CAP.1

IL PERCORSO DELL’ANALISI

Possiamo definire l’analisi come un insieme di operazioni compiute su un oggetto, attraverso una scomposizione ed una successiva ricomposizione; lo scopo è quello di individuarne meglio le componenti, l’architettura, i principi di funzionamento. Così considerata, l’analisi si configura come un vero e proprio percorso verso una maggiore conoscenza dell’oggetto analizzato; scopo di questo percorso è la migliore intelligibilità dell’oggetto investigato. Ma cosa succede quando l’analisi investe dei testi e, nella fattispecie, il testo filmico? Vediamo allora quali problemi suscita un’analisi testuale dei film.

  1. La buona distanza: l’analisi testuale del film comporta, innanzitutto, un necessario distacco dalla normale situazione in cui il film viene percepito. Infatti la caratteristica di ogni film è quella di non avere una realtà materiale che l’analista può afferrare, poiché passa sullo schermo senza possibilità di controllo. Certo, è possibile vedere e rivedere un film al cinema: ma ciò che manca è la possibilità – evidente, ad esempio, nel caso di un libro – di potersi muovere liberamente al suo interno, fermarsi, tornare indietro, confrontare alcune parti e via dicendo. Al cinema, invece, siamo sottomessi alla continuità ritmica, visiva e sonora delle immagini. Per evitare questi inconvenienti – alcuni anni fa – era necessario chiudersi in uno studio dotato di moviola; in questo modo era possibile visionare, scomporre e ricomporre il film a piacimento. Oggi l’esistenza di alcune apparecchiature rende il tutto notevolmente più semplice: pensiamo ai videoregistratori, ai lettori DVD, alla multimedialità di certi computers; le numerose funzioni di slow motion, pause, rewind ecc. consentono di interrompere il flusso continuo delle immagini.

Se da un alto questo “distacco” rende più facile le operazioni di analisi, è anche vero però che rischia di ridurre la fascinazione che le immagini ed i suoni esercitano sullo spettatore quando si trova nella sala cinematografica. Nella sala, infatti, il film non viene solo visto, viene anche vissuto. Del resto la fascinazione nasce anche dal fatto che le immagini e i suoni si succedono rapidamente ed in continuità. Allora sorge spontanea una considerazione: l’analisi richiede che il film sia a portata di mano, ma allo stesso tempo cerca di allontanarlo dal vissuto. In questo senso, il “distacco” di cui parliamo si traduce in una distanza dall’oggetto d’analisi. Ma si tratta di quella che Casetti definisce una “distanza amorosa”: lo studioso deve stare abbastanza vicino all’oggetto analizzato per coglierne le caratteristiche più intime, ma al contempo deve evitare di restarne invischiato e troppo coinvolto.

  1. Riconoscere e comprendere: l’analisi mira a riconoscere e comprendere ciò che ha di fronte; tuttavia, riconoscere e comprendere non sono la stessa cosa: il riconoscimento ci permette di individuare quanto appare sullo schermo (cos’è una determinata figura, un rumore, una luce); la comprensione è invece la capacità di riportare quanto appare sullo schermo ad un insieme più vasto: si tratta di collegare più elementi fra loro (anziché isolarli per identificarli). Appare ovvio che tra il riconoscere ed il comprendere esista un legame profondo: davanti ad un film si è costantemente impegnati ad individuare singoli elementi e a costruire un tutto. L’analisi attiva proprio questo procedimento, con lo scopo di conseguire due risultati
    a) riconoscere meglio e di più; l’analisi porta a fare un inventario di tutte le caratteristiche dell’oggetto;
    b) oltre a capire il testo, si cerca di capire come si arriva a comprenderlo: l’analisi mette in luce il cosa, il come ed il perché abbiamo capito.
  2. Descrivere ed interpretare: l’analisi prevede il mescolarsi di altre due attività: la descrizione e l’interpretazione. Descrivere significa ripercorrere una serie di elementi, uno per uno, con estrema accuratezza; si tratta di un lavoro minuzioso ed “oggettivo”, in quanto la descrizione è guidata da quanto viene osservato piuttosto che da chi osserva. Interpretare invece significa cogliere il senso del testo, andando al di là delle sue apparenze, impegnandosi in una ricostruzione personale ma fedele. Il lavoro è allora “soggettivo”, e l’autore dell’analisi si mette in primo piano. Quindi la descrizione riguarda la scomposizione del testo, mentre l’interpretazione caratterizza la sua fase di ricomposizione.
  3. Precomprensione del testo ed ipotesi esplorativa. La prima riguarda una comprensione preliminare che si ha del testo, il grado ed il tipo di conoscenza che si ha di esso prima ancora di iniziare l’analisi; la seconda riguarda una sorta di scopo che l’analisi si prefigge, cioè un punto dove vuole arrivare. Le due caratteristiche non devono in nessun caso vincolare l’analisi: ogni possibile correzione di questi due aspetti è sempre possibile, poiché servono solo ad orientare l’analisi, a darle una meta.
    Così descritta, l’analisi è un continuo “compromesso” fra due esigenze: restare fedeli al testo e cogliere un principio di spiegazione. Questa ricerca di equilibrio condiziona anche altri 3 passaggi:
    a) delimitazione del campo: risponde alla domanda “cosa indagare?” Qui si tratta di indagare un gruppo di film, un solo film, una sequenza, un’immagine. Per esempio, se vogliamo capire come funziona il cinema di Sergio Leone possiamo scegliere Per un pugno di dollari; ma se vogliamo capire , più in generale, come funziona il cinema western, probabilmente dovrò affiancare a quel film altri titoli.
    b) scelta del metodo: ci si può avvalere, nell’analisi, degli strumenti della semiotica (se consideriamo il film come testo); della sociologia; della psicoanalisi; della storia. I metodi praticabili sono moltissimi e dipende dal tipo di risultato che si vuole ottenere.
    c) definizione degli aspetti da privilegiare: l’analisi potrà privilegiare alcuni aspetti del film, come lo stile registico, le componenti linguistiche, i modi della rappresentazione (quindi come vengono mostrati, narrati o rappresentati determinati eventi).

Quindi sono 5 i momenti che caratterizzano il lavoro dell’analista. Il rispetto di questi momenti costitutivi rendono l’analisi pertinente, cioè fanno in modo che essa non sia caotica, casuale ed improvvisata. Tale percorso, come abbiamo visto, si pone a metà fra l’analisi “oggettiva” e quella “soggettiva”: quindi possiamo dire il percorso è regolato da alcune condizioni ma allo stesso tempo lascia spazio alla creatività dell’analista. Questo è il nocciolo della questione: l’analisi del film è, da un alto, una disciplina (cioè un’impresa scientifica); dall’altro lato, una creatività (che la rende un po’ un’arte).  Il legame intimo fra le due condizioni garantisce la fondatezza e l’utilità dei risultati raggiunti.

CAP.2

I PROCEDIMENTI DELL’ANALISI

  1. Segmentare: si tratta della suddivisione dell’oggetto nelle sue diverse parti, con lo scopo di riconoscere qualcosa nella sua natura più intima. Facciamo un esempio: un botanico, dinanzi ad una pianta, distingue via via le varie parti: radici, fusto, rami, foglie, frutti.
  2. Stratificare: si tratta dell’indagine “trasversale” delle parti individuate, cioè l’analisi delle parti interne. Si procede per sezioni, al fine di cogliere i diversi elementi in gioco, sia singolarmente che nel loro insieme. E’ come se si tagliasse a metà il fusto dell’albero per studiarne la composizione interna.
  3. Enumerare e ordinare: si redige una prima mappa dell’oggetto analizzato tenendo presente delle differenze e delle somiglianze sia di struttura che di funzione. E’ una mappa puramente descrittiva; ma senza di essa non si può andare avanti. Infatti qualsiasi testo non si dà allo studioso in tutta la sua evidenza: se ne può cogliere la superficie, le parti principale, le tendenze ricorrenti; tuttavia è l’insieme delle sue caratteristiche che tende a sfuggire (a maggior ragione nei film).
  4. Ricompattare e modellizzare: si tratta di operare il processo di ricomposizione dell’oggetto, con lo scopo di ottenere un quadro globale. Infatti precedentemente si cercano di stabilire rapporti, nessi e connessioni; ma a nulla serve se non li riconduciamo ad una visione unitaria dell’oggetto, ai suoi principi di funzionamento e di costruzione. Dobbiamo fornire, insomma, una chiave di lettura.

L’oggetto della nostra analisi sarà il testo filmico. Per operare i processi sopra descritti esistono sicuramente della valide norme, o meglio “regole”, alle quali attenersi; tali regole, però, non sono vincolanti ed automatiche: si opera con esse e all’interno di esse, ma ciò non esclude una loro applicazione soggettiva e creativa. E’ come quando si parla una lingua: lessico e sintassi sono sempre le stesse, ma ognuno li utilizza a modo suo. Ora addentriamoci nella pratica dell’analisi del film, aiutati dal 4° episodio di Paisà (Rossellini, 1946), quello ambientato a Firenze.

LA SCOMPOSIZIONE

Dianzi ad un testo filmico da analizzare gli analisti chiamano in causa la segmentazione (quella del botanico che suddivide le varie parti della pianta); si tratta della stessa operazione che il lettore fa su un romanzo, riconoscendo i capitoli, i paragrafi ed i capoversi. La seconda serie – “su cosa mi devo concentrare?”, “cosa è importante?”, “perché è importante?” – chiamano in causa la stratificazione (quando il botanico taglia il fusto per studiarne l’interno). E’ ancora come per il lettore di un romanzo: mentre legge un capitolo, egli sta attento a quel personaggio, alla descrizione di quell’ambiente, allo stile; mette cioè a nudo i vari elementi del capitolo ed insieme affronta il suo insieme che gli servirà per comprendere il continuo della lettura.
Segmentazione: il modo più semplice per iniziare è quello di suddividere il film in grandi unità di contenuto, in blocchi conclusi, per poi frazionarli in unità più piccole. Si ottengono così dei segmenti di varia grandezza e complessità: episodi, sequenze, inquadrature, immagini.

  1. Gli episodi costituiscono il segmento più grande, equivalente – in un libro – alle diverse novelle di una stessa raccolta; ora, sempre nei libri, il passaggio da una sequenza all’altra è dato da appositi artifici grafici (segni di spaziatura, punteggiatura, numeri di capitolo ecc.). Allo stesso modo, nel film abbiamo i titoli, la voce fuori campo o altri artifici. In Paisà la suddivisione in episodi è data da una premessa iniziale, ma anche dagli stacchi da un primo piano ad un campo lungo; da un’immagine di fiction ad una documentaria; dal passaggio da un luogo geografico ad un altro; dalla voce fuori campo.
  2. Tuttavia sono pochi i film ad episodi. Più tipiche dei film sono le sequenze: esse sono più brevi e meno complesse degli episodi, ma mantengono quelle caratteristiche tipiche degli episodi, cioè il loro carattere autonomo e distintivo. Anche le sequenze ricorrono a segni di punteggiatura che ne delimitano i confini (iris, tendina, dissolvenza incrociata, dissolvenza al nero, stacco netto ecc.). All’interno di una sequenza è possibile individuare delle sottosequenze, cioè delle unità di contenuto più piccole che vanno però rapportate ad unità semantiche superiori. L’esempio è sempre quello di Paisà: il 4° episodio è suddivisibile in 6 sequenze (quella dell’ospedale; quella della Firenze liberata; quella degli Uffizi; quella della Firenze in attesa di liberazione; quella del tragitto verso la “terra di nessuno”; ed infine quella della battaglia) più alcune sottosequenze fatte di incontri, momenti di approfondimento, elementi aggiuntivi.
  3. Le inquadrature corrispondono ai “capoversi” di un libro: tecnicamente parlando, l’inquadratura è un’unità tecnica, cioè un segmento di pellicola che inizia con l’avvio della cinepresa e termina con l’arresto della stessa; ma l’inquadratura è anche un’entità ambigua: infatti, se prendiamo l’esempio del campo/controcampo, ci rendiamo conto che due distinte inquadrature unite vengono percepite come un blocco unico (luogo, tempo e azione).
  4. Le immagini sono come i singoli enunciati in un libro. Anch’esse possono essere più o meno complesse: infatti, un’inquadratura completamente statica è come un quadro: mette in mostra elementi e significanti che si espongono alla visione dello spettatore (seppur per un tempo limitato); la maggior parte delle inquadrature, contenendo elementi i movimento, cambi di spazio e movimenti di macchina, mostrano un’insieme complesso di movimenti ed azioni. Ogni volta che l’inquadratura si modifica, anche di pochissimo, ci troviamo di fronte ad una nuova immagine. Quindi le immagini non sono come le inquadrature, cioè singoli spezzoni delimitati da un inizio ed una fine: l’immagine è una porzione di ripresa.

Questo tipo di analisi dà vita a quella che noi chiamiamo sceneggiatura a posteriori. E’ una forma di traduzione del film sulla carta, che consiste in una descrizione della sua parte visiva ed in una trascrizione della parte sonora. In questo modo, si fissa il film sulla carta evitando che possa sfuggirci durante l’analisi (proprio come se fosse un libro). Oggi come oggi, l’avvento delle moderne tecnologie rende questo passaggio meno necessario o forse più agevole; ma in passato era la pratica più largamente diffusa.
Stratificazione: essa consiste nello spezzare la compattezza del film per coglierne i diversi strati che lo compongono. Una volta segmentato il film in episodi, sequenze, inquadrature ed immagini, si passa ad analizzare i singoli segmenti  individuandone le componenti interne (spazio, tempo, azione, elementi figurativi e sonori); essi verranno a loro volta analizzati sia nella funzione che hanno all’interno del segmento sia rapportandoli a tutto il film. Tale procedura è più complessa della “segmentazione”, e si articola in 2 momenti:

  1. Identificazione di una serie di elementi omogenei: si individuano alcuni fattori che ritornano nel corso del film e che si segnalano per il loro appartenere ad una stessa area o famiglia.
  2. Articolazione della serie: si osservano gli elementi di una stessa area per operare una distinzione fra essi (dissolvenza contro stacco netto; snodi narrativi, contrasti stilistici.

LA RICOMPOSIZIONE

Questa fase comporta una nuova riaggregazione di tutti gli elementi individuati nella “scomposizione”. Le fasi della ricomposizione sono 4: enumerazione, ordinamento, ricompattamento, modellizzazione.

  1. Enumerazione: si tratta di una fase molto semplice, che consiste nel fare un elenco di tutti gli elementi identificati nella scomposizione (quindi di tutti gli elementi del film).
  2. Ordinamento: si mette in evidenza il posto che ciascun elemento occupa nel film. Ogni elemento non è più separato dal contesto – cosa che invece avveniva nella scomposizione – ma viene considerato come membro di un insieme.
  3. Ricompattamento: in questa fase si comincia ad individuare il nucleo centrale del film. Per arrivarci bisogna attuare una “sintesi”, e questa fase prende appunto il nome di ricompattamento. Si cerca di raggiungere un’immagine ristretta del testo: da due elementi sovrapponibili se ne fa uno; da due elementi simili se ne trae uno che li ingloba; la gerarchizzazione finale degli elementi.
  4. Modellizzazione: il passo conclusivo consiste nel raggiungere una rappresentazione sintetica capace di spiegare l’oggetto investigato. Questa rappresentazione prende il nome di modello. Esso è uno schema che ci dà una visione dell’oggetto, con i suoi principi di costruzione e di funzionamento. E’ un qualcosa che fornisce una chiave di lettura, un dispositivo che rende l’oggetto più intelligibile.

CRITERI DI VALIDITA’

Per essere ritenuta valida, un’analisi deve possedere almeno tre caratteristiche: deve avere una coerenza interna (cioè non contraddirsi in alcun modo); una fedeltà empirica (essere pertinente all’oggetto indagato); rilevanza conoscitiva (dire qualcosa di nuovo e non ovvio). Esistono però anche altri criteri più particolari che giustificano le strade che si vogliono imboccare e quindi i modelli a cui si intende arrivare:

  1. La profondità: un’analisi per essere valida deve essere anche profonda. Deve cioè cogliere il lato nascosto del testo, il suo senso latente. L’unico pericolo è quello di cercare qualcosa di nascosto che invece non c’è.
  2. L’estensione: un’analisi è valida se tiene conto del maggior numero di elementi possibili. L’idea è che l’analisi non deve estendersi in profondità bensì in una visione a largo orizzonte. Il pericolo è quello di smarrirsi alla ricerca di elementi inutili o improduttivi.
  3. L’economicità: un’analisi, per essere valida, deve mirare all’estrema sintesi. Anzi, tanto più è efficace quanto più è sintetica. Ciò che si ottiene non è il senso profondo del testo, bensì un “colpo d’occhio” che abbraccia l’intero testo filmico. Il rischio è quello di ridurre il testo a considerazioni ovvie o banali.
  4. L’eleganza: l’analisi è considerata come un impegno personale, all’atto interpretativo e creativo dello studioso. Ciò che si vuole è la sua interpretazione, non un’interpretazione oggettiva.

CAP.3

L’ANALISI DELLE COMPONENTI CINEMATOGRAFICHE

Se per linguaggio si intende un dispositivo che consente di dare un significato ad oggetti e gesti, di esprimere sentimenti ed emozioni, il cinema è allora appare pienamente come un linguaggio. Il problema nasce, semmai, dal fatto che il cinema adotta numerose soluzioni possibili senza riuscire – come invece fanno altri linguaggi – a fornire un insieme di regole ricorrenti. Il linguaggio cinematografico è composto da significanti, segni e codici perfettamente rintracciabili (il testo filmico di riferimento è Il Conformista di Bertolucci).

SIGNIFICANTI

Per quanto riguarda il film, occorre distinguere due tipologie di significanti: i significanti visivi ed i significanti sonori. I primi riguardano tutto ciò che rimanda alla vista e, a loro volta, sono distinguibili in immagini in movimento e tracce scritte; i secondi riguardano tutto ciò che rimanda all’udito, suddivisibili anche loro in tre categorie: voci, rumori, musica. Abbiamo quindi 5 ordini di significanti: immagini, tracce scritte, voci, rumori, musica.

SEGNI

Ciò che qui si mette in evidenza non sono i supporti fisici di significazione, bensì i modi in cui essa si organizza. Vediamo dunque i tipi di segni che il film utilizza: seguendo le indicazioni di C.S.Peirce, abbiamo tre tipi fondamentali di segni, che sono gli indici, le icone ed i simboli.

  1. L’indice è un segno che testimonia l’esistenza di un oggetto, con il quale ha un profondo legame, senza tuttavia descriverlo; un indizio può essere il classico mozzicone di sigaretta, testimone della presenza di un individuo senza dirci nulla su di esso.
  2. L’icona è un segno che riproduce i “contorni” di un oggetto. Non ci dice nulla dell’esistenza dell’oggetto in questione, ma ci informa sulle sue qualità; per esempio, una fotografia ci mostra fattezze esteriori molto particolareggiate, ma che non implicano la reale esistenza dell’oggetto.
  3. Il simbolo è un segno convenzionale, che sta per qualcos’altro in base ad una corrispondenza codificata; non ci dice nulla né sull’esistenza né sulla qualità dell’oggetto, lo indica e basta. La parola stessa, insegna Saussure, è un segno arbitrario: dicendo “albero” non predico nulla dell’esistenza effettiva di un dato albero, né richiamo alcune qualità di questa o quella pianta. Al tempo stesso, però, in base ad una convenzione della lingua italiana, trasmetto un significato ben preciso che altre lingue trasmettono con parole differenti.

Il cinema, a ben vedere, possiede tutti e tre i tipi di segni. Le immagini sono icone; la musica e le parole sono simboli, mentre i rumori sono indici. Il secondo approccio analitico consiste quindi nell’individuare queste 3 forme di segni all’interno del film.

CODICI

Del termine “codice” esistono molte definizioni possibili. Ciò che possiamo affermare con certezza è che un codice è sempre comunque:

  1. un sistema di equivalenze, grazie a cui ogni elemento del messaggio ha un dato corrispettivo (ogni segnale ha un significato ecc.).
  2. uno stock di possibilità, grazie a cui le singole scelte attivate arrivano a far riferimento a un canone (le parole pronunciate rinviano ad un vocabolario ecc.).
  3. un insieme di comportamenti grazie a cui un emittente ed un destinatario hanno la sicurezza di operare su un terreno comune (la stessa lingua ecc.).

E’ solo per la presenza di questi tre aspetti che un codice può funzionare. Ora però dobbiamo dare uno sguardo a ciò che ci interessa maggiormente: i codici cinematografici e i codici filmici.

CODICI CINEMATOGRAFICI E CODICI FILMICI

Il cinema è un linguaggio complesso che combina più tipologie di significanti (immagini, scritte, voci, rumori, musica) e più tipi di segni (indici, icone e simboli); detto questo, sembrerebbe che tutti i codici rintracciabili siano, effettivamente, anche cinematografici e che, quindi, il cinema non abbia dei codici suoi specifici. In realtà, esiste una grande distinzione fra codici cinematografici e codici filmici: i primi appartengono al cinema e sono specifici del mezzo; i secondi, invece, vengono presi – per così dire – in prestito dall’esterno. Ogni film nasce dall’intreccio di queste due tipologie di codici.  
1) codici tecnologici di base (o del mezzo in quanto tale): si tratta di una serie di elementi specifici che possono essere individuati in:

  1. il supporto: una volta scelto il mezzo, cioè il film, ci troviamo contemporaneamente dinanzi ad altre scelte. Esse riguardano la sensibilità della pellicola ed il formato della pellicola;
  2. lo scorrimento: si tratta dei tipi di scorrimento del supporto nella cinepresa e nel proiettore. Abbiamo a che fare, quindi, con quei codici che regolano la registrazione e la restituzione del movimento: la cadenza, nei primi anni del cinema, era di 18 fot./sec.; si risparmiava sulla pellicola ma si otteneva un movimento innaturale che poi è stato ripristinato dagli odierni 24 fot./sec. Poi la direzione di marcia della pellicola, con possibilità di inversione del movimento;
  3. lo schermo: si tratta di utilizzare lo schermo come superficie riflettente o come superficie trasparente (agli inizi del cinema, anche la seconda ipotesi era stata esplorata con la retroproiezione); poi abbiamo la maggiore o minore luminosità dello schermo ed infine la sua ampiezza (dal formato ridotto delle sale d’essai a quello panoramico largo).

2) codici della serie visiva, l’iconicità (I° gruppo): tali codici caratterizzano tutti i film, ma non solo il cinema; sono cioè codici generali, non specifici e condivisi da altri linguaggi (come la fotografia e la pittura). Vediamoli:

  1. codici del riconoscimento iconico: sono quei codici che consentono, dinanzi ad una entità, di identificarne le varie parti o componenti. Si tratta quindi di fare appello all’esperienza diretta che abbiamo del mondo per identificare con esso la realtà che osserviamo (appunto un’immagine).
  2. codici della trascrizione iconica: sono quei codici che assicurano una corrispondenza fra i tratti semantici (per esempio l’idea di una mano rugosa) e gli artifici grafici per ottenere questa idea (ad esempio un’immagine B/N, con un contorno che mi restituisce le fattezze di una mano ed il chiaro/scuro per simulare la rugosità).
  3. codici della composizione iconica: regolano la costruzione dello spazio visivo; possono essere distinti in codici della figurazione (lavorano sulla disposizione degli elementi sull’immagine) ed in codici della plasticità dell’immagine (riguardanti la capacità di certi elementi di distaccarsi dagli altri e di imporsi sull’immagine, determinando la messa in gioco dei rapporti tra “figura” e “sfondo”. Esistono vari modi per attirare l’attenzione su un elemento dell’immagine – messa in p.p., permanenza, iris ecc.).
  4. codici iconografici: regolano la costruzione di figure complesse ma che sono fortemente convenzionalizzate e dal significato fisso. Ad esempio un personaggio con certe caratteristiche sarà il “poliziotto”, un altro “l’eroe buono” ecc.
  5. codici stilistici: sono quei codici che incontriamo in tutti i film d’autore e che sono la testimonianza della “mano” dell’autore, del suo stile; essi costituiscono la “firma” di quel regista e non di un altro (uso della M.d.P., dell’illuminazione ecc.).

3) codici della serie visiva, la composizione fotografica (II° gruppo): il cinema non solo copia la realtà, ma la riproduce fotograficamente. I codici di cui parleremo adesso regolano l’immagine in quanto frutto di una duplicazione meccanica. Anche questi codici sono generali, comuni a tutti i film con una sola eccezione: i cartoni animati. Vediamoli:

  1. la prospettiva: la cinepresa eredita i codici della prospettiva quattrocentesca, organizzata attorno ad un punto fisso centrale. Le conseguenze sono molte, per esempio gli oggetti riprodotti in un film si presentano nel campo visivo in modo “naturale” nonostante la bidimensionalità dell’immagine cinematografica; inoltre la linea di fuga offre una profondità di campo che, nel caso di movimento della M.d.P., conservano la loro credibilità senza deformazioni.
  2. l’inquadratura, i margini del quadro: riprendere un oggetto significa innanzitutto delimitarlo all’interno dei bordi. Ne deriva il problema del “formato” dell’immagine cinematografica: essa è generalmente rettangolare, con rapporti standard fra altezza e larghezza (1: 1,33 è il formato classico; 1: 1,66 è quello panoramico; 1: 1, 85 il vistavision; 1: 2,55 il cinemascope; 1: 4 il cinerama). Ma riprendere un oggetto significa anche staccarlo dal contesto: nascono una serie di problemi nei rapporti fra spazio “in” e spazio “off ”, rispettivamente quello all’interno del quadro e quello oltre i bordi. E per capire quanto questi rapporti siano regolati, basti pensare alle entrate e alle uscite dei personaggi che non sono mai casuali.
  3. l’inquadratura, i modi della ripresa: filmare un oggetto significa anche decidere da quale punto osservarlo e per quanto tempo. Tra questi codici troviamo la scala dei campi e dei piani, i gradi di angolazione e quelli di inclinazione.
    A) scala dei campi e dei piani: Campo Lunghissimo (C.L.L.) = una visione che abbraccia un intero ambiente in cui personaggi ed azioni si perdono; Campo Lungo (C.L.) = una visione abbastanza ampia in cui personaggi ed azioni sono ben visibili; Campo Medio (C.M.) = l’ambiente è relegato sullo sfondo, mentre l’azione è messa in evidenza; Totale = viene inquadrato tutto lo spazio inquadrabile di un ambiente ricostruito in un teatro di posa; Figura Intera (F.I.) = inquadratura del personaggio dai piedi alla testa; Piano Americano (P.M.) = inquadratura del personaggio dalle ginocchia in su; Mezza Figura (M.F.) = inquadratura del personaggio dalla cintola in su; Primo Piano (P.P.) = inquadratura ravvicinata del personaggio concentrata sul volto con contorno di collo e spalle; Primissimo Piano (P.P.P.) = inquadratura ravvicinata concentrata sugli occhi e sulla bocca; Dettaglio o Particolare = inquadratura ravvicinata di un oggetto (dett.) o di una parte del corpo (part.).
    B) I gradi di angolazione: inquadratura frontale, inquadratura dall’alto ed inquadratura dal basso.
    C) I gradi di inclinazione: inclinazione normale = inquadratura parallela all’orizzonte; inclinazione obliqua = l’orizzonte pende verso destra o verso sinistra; inclinazione verticale = il piano dell’immagine e l’orizzonte inquadrato sono perpendicolari, formando un angolo a 90°.
  4. l’illuminazione: esistono due possibilità, cioè la luce che fa vedere senza farsi vedere e la luce che non si limita ad illuminare le cose e che si mostra in quanto luce. Il primo caso è quello dell’illuminazione “neutra”, che serve ad illuminare ciò che viene inquadrato; il secondo caso è quello dell’illuminazione che mira a risultati fortemente antinaturalistici.
  5. bianco/nero e colore: ultima serie di codici. La scelta fra le due soluzioni non è automatica (prima dell’avvento del colore solo film in B/N e dopo solo film a colori); la scelta può essere di stile, di mezzi, retrò, espressiva. Inoltre le due componenti possono essere miscelate (Assassini Nati di Oliver Stone). L’utilizzo del colore può avere funzioni espressive (rosso = caldo, blu = freddo ecc.), ideologiche, narrative.

4) codici della serie visiva, la mobilità (III gruppo): la caratteristiche peculiare del linguaggio cinematografico è quella di avere a che fare con immagini in movimento; la mobilità – che è presente anche quando nulla si muove sullo schermo – distingue il cinema da tutti i mezzi basati su immagini fisse (fotografia, pittura). In questo caso abbiamo due ordini di codici: quelli messi in moto dal muoversi nell’immagine e quelli attivati dal muoversi dell’immagine. In altre parole, il cinema riproduce il movimento sia registrando ciò che si muove dentro il quadro sia movendo la M.d.P. Si utilizzano due termini per definire questi movimenti: movimenti del profilmico e movimenti di macchina. La grammatica cinematografica tradizionale ha elaborato una serie di movimenti di macchina:

  1. panoramica: la M.d.P. si muove sul proprio asse, ruotando in orizzontale o in verticale o in obliquo;
  2. carrellata: la M.d.P. è montata su carrello dotato di binari per movimenti fluidi in verticale o in orizzontale. Movimenti più complessi si ottengono con la cosiddetta Gru o il dolly (si ottengono dei Traveling);
  3. altri movimenti: macchina a mano, camera-car, steadycam.
  4. Movimenti apparenti: per esempio la carrellata ottica, cioè lo “zoom”. Sono le lenti a muoversi e non la macchina da presa.

5) le tracce grafiche e i loro codici: parliamo di tutti quei tipi di scritte presenti nei film, cioè didascalie, sottotitoli, titoli, scritte.

  1. didascalie: sono le tracce grafiche che servono ad integrare quanto le immagini presentano (nel cinema muto sostituivano i dialoghi), per spiegare il contenuto dell’immagine stessa (una fanciulla dolce ed ingenua) o per passare da un’immagine ad un’altra (un anno dopo);
  2. sottotitoli: sovraimpressi alle immagini, servono a tradurre pellicole in lingua originale;
  3. titoli: presenti in testa ed in coda ai film, contengono informazioni sul cast e sulla produzione;
  4. scritte: tracce grafiche diegetiche che troviamo nella realtà del film sotto forma di scritte sui giornali, sulle insegne, nelle riviste (ma anche scritte non diegetiche, come i ciak lasciati da Godard in alcuni film).

6) codici sonori: passiamo dalla componente visiva a quella sonora. Il suono cinematografico può essere diegetico se la fonte è presente nello spazio della vicenda rappresentata; oppure non diegetico se la sorgente non ha nulla a che vedere con la vicenda rappresentata. Se diegetico, può essere onscreen (presente nell’inquadratura) oppure offscreen (fuori dall’inquadratura); e può essere interiore (la sorgente è nell’animo del personaggio) oppure esteriore (se ha una realtà fisica oggettiva). Tutti i suoni appartenenti alla categoria “non diegetico” ed il suono interiore sono anche detti over.
Riassumendo, distinguiamo tre categorie di suoni: suono in (diegetico esteriore la cui fonte è inquadrata); suono off (diegetico esteriore la cui fonte non è inquadrata) ed il suono over (suono diegetico interiore in ed off, ed il suono non diegetico). Analizziamo ora le tre categorie voci, rumori e suoni musicali:

  1. la voce: è innanzitutto retta dai codici della lingua utilizzata. Applicata al cinema, essa può essere distinta in “voce in” (cioè proveniente da un parlante inquadrato); “voce off” (proveniente da una fonte sonora esclusa momentaneamente dall’immagine); “voce over” (proveniente da una fonte esclusa in modo radicale).
  2. il rumore: anche in questo caso vale la tripartizione suddetta, solo che nel caso dei rumori la situazione è meno complessa per via del fatto che i rumori non sono retti da codici specifici come capita per la lingua parlata;
  3. la musica: il suo intervento in campo o off è assai più raro di quello della voce e dei rumori (è comunque il caso di musicisti in scena, oppure di fonti quali grammofoni, giradischi ecc.). E’ molto frequente, invece, il suo utilizzo “over”: accompagnamento delle scene e via dicendo.

7) codici sintattici: nel cinema, le immagini si sviluppano lungo una continuità, attraverso una durata; i codici sintattici regolano l’associazione di segni e la loro organizzazione in unità sempre più complesse. Essi costruiscono legami, ma anche vuoti ed interruzioni. I codici sintattici operano su due piani: “dentro” le immagini e “fra” le immagini: nel primo caso, aggregano e dispongono gli elementi visivi e sonori all’interno di una stessa immagine; nel secondo caso, agiscono invece per progressione, associando elementi facenti parte di immagini diverse. Se la prima forma rimanda alle regole di “composizione” già osservate, la seconda è invece più interessante perché rimanda alla pratica del montaggio.

  1. Associazione per identità: è un legame che si verifica ogni volta che uno stesso elemento ritorna da immagine ad immagine (fra due immagini che si riferiscono ad uno stesso oggetto);
  2. Associazione per analogia e per contrasto: il legame si verifica fra due immagini che hanno elementi simili ma non identici, oppure elementi contrastanti la cui differenza diviene fonte di correlazione (nel primo caso, per es., due personaggi donna o due personaggi uomo; nel secondo caso, due personaggi donne, una bionda ed una bruna, una buona e l’altra malvagia ecc.);
  3. Associazione per prossimità: il legame si ha quando due immagini presentano elementi contigui (campo/controcampo, montaggio alternato ecc.);
  4. Associazione per transitività: quando una situazione presentata nell’inquadratura A trova il suo prolungamento nell’inquadratura B (A estrarre la pistola, B sparare).

Vi è poi un’altra forma di legame, il semplice accostamento: si tratta della mera giustapposizione di due immagini senza alcun rapporto. Proseguendo il discorso, ci spostiamo su altre modalità di “costruzione del discorso”:

  1. piano-sequenza: ripresa in continuità dove prendono posto tutti i momenti che compongono una sequenza, inclusi in una sola inquadratura (senza stacchi, tagli, manipolazioni). Il ruolo della M.d.P. è proprio quello di tenere insieme tutti questi elementi, col suo movimento o col suo sguardo in profondità.
  2. découpage: consiste nell’associazione di una serie di immagini che si riferiscono tutte ad una stessa situazione; in ogni immagine viene sottolineato un aspetto particolare della situazione. Qui la M.d.P. opera attraverso la segmentazione della situazione in varie unità ed una ricomposizione precisa che ne favorisca la comprensione.
  3. il montage o montaggio-re: lavora sull’associazione di immagini che non hanno un legame diretto fra loro e che lo acquistano per il fatto di essere messe vicine. Sono le tipiche soluzioni dei formalisti russi (buoi al macello accostati agli operai in fabbrica; il generale Karenskij accostato al pavone meccanico). L’enfasi non è posta sulle immagini prese di per sé ma sul significato che esse assumono una volta giustapposte.
I REGIMI DI SCRITTURA

Ogni film è caratterizzato dall’utilizzo congiunto di tutte o molte delle situazioni che abbiamo visto. Molted elle scelte sui mezzi da utilizzare, e sul come utilizzarli, dipendono dalle tre forme principali di scrittura: “classica” (scelte linguistiche perlopiù neutre ed omogenee), “barocca” (scelte omogenee ma decisamente marcate) e “moderna” (un ibrido fra le due precedenti forme).

  1. scrittura classica: tipica del cinema americano di genere degli anni ’30 e ’40 e che, oggi, ritroviamo in molti film-TV. E’ caratterizzata dal grande equilibrio espressivo, dalla funzionalità comunicativa e dalla impercettibilità degli artifici tecnici. Per quanto concerne la scala dei campi e dei piani, abbiamo una prevalenza di Totali e Figure intere; il montaggio si basa sul mostrare prima un totale dell’intero ambiente, poi la frammentazione della situazione in inquadrature e poi di nuovo l’insieme dell’ambiente e dell’azione. In tutte le inquadrature prevalgono immagini centrate, bilanciate, omogeneamente illuminate. Viene attivato lo “sistema dei 180°”: le riprese vengono effettuate sempre dalla stessa parte di un immaginario asse posto fra la M.d.P. ed il set. Si evita così lo scavalcamento di campo (fondamentale nel “découpage classico”).
  2. scrittura barocca: si operano scelte radicali, estreme e soprattutto esclusive. Ne deriva una scrittura basata sull’esplorazione di nuove possibilità estreme, dove tuttavia la diversità delle scelte è tenuta insieme da transizioni e ponti. L’omogeneità è garantita dallo stile e dalla mancanza di salti da una soluzione estrema all’altra. Orson Welles è uno dei maestri dello stile barocco: pensiamo all’accostamento fra la scena fortemente onirica della morte di Kane a quella quasi documentaristica del cinegiornale. La soluzione barocca mette sempre in scena l’estrema marcatura delle soluzioni adottate.
  3. Scrittura moderna: è caratterizzata dalla disomogeneità e dall’eterogeneità delle scelte e dello stile. Qui troviamo soluzioni neutre e soluzioni marcate, omogenee o estreme; ogni elemento viene mescolato senza alcuna prevedibilità. Allora avremo salti bruschi che evidenzieranno la volontà di rendere esplicita la mediazione linguistica (cioè gli artifici del cinema).

E’ bene precisare che questa breve analisi dei regimi di scrittura va presa per quella che è; soprattutto, essa non indica uno sviluppo cronologico, in quanto il cinema non è stato prima classico, poi barocco ed infine moderno.

CAP.4

L’ANALISI DELLA RAPPRESENTAZIONE

Dinanzi ad un’immagine filmica abbiamo la sensazione che entrino in gioco tre piani di funzionamento:

  1. La messa in scena: si tratta del momento in cui si allestisce l’universo raffigurato nel film. L’analisi riguarda allora il contenuto dell’immagine, cioè oggetti, persone, paesaggi, gesti, parole ecc. In ogni film, si trovano contemporaneamente presenti una gran quantità di dati; cerchiamo di definirli:
  2. informanti: elementi che identificano quanto viene messo in scena. Ad esempio l’età, la costituzione fisica e la psicologia d’un personaggio; la qualità, il genere e la forma dell’azione ecc.
  3. indizi: rimandano a qualcosa che rimane in parte implicito. Il lato nascosto di un carattere, il senso di un’atmosfera, il presupposto di un’azione. Si tratta di dati, rispetto agli “informanti”, meno facili da identificare ma allo stesso tempo importantissimi per la comprensione globale del testo filmico.
  4. temi: servono a definire il nucleo principale della vicenda. Indicano il contenuto attorno al quale il testo si organizza.
  5. motivi: sono le unità di contenuto che ritornano durante il testo, quindi situazioni emblematiche ripetute, sottolineature, leit-motiv ecc.
  6. La messa in quadro: Esiste una stretta interazione fra quanto dà corpo all’universo rappresentato nel film ed il modo in cui esso viene presentato sullo schermo. Certo è che, alcuni elementi, possono condurre a certe modalità di ripresa: di solito, ad esempio, i personaggi principali godono di un maggior numero di inquadrature ravvicinate; gli oggetti chiave sono posti al centro dell’immagine e così via. Ma scegliere un Campo Lungo o un primo piano, un’inquadratura frontale o dall’alto, un tele obiettivo o un grandangolo significa innanzitutto fare una scelta espressiva piuttosto che un’altra. Facciamo un esempio: se inquadro un personaggio in P.P. con una focale lunga (tele obiettivo), ottengo un viso ben a fuoco staccato dal contesto circostante; se inquadro con una focale corta, ottengo tutto lo spazio a fuoco. Nel primo caso, ho una faccia isolata dal contesto; nel secondo caso ho la stessa faccia calata nel contesto.
    Insomma, la messa in quadro definisce il tipo di sguardo che viene gettato sull’universo rappresentato. Dunque l’analisi sarà rivolta alle modalità di messa in quadro e alle scelte espressive (perché questo P.P. invece di un Campo Medio).
  7. La messa in serie: Se a livello della messa in scena e della messa in quadro si lavora essenzialmente sulla singola immagine, a livello di “messa in serie” si devono considerare più immagini messe insieme. Mettere in serie significa sostanzialmente unire due pezzi di pellicola, quindi “montare”: tuttavia, dobbiamo ricordarci che, nel momento stesso in cui due inquadrature vengono giustapposte, il loro significato cambia. Abbiamo diversi tipi di associazione:
  8. associazione per identità: un’immagine è legata ad un’altra perché è la stessa immagine che ritorna o perché presenta uno stesso elemento che viene ripetuto;
  9. associazione per prossimità: due immagini sono associate presentando diversi elementi di un\'unica situazione;
  10. associazione per transitività: due immagini sono legate perché la seconda è la continuazione della prima.

Queste possibilità sono tipiche del cinema classico hollywoodiano: ogni frammento del mondo rappresentato si     integra con quello successivo.

  1. associazione per analogia o contrasto: immagini associate perché simili ma non identiche oppure opposte. Il film procede in modo movimentato, descrivendo un universo eterogeneo, articolato.
  2. associazione neutralizzata: le immagini sono legate dal solo fatto di essere messe in serie. Quindi l’universo rappresentato è estremamente frammentato, disconnesso, caotico.

       Queste due ultime soluzioni si incontrano nel cinema moderno.
LO SPAZIO-TEMPO
Come tutti i mondi, anche quello sullo schermo è dominato da uno spazio e da un tempo. Vediamo allora di analizzare lo spazio cinematografico ed il tempo cinematografico.
1) spazio cinematografico: abbiamo innanzitutto tre assi dello spazio, attorno ai quali organizzare lo spazio filmico:
 

    1. il primo asse riguarda l’essere presente all’interno dei bordi dell’inquadratura o esserne tagliato fuori (opposizione in/off);
    2. il secondo mette in gioco l’essere immobile o in movimento (opposizione statico/dinamico);
    3. il terzo mette in gioco l’essere connesso o disconnesso (opposizione organico/disorganico).

OPPOSIZIONE IN/OFF: CAMPO E FUORI CAMPO
E’ ovvio che inquadrare significhi “selezionare” una porzione di spazio che include alcuni elementi a discapito di altri. Ma ciò che resta fuori dall’inquadratura, a seconda dei casi, può avere diversi ruoli. In pratica, la dimensione “off ” deve tenere presente la sua collocazione e la sua determinabilità.

  1. Collocazione: la M.d.P., inquadrando una porzione di spazio, ne nasconde allo stesso tempo altre 6 (4 corrispondenti ai lati e 2 riguardanti ciò che si trova dietro gli elementi inquadrati e dietro la macchina da presa stessa). Quindi, ad un “campo (in)” sono legati “6 fuori campo (off)”.
  2. Determinabilità: dobbiamo distinguere 3 condizioni tipiche dello spazio off.
  3. spazio non percepito: cioè lo spazio fuori dai bordi del quadro che non viene mai evocato;
  4. spazio immaginabile: lo spazio che, pur stando al di là del quadro, ha una relazione con ciò che è inquadrato e quindi viene chiamato in causa (per es. le gambe di un personaggio inquadrato in Mezza Figura o in P.P.);
  5. spazio definito: quello spazio che, invisibile in un dato momento, il film mi ha già mostrato in precedenza o me lo mostrerà in seguito.

Il Fuori Campo riguarda anche il mondo del suono. Nel suono “off “ ed “over”, noi non è che non sentiamo nulla, semplicemente non vediamo la fonte sonora. L’occhio, quindi, non arriva laddove invece l’orecchio giunge. Di fatto, l’inquadratura seleziona solamente gli elementi da mostrare, senza riuscire a circoscrivere quelli sonori.
OPPOSIZIONE STATICO/DINAMICO: LO SPAZIO E IL MOVIMENTO
Quando qualcosa all’interno dell’inquadratura smette di essere statica ed inizia a muoversi, lo spazio cessa di essere immobile e diviene “plastico”. Sullo schermo abbiamo un universo in continuo movimento, e sono 4 le situazioni possibili:
 

    1. Lo spazio statico fisso: soluzione estrema data dal fermo-fotogramma; l’immagine è come un quadro o una fotografia;
    2. Lo spazio statico mobile: la M.d.P. è statica e fissa, mentre vi è movimento del profilmico (un personaggio che entra ed esce); si tratta dello spazio del cinema delle origini.
    3. Lo spazio dinamico descrittivo: è dato dal movimento della M.d.P. in relazione ai movimenti del profilmico;
    4. Lo spazio dinamico espressivo: non si limita a descrivere. La M.d.P. si muove in funzione espressiva in relazione al movimento del profilmico (in altre parole è la M.d.P. a decidere cosa si deve vedere e come lo si deve vedere).

2) tempo cinematografico: in un racconto noi possiamo distinguere due diversi tempi, quello della storia (tempo diegetico) e quello del racconto (tempo filmico). Ci sono 3 tipi di rapporti fra il tempo della storia ed il tempo del discorso: l’ordine, la durata e la frequenza.

L’ORDINE
Non è certo un’esperienza anomala assistere ad un film in cui l’ordine degli eventi è diverso da quello della storia. Ciò può essere determinato dal montaggio (come in Rapina a mano armata) e grazie ai cosiddetti flashback (salto indietro negli eventi) e flashforward (salto in avanti). Tuttavia il racconto cinematografico non è fatto di sole immagini, ma anche di suoni e voci; con i termini “flashback e flashforward” noi ci riferiamo alla rappresentazione audiovisiva di un evento futuro o passato, ma è una terminologia imprecisa. Infatti gli eventi passati o futuri, in un film, possono essere narrati anche dalla sola voce fuori o da un narratore diegetico. Quindi, se flashback e flashforward sono legati alla presenza delle immagini, è bene utilizzare i termini più ampi e letterari di analessi (evocazione a posteriori di un evento) e prolessi (evocazione in anticipo di un evento futuro). Ne deriva che flashback e flashforward sono particolari tipi di analessi e prolessi (che a loro volta si dividono in interne al racconto, esterne al racconto oppure miste, cioè che abbracciano solo una parte del racconto).
Già i formalisti russi avevano distinto il tempo della storia dal tempo del racconto, proponendo l’utilizzo di due termini ancora oggi molto diffusi: fabula (ordine cronologico degli eventi) ed intreccio (ordine degli eventi secondo il racconto). Così le possibilità offerte dall’intreccio permettono di trovare numerose soluzioni diverse alla semplice narrazione in ordine cronologico di una storia (I film di Quentin Tarantino).
LA DURATA
La durata di un film, a differenza di un romanzo, non dipende dalla soggettività del lettore. Un film che dura 2 ore, dura 2 ore per tutti, Così come esiste un ordine della storia ed un ordine del racconto, esiste anche una durata della storia ed una del racconto. Per ogni film, la durata del racconto è uguale alla durata del film stesso; la durata della storia, invece, può abbracciare tempi molto vasti (si pensi a 2001 Odissea nello spazio). Esistono 5 tipi di rapporti fra la durata del racconto e la durata della storia:

  1. pausa: non succede niente, avviene una pausa negli avvenimenti. Questa pausa può essere data dal campo vuoto (privo di elementi diegetici significativi) o dal fermo fotogramma.
  2. estensione: il tempo del racconto è superiore al tempo della storia. Un esempio può essere dato dal rallenty, che dilata i tempi di un’azione o di un evento mostrandoci particolari altrimenti impercettibili. Oppure l’introduzione di immagini simboliche, che non appartengono alla dieresi del film (per esempio Ottobre di Ejzenstejn). Oppure la ripetizione di un evento che, nella storia, accade una sola volta (come in Jackie Brown).
  3. scena: il tempo del racconto è uguale a quello della storia. Nel cinema è molto comune, per esempio a livello di ogni inquadratura (come nei film di Lumière). Ma anche giustapponendo più inquadrature di una stessa scena, senza salti temporali.
  4. sommario: il tempo del racconto è minore del tempo della storia. Viene utilizzato nel cinema per eliminare tempi morti o per velocizzare la narrazione: Ad esempio, un pasto può essere mostrato nella sua integrità oppure nei suoi momenti salienti; le lancette di un orologio possono essere fatte scorrere velocemente ecc.
  5. ellissi: ad una determinata durata del tempo della storia non corrisponde nessuna durata del tempo del racconto. Le ellissi operano una vera e propria soppressione temporale tra due azioni, due eventi, due scene o due sequenze. L’ellissi elimina i tempi morti, accentua i ritmi della narrazione, favorisce gli eventi importanti a discapito di quelli inutili (Quarto Potere utilizza grossi salti temporali).

LA FREQUENZA
La frequenza riguarda il rapporto che si stabilisce fra il numero di volte che un evento viene mostrato dal racconto ed il numero di volte che si presume esso sia accaduto nella storia. Un film, per esempio, può mostrare:

  1. una sola volta ciò che è avvenuto una sola volta (racconto singolativo)
  2. tot volte ciò che è avvenuto tot volte (variante plurale del precedente);
  3. tot volte ciò che è avvenuto una volta (racconto ripetitivo);
  4. una volta ciò che è avvenuto tot volte (racconto iterativo).

Il racconto singolativo è quello più ricorrente nel cinema; più raro è il caso del racconto ripetitivo, che spesso si riferisce ad un solo gesto o ad un solo evento; decisamente più complesso è il racconto iterativo: è facile dire a parole “tutti i giorni mi alzo alle 7”, molto più difficile è mostralo con le immagini.

REGIMI E PRATICHE DELLA RAPPRESENTAZIONE
Il cinema può scegliere se mostrare un “mondo possibile” analogo a quello reale, oppure negare ogni tipo di analogia (con relative posizioni intermedie). A ben vedere, le possibili soluzioni di questo rapporto sono 3:

  1. analogia assoluta: si opera a ridosso della realtà, limitando al massimo le manipolazioni e gli artifici tecnici;
  2. analogia negata: si opera in distanza rispetto alla realtà, evitando legami con essa;
  3. analogia costruita: si situa a metà fra i due poli precedenti. Infatti, se agisce a distanza dalla realtà lo fa solo per ritornarvi nuovamente. La manipolazione degli elementi mira comunque alla ricostruzione del “senso di realtà”, dando luogo ad una realtà nuova e meno prolissa.

I regimi visti attraversano tutti i livelli della rappresentazione (messa in scena, messa in quadro e messa in serie). A questi regimi della rappresentazione sono connessi tre tipi di “montaggio”:

  1. all’analogia assoluta è connesso il piano-sequenza: il piano sequenza teorizzato da Bazin si distingue in masse in scena in profondità ed in piano sequenza mobile. Nel primo caso, la M.d.P. è ferma ma la focale corta le permette di tenere a fuoco una vasta porzione di campo (alterando le proporzioni); così gli attori possono agire in continuità senza bisogno di frammentare la scena in diverse inquadrature. Nel secondo caso, invece, avremo una ripresa in continuità che coniuga i movimenti di macchina alla profondità di campo. In questo caso, la M.d.P. partecipa alla selezione di ciò che viene mostrato.
  2. all’analogia negata è connesso il montaggio-re: vi è un rifiuto a priori del legame con la realtà. Il montaggio-re è alla base dell’estetica cinematografica, e vuole rompere la cosiddetta “trasparenza” del montaggio cinematografico (quello che Bazin chiamava “montaggio nascosto” o “decoupage classico”). Il montaggio-re è amato dalle avanguardie, dai sovietici degli anni ’20 alla Nouvelle Vague, perché rende opaca la scrittura, evidenzia gli artifici, la libertà del linguaggio, la rottura degli schemi. In Fino all’ultimo respiro, Godard utilizza l’estremo “jump cut”, cioè un falso raccordo: la porzione di spazio inquadrato cambia troppo poco per essere percepito come cambio di inquadratura, ma interviene abbastanza esplicitamente ad infastidire o a scuotere la percezione.
  3. All’analogia costruita è connesso il decoupage: pur selezionando la realtà ed organizzandola in successione, il decoupage mira a ricostruirla in modo nuovo per ottenere comunque il senso di realtà. E’ la tecnica di base del montaggio cinematografico in voga ad Hollywood dagli anni ’25 agli anni ’55.

CAP.5

L’ANALISI DELLA NARRAZIONE

Abbiamo detto che la storia riguarda “che cosa viene narrato” mentre il racconto costituisce il “come viene narrato”. A monte della nozione dir acconto vi è quella di narratività, che è l’insieme di norme ed elementi la cui presenza in un testo - al di là del mezzo espressivo - ci permettono di riconoscerlo come racconto. Lo schema più semplice per riconoscere un testo come racconto è il seguente:

Equilibrio – Squilibrio – Riequilibrio

Inizialmente, in una storia, si ha una situazione di equilibrio; a seguito di una serie di eventi, questo equilibrio viene sconvolto e si ha una nuova situazione. Alla fine della storia, sempre a seguito di nuovi eventi, si ritorna ad un nuovo equilibrio. Inoltre, nascosta in ogni racconto, vi è una struttura che rimane sempre la stessa per ogni storia; ed ogni storia riutilizza questa struttura di base cambiando azioni, luoghi, personaggi ecc.

Destinatore                                                                                Destinatario
                                   oggetto Eroe --- oggetto Valore
Adiuvante                                                                                 Opponente

Un “destinatore” assegnerà il compito ad un “soggetto eroe”di recuperare un “oggetto valore” di cui un “destinatario” dovrà beneficiare. Sulla propria strada l’eroe troverà sia un “adiuvante” che un “opponente”.
Quindi: una donna (Destinatore/Destinatario) incarica un detective (soggetto Eroe) di liberare il marito preso in ostaggio (oggetto Valore), Il detective sarà aiutato dalla polizia (Adiuvante) ma dovrà vedersela con i malavitosi (Opponente).
IL RACCONTO CINEMATOGRAFICO
In un racconto letterario qualsiasi vi è un Narratore (Istanza astratta) che ci dà delle informazioni sulla vicenda, sui personaggi, sulle azioni; allo stesso modo, una rappresentazione teatrale fa rivivere in diretta, qui ed ora, delle vicende che si presuppone siano avvenute, prima e altrove, ai personaggi interpretati dagli attori. Talie sempi sono di “narrazione” e “mostrazione”: il cinema, invece, si avvale di un elemento che lo pone a metà fra i due poli narrare e mostrare. Infatti, la presenza della M.d.P. genera di volta in volta tutta una serie di “mediazioni”. Infatti essa influenza ed interviene sulla percezione dello spettatore (cambi di inquadratura, tipo di messa in quadro, riprese da diverse angolazioni ecc.). Attraverso la M.d.P. è al lavoro un’altra Istanza oltre gli attori; un’istanza invisibile ma altrettanto importante.
Tale istanza ci mostra le cose e ce le mostra in un certo modo; in più ci fa anche sentire: musiche, suoni, rumori:

Istanza Narrante
(o Enunciatore)
|
Narrare
|
 mostrare     ---------    far sentire

Visto che l’Istanza Narrante è ciò che organizza tutto, vediamo come essa organizza la focalizzazione. Per focalizzazione si intende il modo in cui vengono organizzati i rapporti di sapere fra Istanza Narrante, Spettatore e Personaggio. Avremo così alcune possibilità:

  1. racconto non focalizzato (focalizzazione zero): il narratore dice di più di quanto sanno i personaggi;
  2. racconto a focalizzazione interna: il narratore assume il punto di vista di un personaggio, dicendo solamente quello che egli sa;
  3. racconto a focalizzazione esterna: il narratore non fa conoscere il pensiero del personaggio, ne dice meno di quanto questi sappia.
  4. Focalizzazione spettatoriale: è il regime della suspense hitchcockiana. Dare allo spettatore un sapere maggiore del personaggio ed annullare l’istanza narrante. Si può avere questa focalizzazione spettatoriale sia sul piano di una sola inquadratura, sia attraverso il montaggio (per esempio la differenza fra suspense e sorpresa proposta da Alfred Hitchcock).