scura nel mirino, ma in generale, più a fuoco sia davanti sia dietro il soggetto principale. Oppure si può fare questa esperienza, riservata ai miopi: levatevi gli occhiali e osservate ciò che sta davanti a voi ad almeno un paio di metri di distanza, attraverso i due indici e il pollice posizionati come in figura, tenendoli il più vicini possibile all'occhio; stringendo progressivamete il foro risultante, il tutto apparirà più scuro, ma anche con i bordi molto più netti: si tratta di un fenomeno che dipende dalle stesse leggi fisiche che descrivono quanto sopra esposto.
Ovviamente, volendo giocare creativamente coi diaframmi nel S/8, non si può giostrare fra questi e i tempi di otturazione come si farebbe con una macchina fotografica SLR a priorità di diaframmi, poiché i tempi sono normalmente fissi, tranne che per alcune eccezioni; ma anche queste macchine presentano regolazioni del tempo di posa troppo ristrette perché si possa parlare di un aumento della versatilità. Di conseguenza, se voglio aumentare la PdC chiudendo maggiormente il diaframma, le uniche possibilità che ho sono: ricorrere a più luce (magari artificiale) e/o a una pellicola più sensibile;
Volendo, invece, diminuire la PdC aprendo maggiormente il diaframma, posso utilizzare un'emulsione meno sensibile e/o uno o più filtri grigi (neutri) che, sottraendo luce in entrata, obbligano la cinepresa a lavorare con diaframmi più aperti; attenzione, però, al possibile calo di definizione su obiettivi zoom molto spinti, anche blasonati. Inoltre, ma soltanto se il movimento della scena da registrare con ridotta PdC non è importante, posso ricorrere anche a una cadenza di ripresa maggiore dei canonici 24 fps, per esempio 36 o, meglio ancora, 54; in questo secondo caso si ha necessità di aprire il diaframma di oltre due stop rispetto al normale, poiché il tempo di esposizione pro-fotogramma si riduce drasticamente.
Per concludere questa sezione, va aggiunto che quanto sopra esposto spiega anche la ragione per cui sulle cineprese a ottica intercambiabile come Beaulieu o Leicina, è presente un pulsantino che fa aprire il diaframma al massimo quando si deve focheggiare, per tutto il tempo in cui lo si tiene premuto.
Il terzo parametro che influenza l'ampiezza della PdC è la distanza fra soggetto e cinepresa: infatti a parità di focale e luce, la PdC è tanto maggiore quanto più distante dall'obiettivo si trova il soggetto. Se, osservando il barilotto di qualsiasi obiettivo, vi siete chiesti come mai la distanza fra i diversi valori di metri e piedi impressi sull'anello di messa a fuoco, si accorcia al loro aumentare di valore, la ragione è proprio questa: più è distante il soggetto, meno "critica" è la messa a fuoco, poiché si va nella direzione della "distanza iperfocale" ossia la distanza alla quale non è più necessario focheggiare, per dirla in termini molto semplici; infatti la rotazione che separa la tacca dei 10 o 15 metri dal simbolo dell'infinito è di pochi millimetri, mentre è molto maggiore fra 1,5 e 2 metri. A riprova di quanto detto sopra sul rapporto fra focali e PdC, va detto che su un obiettivo come il Cinegon Schneider (f = 10mm), la distanza ipefocale si raggiunge già a valori oltre 1,5 m: dopo di questa, infatti, sul barilotto compare il simbolo dell'infinito (va detto comunque che esiste più di una versione di questo "vetro", con diversi valori di riferimento delle distanze).
Conviene ora fare qualche esempio: alla focale di 40 mm, presente su quasi tutte le cineprese, e con un diaframma di F: 16, impostando sulla ghiera delle distanze il valore di 1,5 metri, risulterà a fuoco tutto ciò che si trova da 1,14 a 2,10 metri dal piano di scorrimento della pellicola, secondo le tabelle Schneider. Ossia la PdC complessiva risulterà pari a 96 centimetri a partire da 1,14 metri dal piano di scorrimento pellicola, simboleggiato su qualsiasi tipo di macchina cine-video-fotografica dal simbolo di un cerchietto tagliato a metà da un piccolo segmento verticale. Lasciando invariati focale e diaframma, ma impostando la distanza di 3 metri sulla ghiera delle distanze, risulterà a fuoco tutto ciò che si trova da un minimo di 1,87 a un massimo di ben sette metri dal piano pellicola: la PdC risultante, sarà, quindi, pari a 5,13 metri. Si dice anche che, generalmente, la P.d.C complessiva si estende all'incirca per un terzo davanti al soggetto e per due terzi alle sue spalle, e questi valori lo confermano.
Ragionando al contrario (cfr. riquadri gialli): supponiamo che, con diaframma 16 e questa focale di 40 mm, io voglia tenere ben a fuoco la mia fidanzata, ma anche la montagna sullo sfondo; come posso fare? Semplice: osservando la tabella, cercherò per quale valore della ghiera delle distanze, va a fuoco anche l'infinito, et voila: questo valore è sei metri; se la focale è 40 mm e il diaframma è 16, con quel valore di sei metri impostato sull'obiettivo, risulterà tutto a fuoco a partire da 2,70 m fino all'infinito. Basterà che io mi metta a circa tre metri dalla mia amata e il gioco è fatto.
Tutto così semplice, dunque? Non proprio: se si fosse d'accordo su quanto debba essere ampio il circolo di confusione in relazione al formato coperto, non ci sarebbero problemi; in realtà diverse fonti suggeriscono ampiezze di PdC leggermente variabili, certamente perché alcune sono più strette di altre su questo parametro: come dicevo all'inizio, il concetto di messa a fuoco può essere meno oggettivo di quanto si possa desiderare. Quindi il consiglio è di fare qualche esperimento, basandosi preferibilmente su tabelle redatte dal costruttore della propria cinepresa, se presenti; oppure usandone di universali, per esempio quelle presenti su qualsiasi manuale del cineamatore che si rispetti, purché siano il più dettagliate possibili, e vengano applicate con una certa "circospezione", cioè cercando di non sfruttare mai tutta la PdC dichiarata, bensì "stringendola" un po', per sicurezza; soprattutto con diaframmi più aperti di F 8 e con focali più lunghe di 20-25 mm, che nel Super 8 equivalgono già a un medio-tele. Citando a memoria, eviterei le tabelle presenti sul per altri versi eccellente Cinematografare, di David Cheshire (Mondadori, 1981): troppo scarne, dato che prende in considerazione una gamma limitata di focali e soprattutto di distanze, presentando poi i diversi dati in piedi e pollici da convertire nel Sistema Metrico Decimale.
da La Soffitta di Maurizio Di Cintio
Il montaggio, ormai lo sappiamo, è la parte più importante del linguaggio cinematografico. Il regista potrà anche aver scelto tutte le parole più giuste del mondo, ma è la prassi di editing a decretare, infine, la costruzione grammaticale della pellicola. Non è poi un mistero che alcuni film, addirittura, siano stati accolti freddamente dalla critica alla loro prima versione, per poi vincere numerosi premi dopo un rimontaggio, e pensiamo a Nuovo Cinema Paradiso di Giuseppe Tornatore.
Ora, a mostrarci alcuni dei montaggi più efficaci del cinema è un video di Cinefix, che per il difficile compito, sceglie di mettere in prima posizione una sequenza di Lawrence D'Arabia, indimenticabile colossal girato da David Lean nel 1962. In particolare, lo stacco che passa dal fiammifero in fiamme al sole che sorge sul deserto: e come contestare un effetto di editing veramente così potente ed evocativo?
Al numero 2, e per molti sarebe decisamente piaciuto vederlo all'uno, abbiamo invece l'imprescindibile 2001: Odissea nello spazio di Stanley Kubrick. La scena, ovviamente, potete tranquillamente immaginarla: quella dell'osso lanciato per aria che poi diventa l'astronavicella volante. Tra le due immagini tutta la storia dell'uomo dalle caverne preistoriche ai viaggi nello spazio. Insomma, tutta la forza del montaggio in un solo taglio, in un unico cambio d'immagini. Puro genio, e nessuno può contestare!
A chiudere il podio, un altro capolavoro pazzesco della Settima Arte, Apocalypse Now di Francis Ford Coppola. Anche in questo caso, la scena è di quelle che si studiano nelle scuole di cinema: un uomo distrutto nella sua camera da letto, il ventilatore a soffitto che gira velocemente, e il fade in un elicottero immerso nella Guerra del Vietnam. E questo, cari lettori, non è solo tra i montaggi più stupefacenti che ricordiamo, ma anche uno dei migliori usi della sovrimpressione!
Gli altri film selezionati da Cinefix? Si va da Intrigo Intenazionale di Alfred Hitchcock a La corazzata Potemkin di Sergei Eisenstein, passando per un titolo più recente come City of God di Fernando Meirelles. Godetevi il video e buona visione!
di Pierre Hombrebueno per farefilm.it
Genio innovatore e trasgressivo della fotografia internazionale, William Klein nella sua vita ha praticato di tutto, dalla grafica alla pittura, alla fotografia, al cinema, alla scrittura. Fino all'11 settembre 2016, Palazzo della Ragione Fotografia di Milano ospita la mostra William Klein: il mondo a modo suo che ripercorre il suo articolato percorso artistico, iniziato oltre sessanta anni fa proprio a Milano. La rassegna, curata da Alessandra Mauro, presenta oltre 150 opere originali, alcune delle quali di grande formato, tutte provenienti dall’archivio personale del fotografo, accompagnate da nuove installazioni espressamente concepite per questa esposizione, ma anche da estratti dei suoi filmati, da alcune gigantografie e da una selezione delle pellicole che ha diretto.
Nove sezioni scandiscono un itinerario che tocca le città fotografate da William Klein in tutta la sua carriera, anche attraverso i diversi mezzi espressivi di cui si è servito. Si parte dalle Prime opere, lavori astratti realizzati dal fotografo americano quando, ancora appartenente alla corrente hard edge, stile pittorico caratterizzato da bruschi e netti contrasti geometrici tra diverse aree di colore, cominciò a operare come artista sperimentale e concettuale proprio a Milano.
Si passa quindi alla sezione dedicata a New York, un racconto visivo straordinario, un diario fotografico del suo ritorno nella sua città dopo il soggiorno a Parigi, "con un occhio americano e uno europeo". Racconta Klein, «era come se fossi un etnografo: trattavo i newyorkesi come un esploratore avrebbe trattato uno zulu, cercando lo scatto più crudo, il grado zero della fotografia. Nel mio libro su New York c’era un sottotitolo, stile tabloid. Trance Witness Revels. Tre parole che per me allora riassumevano tutto ciò che avevo da dire sulla fotografia. Trance witness è chi capita per caso su una tragedia. Revels è un gioco di parole con reveals. Rivelare, ma anche gozzovigliare. Il tutto sotto il segno della trance. Riscoprivo la mia città e scoprivo la fotografia. Privo di formazione e senza tante conoscenze, mi dovevo ingegnare con quello che ottenevo. La mia formazione era diversa: disegno, litografia, pittura - che tentavo di applicare alla fotografia. Quello che i professionisti avrebbero gettato nel cestino, per me era un eccitante materiale da rilavorare».
Si va poi a Roma le cui immagini restituiscono la sua ricognizione fatta tra il 1956 e il 1957. Nel 1956 Federico Fellini vede il suo libro su New York e propone a Klein di lavorare come assistente per il suo prossimo film, Le notti di Cabiria (1957). Una volta a Roma, il film viene posticipato e Klein decide di realizzare un libro fotografico sulla sua idea della città. Nasce così Rome, con fotografie di Klein e testi, tra gli altri, di Pier Paolo Pasolini. «Roma è la mia città fortunata», racconta Klein. «Nel 1956 pubblicai il mio libro fotografico su New York. All’epoca sorprese, sconvolse e influenzò un’intera generazione di fotografi. In quel periodo ero soprattutto un pittore astratto, ma la pittura geometrica e hard-edge che praticavo non mi consentiva di dire la mia sul mondo intorno a me. Fu così che provai a sperimentare con la fotografia. Dopo il libro su New York, sentivo di aver detto tutto quel che volevo con una macchina fotografica e il mio successivo obiettivo diventò il cinema. Ero un appassionato di Fellini e riuscii a combinare un incontro con lui a Parigi: desideravo dargli una copia del mio libro. Lui mi disse “Ce l’ho già. La tengo vicino al letto. Ma perché non vieni a Roma e diventi mio assistente?”. Ero nel cuore dei miei vent’anni e così, senza problemi, arrivai a Roma. Naturalmente, Federico aveva già uno stuolo di assistenti ma, ad ogni modo, lavorai con lui al casting di Le notti di Cabiria, documentando un intero esercito di prostitute e protettori. Il film però fu rimandato. E io mi ritrovai a pensare: Va bene, ho fatto un libro su New York, allora perché non farne uno anche su Roma?».
Due ampie sezioni sono dedicate anche a Tokyo e Mosca, altre metropoli oggetto dei suoi libri, per poi arrivare al racconto di Parigi, la città che ha accolto Klein quando - diciottenne - lascia New York, la città dove ha deciso di vivere per tutta la vita, muovendosi per le sue strade con la curiosità di un “osservatore partecipante” mai sazio di immagini. «Pensandoci, ho notato che di solito, la Parigi dei fotografi era romantica, brumosa e soprattutto monoetnica», scrive Klein. «Una città grigia popolata da bianchi. Mentre per me Parigi, come New York se non di più, è un melting pot. Una città cosmopolita, multiculturale e completamene multietnica».
Segue la parte dedicata alla Moda, ambito nel quale è riconosciuto come grande innovatore. Nel corso della sua carriera Klein ha realizzato anche diversi Contatti dipinti, in cui la commistione di pittura e fotografia trova espressione nel gesto dell’autore che sceglie, tra i vari provini a contatto, l’immagine da ingrandire e la contorna di segni grafici forti e unici. Racconta Klein, «ripresi in mano i pennelli per la prima volta dopo molti anni. Ma riprodurre le linee, le croci e i cerchi che tutti i fotografi del mondo usano per evidenziare gli scatti scelti non mi bastava. Vidi la possibilità di inventare un nuovo tipo di oggetti artistici coniugando in modo organico, non arbitrario, pittura e fotografia. Stranamente, il mio metodo di lavoro era completamente diverso da quello che utilizzavo quando stavo con Léger e anche dopo, al tempo delle astrazioni geometriche hard-edge. Per Léger, le pennellate di Van Gogh, Picasso e degli action painters erano bandite. Le forme dovevano avere contorni netti e superfici piatte… Ma quando cominciai a dipingere i provini, ci furono solo pennellate ed esultanza. L'esultanza della pittura richiamava la gioia che si prova scattando una fotografia. Per me scattare una foto era una gioia, era un'esperienza fisica che mi dava la carica».
Chi è William Klein
William Klein nasce a New York nel 1928 da una famiglia ebrea d'origine ungherese. Interrotta a diciott'anni l'università, passa due anni nell'esercito e si stabilisce a Parigi per diventare pittore. Il secondo giorno a Parigi, incontra Jeanne Florin che diventerà sua moglie e la sua principale collaboratrice. Nei primi anni Cinquanta Klein crea una serie di pitture murali cinetiche per alcuni architetti italiani.
Di ritorno a New York, nel 1954 lavora a un "diario fotografico" che uscirà due anni dopo in un volume disegnato dallo stesso Klein: Life is Good & Good for You in New York (Prix Nadar del 1957). Comporrà altri libri sulle città: Rome (1958), Moscow (1961), Tokyo (1964).
Tra il 1955 e il 1965 fotografa la moda per Vogue, creando immagini di rara ironia. In questi anni si avvicina al cinema con una serie di pellicole diverse per stili e temi.
Negli anni Ottanta torna alla fotografia e pubblica tra l'altro William Klein (1983), Close Up (1989), In and Out of Fashion (1994), New York, 1954-1955 (1995), Parigi + Klein (2002), Contacts (2008), Paintings (2012) e Brooklyn + Klein (2014). Nel 1999 realizza il film Le Messie.
Tra i tanti riconoscimenti, riceve il premio Hasselblad, il Guggenheim, oltre al grado di Commandeur of Arts and Letters, alla Royal Photographic Society Millenium Medal e alla Medaglia d'oro di Parigi. Nel 2005 il Centre Pompidou gli dedica una grande retrospettiva.