Nella precedente lezione abbiamo visto il protagonista presentato dal “coro”. Qui esamineremo il modello opposto. Il protagonista appare per primo ed è lui a condurci alla scoperta degli altri personaggi. Questo genere di approccio non esclude affatto la rappresentazione dell’ambiente sociale, ma attribuisce all’individuo e alla sua psicologia un ruolo da subito più autonomo e centrale. Non è attraverso l’ambiente sociale che comprendiamo e giudichiamo l’individuo, ma è attraverso un individuo esemplare che comprendiamo e giudichiamo la società.
Porre al centro del racconto una biografia, in cinema, non significa necessariamente raccontare l’intera vita di un personaggio (come in Citizen Kane). Può bastare la narrazione di un momento del tutto particolare della vita del protagonista, un momento unico che tuttavia ce ne illumina i tratti psicologici fondamentali. Non ci interessa, in questo caso, sapere quali siano state le esperienze infantili del personaggio, né come egli sviluppi e concluda la propria esistenza. La morte del protagonista può anche essere raccontata, se necessaria al disegno compiuto della sua personalità, ma le conclusioni possono essere molte e diverse: aperte verso nuovi e possibili sviluppi, chiuse come un cerchio che torna su se stesso riaffermando una sorta di permanente “stato dell’anima” di cui il personaggio è e resta prigioniero, oppure chiuse in quanto destinate a non ripetersi perché “superate”. Lo stesso vale per la nascita o l’infanzia . Si possono raccontare se sono fondamentali per comprendere la genesi del carattere del protagonista, le contraddizioni della sua attuale condizione sociale e psicologica, ma possono anche venire considerate per “date” e implicite, soprattutto se il ritratto psicologico del protagonista non è di tipo psicoanalitico classico, ma comportamentale. Sta all’autore, insomma, scegliere il percorso. Qui ci limiteremo ad esaminare come si presenta il protagonista da subito e “in azione” e come si possa, a partire da lui, incontrare il suo ambiente e gli altri personaggi. Presenterò due esempi tratti da Il Laureato (The Guaduate, 1967) di Mike Nichols, con Dustin Hoffman, e da Io la conoscevo bene (1965) di Antonio Pietrangeli , con Stefania Sandrelli.

2. A partire dal protagonista.

A) Il Laureato (The Guaduate, 1967) di Mike Nichols, con Dustin Hoffman. Sceneggiatura di Calder Willingham e Buck Henry , tratta dal romanzo di Charles Webb.

I dati di partenza su cui si trovano a lavorare gli sceneggiatori sono questi: Benjamin Braddock ha appena concluso i suoi studi in un college dell’Est e torna all’ovest ( a Los Angeles). Il suo periodo di formazione è concluso. Si trova a dover decidere cosa fare della sua vita. E’ confuso, smarrito.

1. Il film inizia da un primo piano di Ben in aereo. Le prime informazioni ce le da l’altoparlante di bordo. Signore e signori, stiamo iniziando il nostro atterraggio su Los Angeles (…) dopo quattro ore e mezzo di volo. L’informazione è voce di fondo. La macchina da presa (MDP) resta concentrata sul volto di Ben, sguardo nel vuoto, un’espressione insieme tesa e assente, che il giovane protagonista mantiene anche dopo l’atterraggio, quando lo vediamo (sui titoli di testa) camminare da fermo, trasportato dal tapis roulant dell’aeroporto, come un sonnambulo.

2. Ritroviamo , sempre in PP, il protagonista a casa, in camera sua, con lo stesso sguardo nel vuoto e un acquario alle spalle. Suo padre lo raggiunge, ma la MDP resta su Ben. Il padre lo vediamo entrare in campo, ma non gli sottrae neppure per un secondo l’attenzione del pubblico.

Padre: Ehi, ma che fai? Gli ospiti sono tutti giù, Ben. Sono impazienti di vederti.
Ben: Senti, puoi dire che ho bisogno di restare solo, per un po’.
Padre: Ma sono tutti i nostri amici più cari. Non ti hanno più visto da quando sei nato. Cosa c’è, Ben?
Ben: Sono un po’…
Padre: Preoccupato?
Ben: Beh…
Padre: Per che cosa?
Ben: Forse per il mio avvenire.
Padre: In che senso?
Ben: Non lo so. Io vorrei che fosse…
Padre: Che fosse come?
Ben: Diverso.

Entra la madre di cui udiamo la voce fuori campo e che sollecita il figlio a scendere e a mostrarsi agli amici di famiglia.

3. Ben è sceso in salotto. La MDP continua a non staccare mai da lui e dal suo volto. Gli altri personaggi che gli si affollano intorno sono apparizioni fugaci che lo salutano o ne commentano il passaggio con chiacchiere di circostanza. Apprendiamo da queste chiacchiere che Ben ha superato l’età dei primi amoretti (cioè che presto dovrà farsi una famiglia) che per la laurea gli è stata regalata un’Alfa Romeo (il che rimarca anche il benessere della sua famiglia), che ha vinto un premio accademico, e altre informazioni che hanno la stessa impersonale distanza delle comunicazioni dell’altoparlante all’aeroporto: è stato capitano della squadra di corsa campestre, capo del circolo dei dibattiti, condirettore e poi direttore del giornale del college. In sostanza, un ottimo studente, che riceve l’approvazione piena del suo ambiente sociale, riunito a festeggiarlo. Ma lui, per quanto cortesemente, sfugge. Un amico di famiglia lo prende da parte e gli dà un consiglio per il suo avvenire, che suona come un ammonimento: Voglio dirti una parola sola, solo una parola. Mi ascolti? Plastica! L’avvenire del mondo è nella plastica. Tra le tante presenze, ne notiamo bene soltanto una. Una signora elegante che siede in disparte, a bere e fumare , e tiene d’occhio Ben, consapevole del suo disagio (la signora Robinson). Ben si rifugia di nuovo in camera sua, ad osservare l’acquario. La porta si apre e la signora Robinson fa il suo ingresso, sicura di sé, invadente, ma come lui estranea e diversa rispetto all’ambiente convenzionale del salotto.

Da notare.

1. La prima immagine del protagonista è in aereo, sguardo nel vuoto. Ma quell’espressione non è occasionale, frutto del jet lag o dell’ansia dell’atterraggio. E’ lo stato d’animo che, senza bisogno di parole, già ci testimonia la condizione del protagonista. Si potrà osservare che questo genere di scelta ( seguire il protagonista fin dal principio in PP, concentrando su di lui e sul suo volto tutta l’attenzione del pubblico) attiene alla regia, non al lavoro dello sceneggiatore, ma in questo caso non è affatto così. Questa stessa espressione assente tornerà diverse volte nel corso del film e affiorerà di nuovo nel finale. E’ il marchio distintivo, non solo dello stato d’animo, ma del carattere del protagonista. E’ insomma una scelta narrativa.

2. Per maggiore chiarezza, quanto ci era stato espresso in modo puramente visivo, viene poi chiarito nel dialogo con il padre. Il protagonista, sollecitato, spiega di sentirsi confuso, e in sostanza “diverso”. Non è soltanto il contenuto del discorso a illuminarci sullo stato confusionale del protagonista, ma anche la forma smozzicata, incerta, delle sue risposte al padre. Però da tanta incertezza, nasce una risposta chiara, una dichiarazione esplicita. In una sola parola: diverso.

3. Le voci del “coro” , a contrasto, oltre a offrirci nuove informazioni sul protagonista, ne danno un giudizio positivo, carico di soddisfazione e di attese, ma l’imbarazzo di Ben conferma, nei fatti, il suo senso di estraneità rispetto all’ambiente. Da cosa è diverso? Dalla plastica (anche qui: una sola parola, a compendiare le attese conformiste che gli altri ripongono in lui). Il nostro protagonista non vuole fare il protagonista, rifiuta il suo ruolo. Eppure la MDP continua a seguire lui. Il protagonismo di Ben sta nella sua riluttanza ad assumere il ruolo assegnatogli socialmente. Nel suo atteggiamento, si riconferma diverso. La lunga sequenza si chiude circolarmente, riportandolo nella sua stanza di fronte all’acquario. E dall’irruzione della signora Robinson, nasce la prima e decisiva svolta del racconto.

Commento - Nel ritratto cinematografico del protagonista, i fatti, i comportamenti, le azioni o le non-azioni (ciò che si vede) precedono le spiegazioni verbali, e poi le seguono, per correggerle o rafforzarle. Il racconto cinematografico mostra prima di spiegare a parole. E’ racconto per immagini. Non dimenticate mai che il cinema nasce muto. Non è la parola , il linguaggio verbale a occupare (come alla radio, o come ancor più in letteratura) il centro della comunicazione, ma quello che si vede e che decidiamo di far vedere. Quando dunque volete presentare da subito, fin dalla prima inquadratura, il protagonista, ricordate di metterlo in una situazione/condizione che ci faccia da subito (senza bisogno di parole) capire non solo chi è fisicamente, ma come si sente, e qual è il segno distintivo del suo carattere. Questa situazione dev’essere chiara ed esemplare. Una metafora, se volete (l’aereo che sta atterrando, lo stordimento del “ritorno a casa”) ma mostrata concretamente. Figuratevi la scena mentalmente, proiettatevela. Non pensate che questo sia il lavoro del regista. Il regista potrà scegliere una diversa messa in scena, ma è bene che pur senza scendere in dettagli di movimenti di macchina e in minuzie stilistiche, lo sceneggiatore non perda comunque mai il focus del racconto: ciò che ne deve occupare, visivamente, il centro.
Per differenza. Quanti film iniziano con una panoramica della città in cui si svolge la vicenda? Con un aereo che atterra, prima di vedere in azione il protagonista? Questa sorta di inquadratura di codice, che ci informa sul luogo in cui si svolge la vicenda, o ci offre un puro prologo visivo su cui magari appoggiare i titoli di testa, non è di alcun rilievo in una storia psicologica che intende concentrarsi sul vissuto del protagonista e porre lui al centro della vicenda. Possiamo informare il pubblico circa il “dove” in altro modo, non mostrando il luogo, ma facendolo capire da voci di fondo.
E ancora: quanti sceneggiatori avrebbero resistito alla tentazione di mostrarci il Laureato al College, vedendolo nel contesto dei suoi amici per poi sottolineare la differenza tra lui e il contesto famigliare? O presentandolo magari impacciato nel ricevere la laurea in toga? Ma questo passaggio è superfluo se l’oggetto della nostra narrazione non è la differenza tra la vita studentesca e quella famigliare, ma il difficile inserimento sociale di un giovane alle prese con i propri dubbi e con i propri problemi di ingresso nel mondo degli adulti. Non cominciate mai un film con una premessa che esce dall’oggetto della narrazione. Centratelo subito, senza indugi. Si parte dalla situazione in corso, in atto. E la situazione, in questo caso, coincide con la presentazione del protagonista e del suo carattere. Non basta che il protagonista entri in scena. Come ci entra? Come ci appare? In che momento? In quale condizione psicologica? Questo è il punto. Noi dobbiamo coglierlo ed esprimerlo figurativamente. Ne stiamo dipingendo il ritratto. Non bisogna disperdersi in dettagli estranei a questo scopo.

B) Io la conoscevo bene (1965) di Antonio Pietrangeli , con Stefania Sandrelli. Soggetto e sceneggiatura di Antonio Pietrangeli, Ruggero Maccari, Ettore Scola.

Per quanto questo film non sia tratto da un romanzo, è esplicita l’intenzione degli autori di voler raccontare una Madame Bovary degli anni 60. Invece di una vita “da romanzo”, Adriana, la nostra, illetterata protagonista, sogna una vita “da cinema”. E’ una bellissima ragazza, candida e un po’ svanita, che non considera il suo corpo, costantemente oggetto di mire maschili, come un qualcosa da esibire con fierezza o su cui speculare, ma come una sorta di dotazione naturale, vissuta senza malizia alcuna, anzi con indolenza. Il suo sogno è quello di uscire da una vita dura e ingrata, meschina, di cui pure non si lamenta, per diventare una presenza sullo schermo.

1. Il film inizia con la panoramica di una spiaggia desolata. Ombrelloni chiusi, cartacce disseminate, brutte case sul fondo, sabbia grigia. La panoramica si conclude su Adriana stesa a prendere il sole, in solitudine. Dai piedi, la MDP sale al suo costume da bagno, alla sua schiena nuda, al suo volto, con gli occhi chiusi, di ragazza assopita e inerte. Non è chiaramente lì per esibirsi visto che è sola. E’ innocente nel suo mostrarsi. Il programma musicale di canzonette che risuona dalla sua radio a transistor è terminato. Una mosca sembra svegliare Adriana che la allontana con un soffio, senza un gesto, e resta ad occhi chiusi. Si ode il segnale orario. Ore 15.30. Adriana continua a restarsene semi assopita. Cominciano le notizie del giornale radio. Importanti avvenimenti politici. Subito Adriana si alza, raccoglie le sue cose e se ne va. Pochi passi di corsa sugli zoccoli e già si ritrova in una periferia di palazzoni, strade assolate e semideserte. Si ferma a un baracchino di bomboloni, il cui maturo gestore sonnecchia. Si fa allacciare da lui il reggiseno.

Adriana: Presto, capitano, che sennò faccio tardi.
Capitano: Chi c’ha fretta, vada piano.
Adriana: Grazie, capitano.

Altra corsetta zoccolando. Un uomo sta bagnando la strada con una pompa di gomma. Adriana lo chiama per nome, si fa annaffiare per togliersi la sabbia di dosso. Lo ringrazia. Corre ad alzare la saracinesca della bottega di un parrucchiere. Entra, corre nel retrobottega. Si toglie l’accappatoio e si distende di nuovo, su un lettino. Inerte come all’inizio.

2. Stacco. Adriana al lavoro. Fa le mèches a una cliente. Fa cadere per sbaglio una lozione. Ha un rapido flash. Si ricorda di un’aggressione sessuale subita passivamente sul pianerottolo di casa da parte di un uomo che nella foga, con un calcio, ha spedito una bottiglia a infrangersi sui gradini. Riprende il lavoro, distratta, svanita. A fine turno, mentre il proprietario della bottega entra in negozio per controllare l’incasso, Adriana è ancora sul lettuccio del retro a leggere, o più esattamente a sfogliare, un fumetto di quart’ordine (Demoniak). L’uomo, più che maturo, sprovvisto del minimo fascino, le si siede accanto e le accarezza le gambe parlando d’altro. Lei continua a leggere.

Proprietario: E lascia perdere sto libro!

Si china su di lei.

Adriana: Ma non potrebbe essere più gentile?

Però lascia fare, rassegnata, indolente.

3. Stacco. Adriana si vede in compagnia di Vittorio Gassman. Si vede sullo schermo accanto a lui. E’ una sua proiezione nella proiezione. La sera, infatti, Adriana fa la maschera in un cinema. Scambia qualche piccola chiacchiera con una sua collega. Accompagna un cliente al suo posto e nemmeno si accorge che lui si stanca di seguirla e va a sedersi per conto suo.

Da notare- Rispetto al Laureato, qui non ci sono parole che confermano o spiegano fatti o circostanze inerenti al personaggio. Il personaggio compare e dal suo atteggiamento, dai suoi piccoli comportamenti, comprendiamo chi è. Un ritratto indubbiamente difficilissimo da rendere perché ricco di sottili sfumature, e che in questo caso non può avvalersi della parola per spiegarsi, perché di “parole” Adriana non ne ha a disposizione. Non è un’intellettuale: ignora il giornale radio, vive di canzoni, di fumetti ordinari e di sogni cinematografici, porta in giro il proprio corpo rassegnata alla libidine maschile. E’ abituata a cancellare i ricordi spiacevoli che riaffiorano alla sua mente. Subisce. Chiede solo un po’ di gentilezza. La stessa semplice gentilezza che caratterizza la sua ingenua disinvoltura e familiarità nei rapporti umani.
Con molta maggiore radicalità del precedente esempio e con un compito estremamente più difficile ( raffigurare la psicologia di un personaggio apparentemente sereno eppure tragico, come viene compiutamente rivelato dal suo suicidio finale, superficiale ed estremamente sensibile, sospeso tra speranza e rassegnazione, protagonista e vittima, indipendente e succube dell’ambiente) Adriana viene raccontata mostrandola, non in azioni clamorose, ma per minimi dettagli di vita, senza che mai il racconto perda di presa diventando insignificante o noioso.
Anche qui, il momento iniziale ( l’inerzia dell’abbandono del suo corpo al sole su una spiaggia marginale e disastrata) è già un compiuto ritratto del personaggio, non mera premessa a un racconto che verrà dopo. E l’inizio è anche un insospettabile preannuncio, a violento contrasto, della fine. Giace inerte sulla sabbia e giacerà sull’asfalto dopo esserci gettata dalla finestra.
Ci siamo limitati alla presentazione del personaggio, ma il film è da studiare tutto per vedere con quale mirabile fluidità vengono, attraverso Adriana, presentati gli altri personaggi, tutti maschili, che le si affollano intorno. Il coro maschile non darà mai giudizi su di lei come “persona”, tutti potranno dire, un domani “Io la conoscevo bene”, ma nessuno ha fatto il minimo sforzo per conoscerla veramente, e chi forse avrebbe potuto farlo, è passato quasi inosservato agli occhi di Adriana, permanentemente sognanti un “altrove” che non esiste, se non in immagine, un altrove “fantasma”.

Commento- I grandi personaggi vivono dal loro primo apparire. Non solo quelli che rappresentano uno “stato dell’animo”, ma anche quelli che hanno una pura evidenza simbolica. Tarzan è un uomo bianco, nudo, che compare su un albero e ulula come un animale. E’ già tutto in questa prima immagine. Dracula appare in un castello in rovina, come un’ombra inquietante che emerge dai secoli. Non c’è alcun bisogno di raccontarne l’origine. Se si vuole, lo si può fare, e lo si è fatto. Ma al pubblico cinematografico, a noi, non importa nulla di Lord Greystoke, o delle battaglie del principe valacco Vlad Drakul. Ci basta vederli apparire perché essi esistano senza vita precedente e ci parlino senza parole. La loro prima inquadratura è già fondamentale, è già una rivelazione. Una presentazione qualsiasi, sciatta, non evidente di per sé, è una presentazione mal pensata e mal scritta, in genere rivelatrice solo del fatto che noi stessi che scriviamo non abbiamo ancora chiaro chi sia il nostro personaggio. Non lasciamoci ossessionare da tutti i dettagli biografici, dalla “carta d’identità” che abbiamo stilato di lui prima di cominciare a raccontarlo, non preoccupiamoci di fornire subito al pubblico una massa di informazioni sul suo conto. Concentriamoci sul suo ritratto e cerchiamo di renderlo espressivo sin dal primo momento.
Ma in pratica, come possiamo descrivere questa prima apparizione del personaggio? Così come uno sceneggiatore può pensare (a torto) che la “messa in scena” sia compito esclusivo del regista, può anche pensare che la caratterizzazione psicologica, i gesti e le azioni più normali e quotidiani, siano dominio e competenza degli attori e che sia superfluo sottolinearli. Non è così, perché è anche dalle azioni minime che riusciamo a comprendere e far comprendere un personaggio. Questo però non significa affatto inzeppare la sceneggiatura di indicazioni. Può chiarire questo punto un altro esempio (tratto dalla sceneggiatura del film White Heat del 1948/49 , film di Raoul Walsh con James Cagney). Gli sceneggiatori descrivono così il personaggio femminile di Verna, al suo primo apparire: Verna si muove dal letto alla porta, serrandosi la vestaglia alla vita. Il suo volto è bellissimo, algido come la neve. La filosofia di Verna è semplice: e io cosa ci guadagno?
Come potete vedere, non è necessario che lo sceneggiatore, nello script, si diffonda in lunga descrizione della psicologia del personaggio e in un pignolo elenco di gesti, anzi la sua presentazione dev’essere sintetica e ficcante esattamente come la presentazione visiva e centrare subito il punto. Il regista poi, nel film, sceglierà di rappresentare Verna ancora distesa a letto, per sottolineare meglio la sua natura da “bambola viziata”, ma quelle poche righe sulle caratteristiche dominanti del personaggio ne hanno già dettato il ritratto, fisico e psicologico.

Esercizio- I due esempi sopra proposti (Il Laureato e Io la conoscevo bene) sono quasi inarrivabili nella loro perfezione stilistica, ma se si devono cercare dei modelli di riferimento è sempre meglio considerare i più impeccabili, non certo per imitarli banalmente, ma per assimilarne la lezione (e confrontandoli ad esempi meno riusciti, sarà più semplice scovare le pecche di questi ultimi).
Se avete un personaggio in testa, provate a presentarlo come se doveste raccontarlo in una sola immagine. Cercatela questa immagine iniziale e riassumetela in pochissime righe (come nell’esempio proposto da White Heat). Questo esercizio potrebbe sembrare più semplice del precedente (c’è molto meno da scrivere), ma in realtà è parecchio più difficile. Potrà esservi utile scrivere dapprincipio una descrizione lunga (vi aiuterà a chiarirvi le idee), ma successivamente riducetela della metà e poi ancora della metà, fino a centrare l’essenziale, nel modo più espressivo ed efficace.

( Nella prossima lezione prenderemo le mosse da Gilda del 1946 di Charles Vidor e Io e Annie del 1977 di Woody Allen. Nel primo esamineremo il problema della “voce fuori campo” , aggiunta alla presentazione visiva del protagonista; nel secondo quello della “voce-volto” in campo, cioè del protagonista che si presenta al pubblico direttamente, “confessandosi” alla macchina da presa. Due ulteriori gradini dell’approfondimento della Presentazione del Protagonista).

Lezione 2 di Gianfranco Manfredi by www.gianfrancomanfredi.com

(per la prima lezione, cliccare qui)