LCentanni di solitudine Gabriel García Márquez'autore di "Cent'anni di solitudine" (romanzo del 1967 del Premio Nobel colombiano Gabriel García Márquez) esemplifica le sue idee. In modo un po' semplice, un po' misterioso. Usando la forma della parabola, come un narratore di grande successo venuto prima di lui, e i cui libri si stampano ancor oggi, e finiscono persino nei comodini degli alberghi. SI chiamava Gesù. Per il resto, mi sembra un resoconto molto un resoconto molto personale, ma anche molto autoreferenziale. Marquez parla di sé, dei suoi racconti, dei suoi romanzi. A voi trovarne una chiave di lettura personale, e soprattutto una utilità per voi.

SCRIVERE un romanzo è come cementare mattoni. Scrivere un racconto è lavorare per sottrarre. Non so di chi sia questa frase, che è vera. L'ho sentita e ripetuta da così tanto tempo senza che nessuno la rivendichi, che forse finirò per crederla mia. C'è un altro paragone che è un parente povero di quello precedente: il racconto è una freccia nel centro del bersaglio e il romanzo è andare a caccia di conigli.

Comunque questa è una buona occasione per dare un'ennesima panoramica delle differenze tra due generi letterari diversi e, tuttavia, confondibili. Un motivo può essere il malinteso secondo cui si attribuiscono le differenze alla lunghezza del testo, arrivando fino a distinguere fra racconto breve e racconto lungo. La differenza è valida fra un racconto e l'altro, ma non fra racconto e romanzo.
Il racconto più breve che conosco è del guatemalteco Augusto Monterroso, recente premio Ortega y Gasset. Dice così: "Quando si svegliò, il dinosauro era ancora lì". Tutto qui.

Ce n’è un altro da Le mille e una notte, il cui testo non ho a portata di mano, e che mi causa spasimi d’invidia. E’ il racconto di un pescatore che chiede in prestito un piombo per la sua rete alla moglie di un altro pescatore, con la promessa di regalarle in cambio il primo pesce che prenderà, e quando lei lo riceve e lo apre per friggerlo gli trova nello stomaco un diamante grosso come una nocciola.

Più che per la sua incredibile semplicità, adesso il racconto mi interessa perché racchiude un altro dei misteri del genere. Se a prestare il piombo non fosse una donna ma un altro uomo, il testo perderebbe la sua bellezza: non esisterebbe. Perché? Chi lo sa! Ecco un altro mistero di un genere misterioso per eccellenza.

Le "Novelle esemplari" di Cervantes sono davvero esemplari, ma alcune non sono novelle. Invece, Joseph Conrad scrisse "I duellanti", un racconto di oltre centoventi pagine, che viene spesso confuso con un romanzo per via della sua lunghezza. Il regista Ridley Scott l’ha trasformato in un film eccellente senza alterare la sua natura di racconto. A questo punto, sarebbe stupido domandarsi se a Conrad sarebbe importato di questa confusione.

L’intensità e l’unità interna sono essenziali in un racconto, ma non lo sono altrettanto nel romanzo, che per fortuna possiede altre risorse per rivelarsi convincente. Proprio per questo, allorché si finisce di leggere un racconto, si può immaginare quanto accaduto prima e dopo, e tutto questo continuerà a far parte della materia e della magia di quanto letto. Il romanzo, invece, deve avere tutto dentro di sé. Si potrebbe dire, senza gettare la spugna, che, in ultima istanza, la differenza potrebbe essere soggettiva come tante bellezze della vita reale.

Buoni esempi di racconti compatti e intensi sono due gioielli del genere: La zampa di scimmia di W. W. Jacobs e L’uomo per strada di Georges Simenon. Il racconto poliziesco, nel suo mondo a parte, sopravvive senza essere messo in discussione, perché la maggior parte dei suoi lettori si interessa più alla trama che al mistero. Tranne il caso dell’antichissimo e mai superato Edipo re di Sofocle, una tragedia greca che possiede l’unità di un racconto, in cui il detective scopre che lui stesso è l’assassino di suo padre.

Il racconto sembra sia il genere naturale dell’umanità, per la sua partecipazione spontanea alla vita quotidiana. Forse l’ha inventato senza saperlo il primo uomo delle caverne uscito a caccia un pomeriggio e non tornato fino al giorno successivo, adducendo la scusa di essersi impegnato in un combattimento mortale con una fiera resa folle dalla fame. Invece, quanto fece sua moglie allorché si rese conto che l’eroismo del marito era solo una bella frottola, può essere stato il primo e forse il più lungo romanzo dell’età della pietra.

Non so cosa dire in merito all’ipotesi secondo cui il racconto sarebbe un momento di svago fra due romanzi, ma potrebbe essere un’argomentazione teorica che nulla ha a che vedere con le mie esperienze di scrittore. Muovendomi a tentoni nel buio, oso pensare che non sono pochi gli scrittori che hanno tentato i due generi al contempo e non di rado con la stessa fortuna in entrambi. E’ il caso di William Somerset Maugham, le cui opere — come quelle di Hermingway — sono più note grazie al cinema. Fra i suoi numerosi racconti non si può dimenticare P & O — sigla della compagnia di navigazione Pacific and Orient — che è il dramma terribile e patetico di un ricco colono inglese che muore per un implacabile singhiozzo in mezzo all’Oceano Indiano.

Ernest Hemingway è un caso simile. Conosciutissimo per il cinema come per i suoi libri, potrebbe rimanere nella storia della letteratura solo per alcuni racconti magistrali. Osservando la sua vita, viene da pensare che la sua vocazione e il suo talento autentici si siano materializzati nel racconto breve. I migliori, a mio avviso, non sono i più stimati né i più lunghi. Al contrario, due di questi sono fra i più brevi — Un canarino in regalo e Un gatto sotto la pioggia — e il terzo, lungo e consacratorio, La breve vita felice di Francis Macomber.

Sull’altra ipotesi, secondo cui il racconto può essere un esercizio pratico per un romanzo, confesso che l’ho fatto e non mi è andata male, come nel caso di L’autunno del patriarca. Avevo la mente bloccata sulla formula tradizionale di Cent’anni di solitudine, cui avevo lavorato senza interruzioni per due anni. Tutto quello che cercavo di scrivere mi veniva uguale e non riuscivo a trovare la forma per un libro diverso. Tuttavia, il mondo del dittatore eterno, risolto e scritto nello stile giudizioso dei libri precedenti, si sarebbe tradotto in non meno di duemila pagine di sproloqui indigesti e inutili. Sicché decisi di cercare a qualsiasi costo una prosa compressa che mi togliesse dalla trappola accademica per coinvolgere il lettore in un’avventura.

Credetti di aver trovato la soluzione grazie a una serie di appunti e di idee di racconti non ancora portati a termine, che sottoposi senza il minimo pudore a ogni tipo di arbitrarietà formali, finché non ebbi trovato quella che cercavo per il nuovo libro. Sono racconti sperimentali su cui lavorai più di un anno e che vennero poi pubblicati nel libro La candida Eréndira: Blacamn il buono, venditore di miracoli, L’ultimo viaggio della nave fantasma, che è una sola frase senz’altra punteggiatura che le minime virgole per respirare, e altri che non superarono l’esame e dormono il sonno dei giusti nel bidone della spazzatura. Così individuai l’embrione di L’autunno del patriarca, che è un’insalata russa di esperimenti copiati da altri scrittori buoni o cattivi del secolo scorso. Frasi che avrebbero preteso decine di pagine sono risolte in due o tre per dire la stessa cosa, saltando nessi, violando consapevolmente i codici parsimoniosi e della grammatica dittatoriale degli accademici.

Il libro, all’uscita, fu un fallimento commerciale. Molti lettori fedeli di Cent’anni di solitudine si sentirono defraudati e pretendevano che il libraio restituisse loro il denaro. Come se non fosse bastato, l’edizione spagnola si desbarataba fra le mani a causa di un difetto di fabbrica, e un amico mi consolò con una buona battuta: «Ho letto l’autunno foglia per foglia». Molti persistettero nella lettura, altri arrivarono a metà e, col tempo, ce ne furono abbastanza che si appassionarono così incoraggiandomi a scrivere ancora. Oggi è il mio libro più analizzato nelle università di diversi paesi, e le nuove generazioni possono leggerlo come se fosse il crepuscolo di un Tarzan di duecento anni. Se qualcuno protesta e lo butta via, è perché non gli piace e non perché non lo capisce. E certe volte, per fortuna, non è mancato chi lo raccogliesse da terra.

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