* Certi passaggi della tua prima lezione on line mi hanno fatto venire in mente alcune frasi di Truffaut e Hitchcock. Quando leggo che "La tecnica è solo uno strumento, un attrezzo da usare e da trasformare nel corso della creazione. E nessuna tecnica per quanto fondata su precedenti e sperimentate tradizioni può venire considerata definitiva, né garantire un risultato automatico. Questo lo pensano solo i funzionari televisivi ed è per questo che si vedono poi dei programmi desolanti" mi viene in mente quanto detto da Truffaut: "Adottare uno stile particolare, fuori delle necessità del soggetto, è il difetto per eccellenza".
Quando leggo che "Con la sua scelta, Welles esprime con grande efficacia che il centro di una rappresentazione non può essere un Tema, ma deve essere un Uomo" mi viene in mente una frase di Hitchcock: "Più riuscito è il cattivo, più riuscito sarà il film". Infine, quando leggo "Diffidate di chi sostiene che le forme di rappresentazione ereditate dal passato sono “vecchie” e come tali da abbandonare. Si tratta invece di archetipi, di fondamenti della rappresentazione, di cui uno sceneggiatore deve avere consapevolezza, imparando a svilupparli e ad adattarli di volta in volta alle proprie esigenze di racconto" mi vengono in mente due frasi, la prima ancora di Truffaut: "Non potrei girare esclusivamente sceneggiature originali, perché sono troppo realista", l'altra nuovamente di Hitchcock: "Se durante l'attività creativa sentite che state sprofondando nel dubbio e nell'incertezza, andate subito a rifugiarvi nel vero e in ciò che è già stato sperimentato".
(Marco Sommariva, scrittore.)


* Ho letto la prima lezione e sono molto contento di quello che scrivi sui personaggi. Pochissimi sceneggiatori lo condividono. Io sono sempre stato convinto che i personaggi facciano le storie e credo che i buoni romanzi siano tali perché sono un'esplorazione all'interno dei protagonisti. Un intervistatore chiese a Balzac qual era il perfetto personaggio da romanzo, lo scrittore rispose: "E' lei, sono io, è uno che passa per la strada. Ma è un personaggio che va sempre fino al fondo di se stesso." Questa frase è un po' la mia bibbia. Mentre leggevo il modello, pensavo a come "I soliti sospetti" di Bryan Singer sia un film impostato per intero sul "dicono di lui", che tra l'altro ricorda molto "Rapporto confidenziale", sempre di Welles, che ricorda sempre "Quarto potere". La leggenda del cattivo Keyser Soze prende forma grazie ai racconti dei sospetti, è proprio questo che consente il colpo di scena finale. Anche qui i punti di vista sono univoci, nessuno aggiunge niente su Soze che resta una macchietta e tutti raccontano solo qualche aneddoto in più. A mio giudizio la storia per eccellenza sul "dicono di lui" resta "Il grande Gatsby" di Fitzgerald. Non so se i tre adattamenti cinematografici, in particolare quello di Jack Clayton, riprendano lo stesso modello narrativo della prima parte del romanzo, in cui le opinioni dei personaggi di contorno contribuiscono a costruire un protagonista indelebile. Il lettore si forma un'immagine talmente precisa di Jay Gatsby prima di vederlo, che quando entra in scena, stenta a riconoscerlo. E con questo sistema Fitzgerald spiazza il lettore. Non so se è già stato detto o scritto da qualche parte, ma ho sempre pensato che il modo in cui viene introdotto Bruce Wayne su "Batman" di Tim Burton fosse l'adattamento dell'introduzione di Jay Gatsby nel romanzo. Anche Wayne viene raccontato dalle opinioni degli altri e poi gioca a presentarsi allo spettatore senza rivelarsi. Stessa cosa vale anche per i primissimi minuti del film quando i due criminali parlano di Batman accrescendone la leggenda con aneddoti irreali. Si continua poi a parlare dell'uomo pipisterello anche dopo che lo spettatore l'ha visto, per continuare a renderlo qualcosa di non tangibile, che appartiene il mito. Questo ultimo sistema è il più comune per creare attesa riguardo a un personaggio. E più generalmente credo che il modulo "dicono di lui" risulti sempre efficace quando si deve infondere in un personaggio un'aura di leggenda. Se Jay Gatsby è un ottimo esempio di quello che chiami un "modello antico", cioè archetipo, Keyser Soze e Batman sono il suo adattamento a contesti e tematiche contemporanee. Keyser è incarnazione del male assoluto, mentre Batman è addirittura un supereroe, entrambi esempi di come applicare un modello classico a qualcosa di moderno e farne postmoderno.
(Alessandro Bilotta, sceneggiatore)


* Ritengo che l'esempio di "Citizen Kane" (narrare e non narrare) corrisponda al metodo più stimolante per descrivere un personaggio. Ricordo "Desperado" di Robert Rodriguez: nella prima scena un giovanotto (Steve Buscemi) entra in un bar e racconta di un massacro a cui ha assistito in un altro locale e compiuto da un Killer violento e implacabile, ovvero Antonio Banderas, protagonista della pellicola. In questo modo il personaggio viene identificato immediatamente come un soggetto pericoloso e vendicativo, abilissimo con le armi da fuoco e freddo come la morte. Dopo i titoli di testa, però, scatta il trucco: il giovanotto è AMICO del Killer e il racconto serviva ad ingigantire la fama del soggetto e incutere timore (lo dice lo stesso Banderas: "Hai esagerato"). Non so se una descrizione simile sia "onesta" ma, a mio parere, è funzionale: il Killer di Banderas è DAVVERO implacabile e abilissimo con le pistole, ma non solo...la descrizione corrisponde al lato più appariscente e violento della sua personalità, il resto (le sue pulsioni più romantiche e altruistiche) emergeranno più tardi... ma dato che il tema della vendetta violenta è al centro della storia introdurre il protagonista mettendo l'accento proprio sui dettagli più consoni al soggetto non è affatto da disprezzare, secondo me.
(Roberto Gallaurese, studente universitario )


* Dopo avere letto la prima lezione del suo corso di sceneggiatura, mi fa piacere esternarle il mio immenso gradimento per l'impostazione e il contenuto della sua iniziativa. Ci voleva. Ci voleva davvero. Finalmente un "professionista" che dice la "verità" ovvero che sono i Personaggi che fanno le storie e non viceversa e che a volte nel lettore prende piede molto di più il personaggio che l'autore aveva considerato come semplice comprimario. In un mondo fumettistico italiano sempre più avaro di sbocchi e belle iniziative come la sua attendo con ansia la prossima ispirata lezione e nel frattempo andrò a recuperarmi Citizen Kane. Mi permetto di suggerirle una piccola cosa: perché non crea una newsletter per questa sua iniziativa in maniera tale da creare un vero forum di interessati? Avere degli advisor via mail che ti tengono costantemente informati è importante per il pubblico di internet visto la "pigrizia" virtuale che lo contraddistingue.
( Giorgio Messina, Studio Cagliostro )


* Modello 1. L’ingresso ritardato “dicono di lui”. Esempio.
Ho scelto il film I Bucanieri (the buccaneers) del 1958. Regia di Anthony Quinn. Con Yul Brinner nei panni del pirata Jean Lafitte e di Charlton Heston nei panni del generale Jackson. Claire Bloom ne è la protagonista femminile. Non considero certo questo film un capolavoro del genere avventuroso, però penso che sia interessante un confronto con La Maledizione della Prima Luna, citato come esempio, in quanto quasi 50 anni separano i due film. E poi in analogia con Quarto Potere si parla di un episodio, molto romanzato, di vita di un personaggio veramente esistito. Infatti sebbene il film si intitoli “I Bucanieri” possiamo a buon ragione considerare unico protagonista Jean Lafitte, storico pirata vissuto a cavallo fra il settecento e l’ottocento, (ma voglio sottolineare che del realismo storico del film non mi sono preoccupato!)

Scene iniziali:
1) i titoli di apertura scorrono lentamente su una inquadratura fissa dell’oceano. La musica che accompagna i titoli di inizio ci descrive nelle sue variazioni i vari momenti del film.
2) Dopo i titoli alcuni testi ci introducono il personaggio. La sua ambiguità è messa in risalto.
3) Nella prima scena l’immagine di Lafitte è filtrata attraverso la mentalità di quello che potrebbe essere considerato il suo opposto: il generale Jackson. I due uomini non hanno nulla in comune se non il senso dell’onore e della parola data. Jackson è un militare, rigido, pratico e semplice. Gli americani si stanno contendendo con gli inglesi il controllo degli stati del sud attorno alla foce del Mississippi, nel 1812. Gli americani sono in brutte acque e il bivacco in cui troviamo Jackson respira un’aria di sconfitta. La flotta inglese mira al controllo dei mari interni. Assicurarsi l’appoggio di Laffitte e della sua flotta potrebbe significare la vittoria sugli inglesi. Ma Jackson è inamovibile: “Trattare con lui? È un pirata! Lo impiccherò!” Commento di un sottoposto: “Se Jackson dice che lo impiccherà è meglio cominciare a fare il cappio”. Jackson alla fine sarà quello che salverà Lafitte dal cappio!
4) Poi ci spostiamo nel territorio dei bucanieri… I bucanieri di Lafitte vendono in mercati improvvisati i preziosi depredati, ai ricchi e agli altolocati di New Orleans. L’atmosfera del mercato di Lafitte è allegra, guascona e spensierata. Contrasta visibilmente con quella precedente del bivacco dei soldati. C’è tutta la simpatia del regista verso il mondo dei bucanieri. Gli stessi bucanieri non si sentono dei fuorilegge. E’ emblematico il commento di Dominique, fanfarone finto ex-ufficiale napoleonico che striglia un bucaniere che ha rubato la borsa ad una dama: “Quando rubi in mare sei un bucaniere quando rubi sulla terra sei un ladro!” Insomma qui non c’è nessun dubbio: i bucanieri sono visti come ribelli simpatici e romantici al pari dei compagni della foresta di Robin Hood. Sappiamo poi una cosa fondamentale. Persino la figlia del governatore di New Orleans è innamorata di Lafitte!
5) Insomma quando arriva Lafitte sulla scena, nella personalità magnetica e affascinante di Yul Brinner, spada in pugno per sedare una rissa, noi incondizionatamente siamo già dalla sua parte! E lo resteremo per tutto il film anche quando il passato di Lafitte tornerà a oscurarne il fascino…

Da notare:
1) L’Oceano ci dà dimostrazione della sua straordinaria capacità di essere sempre diverso. Superficialmente potremmo definire il panorama noioso, dipende da quanto ci piaccia o no il mare!, ma le variazioni della luce, che si riflette sull’acqua, e il continuo incresparsi della superficie, ci offrono un mondo che non è mai uguale a se stesso, che non dà garanzie di solidità come la terra e che è la patria sterminata di uomini liberi. E’ il regno dei bucanieri e di Jean Laffitte. Il mondo in cui il pirata tornerà dopo aver tentato, per amore, di inserirsi nella società e riscattare il suo passato criminoso. L’oceano e la propria nave è l’UNICA possibile patria di Laffitte. Ho compreso il significato di questo inizio solo alla fine del film. A mio parere è un po’ ingannevole perché mi aspettavo una successione di abbordaggi e battaglie navali, che occupano invece solo la prima parte della pellicola. La musica invece non è ingannevole, presagisce tutto quello che vedremo: romantica, come il personaggio, guerresca, un momento centrale del film descrive battaglie terrestri e poi malinconica, alla fine Laffitte rinuncerà al suo sogno di diventare un americano nella società americana perché sarà sempre considerato un pirata e non potrà mai liberarsi del suo passato.
2) I testi introduttivi danno un equilibrato contributo alla personalità di Lafitte come pirata e criminale. Si sottolinea il fatto che il suo contributo sia stato fondamentale per la libertà dell’America. Il tutto viene poi riassunto da una frase di Byron: uomo di mille crimini e una virtù.
3) Jackson ci dà la visione di Lafitte che può avere un militare o un uomo autoritario: è un pirata e lo impiccherò. L’unica espressione netta e decisa. Ma anche lui cambierà idea dopo che Lafitte salverà l’esercito americano da una disastrosa sconfitta.
4) Diversa invece la posizione dei personaggi bene di New Orleans. Confortati dalla promessa di Lafitte di non attaccare navi americane, in tutto il film traspare la fascinazione del pirata verso il sogno americano con addirittura una lettura della costituzione da parte dei bucanieri, si comportano da veri ipocriti. Con il brividino nella schiena a frequentare un covo di pirati non esitano a “ricettare” i preziosi depredati alle navi spagnole e inglesi. Un commento ironico dello stesso Lafitte: Noi corriamo il rischio voi ne traete il vantaggio.
5) Conclusioni: In conclusione nella presentazione di questo personaggio, non c’è un equilibrio fra condanna e beatificazione. Il regista, Anthony Quinn dalla vita certamente avventurosa, lo ha in simpatia. A differenza del commento di Orson Welles che rimanda agli spettatori un giudizio su Kane, qui il giudizio è favorevole e ci si sforza di tacere tutte le connotazioni negative. Lafitte arriva addirittura ad impiccare un altro bucaniere perché ha depredato una nave americana e ucciso i passeggeri. Più pesante il giudizio sulla società che prende tutto l’arraffabile dai bucanieri e non esita a scaricarli alla resa dei conti.
( Vittorio Sossi , insegnante supplente di scienze)

* Come già evidenziato nella prima lezione del corso, il metodo di presentazione “dicono di lui” è tipico delle commedie teatrali, è dunque un metodo ampiamente esplorato nel passato non prossimo e di sicura efficacia. Ha l’indubbio vantaggio di preparare con accuratezza la scena all’ingresso del personaggio principale, introducendone vizi e virtù, o comunque una loro versione, ma presenta allo stesso tempo il pericolo di concentrare troppo l’attenzione sul protagonista della storia, aumentando le aspettative su di lui e distogliendo, magari, l’attenzione dallo svolgersi dei primi avvenimenti.
Da buon genovese non posso non citare il caso di “Gildo Peragallo ingegnere”, commedia del maestro Gilberto Govi (è facilmente reperibile a basso prezzo in DVD, in una collana presente in molte edicole; consiglio anzi di acquistare tutti e sei i titoli in programma).
E’ un caso da manuale. Il personaggio principale (non v’è dubbio su chi sia, il suo nome dà il titolo alla commedia) è l’oggetto di un’accesa discussione tra i primi due personaggi che entrano in scena, due donne, una giovane, da lui favorita, che si spertica in lodi al suo riguardo, e una seconda, più anziana, che spende su di lui parole acide, in netto contrasto con quanto detto dall’altra donna, insinuando oltretutto dubbi sulle intenzioni dell’uomo (che si mostrerebbe amico per concupire la giovane). Non è finita. Altri due personaggi si fanno avanti, la padrona della pensione dove alloggia l’ingegnere (affascinata dall’anziano uomo) e un nuovo pensionante. Qui i dubbi sull’identità dell’uomo, sul suo carattere, sulla sua provenienze si moltiplicano: uno lo dipinge padre di famiglia, ciarlatano e squattrinato, l’altra scapolo, ricco ed affabile. Chi è allora questo ingegnere? Ben presto si saprà: un bugiardo cronico, incapace di raccontare la verità su di sé e su ciò che lo circonda, sempre in cerca dell’occasione giusta da sfruttare a proprio vantaggio. Le sue bugie, lui le chiama “spiritose invenzioni” e anzi si vanta di portare agli altri buon umore ed allegria quando invece li getta in situazioni impazzanti e di difficile risoluzione. Ma questo si saprà poi; all’inizio della storia, invece, noi non sappiamo nulla di lui. Chi ha ragione? Chi è davvero quest’uomo? Benefattore o ciarlatano? E l’inizio ha la giusta presa sullo spettatore…
Un secondo esempio, tanto per ribadire il concetto: “Desperado” di Rodriguez.
All’inizio, Sam Buscemi entra in una squallida posada messicana, ordina una birra e, per rompere il ghiaccio, si mette a raccontare una storia. Racconta di uno strano personaggio, di una leggenda a cui gli altri (pur avendone sentito parlare) non credono fino in fondo. E il colpo di genio sta nell’accompagnare le parole di Buscemi con sequenze tratte dal suo racconto, iperboliche, esattamente come la descrizione. E allora lo spettatore si chiede: chi è il Mariachi? Esiste davvero? E se sì, è come viene descritto (una sorta di orco, gigantesco, cattivissimo, spietato) o quella è solo una versione dei fatti?
( Luca Barbie, studente )

* Mi permetterò dei consigli sull’attenzione del lettore, dello spettatore, del pubblico… la mia esperienza è legata al palco dove è fondamentale essere “interessante” da subito con il pubblico circostante altrimenti l’attenzione scema, il pubblico si distrae, ecc… Per esperienze teatrale è molto più interessante un interno famigliare dove la moglie sta cucinando ed il marito mentre rientra dal lavoro dice: “Ciao amore” e lei: “ciao tesoro ti ho fatto i cavoletti di Bruxelles alla panna come piacciono a te..” il marito mentre l’abbraccia estrae un pugnale e ZAC! La uccide… commentando: “non mi son mai piaciuti! La mamma me li faceva gratinati!”Piuttosto che: “Ciao amore” e lei: “ciao tesoro ti ho fatto i cavoletti di Bruxelles alla panna come piacciono a te..” il marito mentre l’abbraccia: “lo sai che ti adoro…” e la bacia…Ovviamente (a parte la tematica più “Dyladoghiana”) non è niente di nuovo quello che ti sto scrivendo però è interessante a volte spostare il proprio punto di vista dalla parte del pubblico. Io mi annoierei? Io mi divertirei? Vedendo quelle scene… leggendo quelle righe… Spesso ci dimentichiamo del pubblico e siamo vogliosi di inserire emozioni così personali al quale il pubblico poi non si ritrova, non fa sue…C’è una conoscenza collettiva ed una personale: dobbiamo distinguerle nitidamente e attingere da quella personale per descrivere con interesse una situazione collettiva, così facendo emozioniamo il pubblico. Quando faccio un pezzo comico… al di là dell’abitudine da addetto ai lavori… mi viene da dirmi: “ma se io fossi il pubblico a questo intervento riderei? Oppure rifletterei? O che altro?”
(Davide Colavini, cabarettista)

- Caro Davide, hai ragione nel dire che bisogna assumere il punto di vista del pubblico, però è sempre bene farlo in seconda istanza, preoccupandosi prima di quello che si vuol dire e di come lo si dice. Poi bisogna saper essere giudici di se stessi, anche spietati, non solo assumendo il punto di vista del pubblico genericamente inteso, ma anche quello della sua parte più critica. Io credo che anche negli sketch e nei monologhi comici un'eccessiva preoccupazione di piacere al pubblico e di far ridere chiunque e a tutti i costi, sia sbagliata, non solo perché il pubblico non è tutto uguale, cambia sera per sera e non sempre le risposte sono le stesse, e poi perché se ci si preoccupa solo degli effetti gratificanti, si trascurano quelli "urtanti" che sono altrettanto importanti nel lavoro comico ( e non solo per Lenny Bruce). La ricerca forzata del consenso, della risata e dell’applauso, distrugge l'originalità del proprio lavoro e spesso ci appiattisce sul luogo comune. Un comico deve anche chiedersi: perché si ride se parlo di cacca? E a volte deve anche chiederlo al pubblico per stimolare una riflessione anche sulla nostra presunta spontaneità che spesso è solo riflesso condizionato, frutto di pregiudizi ( vedi le barzellette sugli ebrei, tanto per dirne una) . Il lavoro comico comunque richiede doti di improvvisazione simili a quelli del jazzista . Nell’improvvisazione, come disse il grande musicista B.B.King, l’importante non sono le note, ma gli spazi tra le note, i silenzi. Queste pause, questi silenzi, servono anche a fermare la pulsione a ridere per poter riprendere il discorso. Quando cominciavo questo lavoro ho avuto tra l’altro la fortuna di vedere le prime esibizioni teatrali di Benigni che spesso alternava ad esplosioni di battute, lunghi silenzi che creavano non solo attesa, ma imbarazzo nel pubblico, e lo tenevano in questo modo spasmodicamente legato. Lo stile del cabarettismo televisivo, compresso in brevi sequenze di tormentoni a raffica, distrugge rovinosamente questo clima di comunicazione con il pubblico e preclude al lavoro del comico , che è comunque anche un lavoro di testi, ogni vera “narratività”. Qui noi ci stiamo preoccupando di drammaturgia : cioè si tratta di imparare a strutturare un racconto. Questo ha un suo rilievo anche nel lavoro comico perché non sempre la risata è frutto della battuta o del paradosso, ma di una costruzione di situazioni e di incastri tra personaggi che è quanto di più “meccanico” ci sia, in senso buono, nel senso cioè di una struttura ferrea che trascina il pubblico nell’imprevedibile, cosa caratteristica del grande teatro comico, da George Feydeau a Dario Fo. Persino i comici di Zelig, almeno nei casi migliori, vengono da una formazione di tipo teatrale. Bisio ha studiato alla scuola del Piccolo Teatro ( la Paolo Grassi) e l’ho visto rappresentare anche testi drammatici. E’ importante che un comico sappia essere anzitutto attore e acquisti dimestichezza con i ritmi dettati da un testo. E’ testo anche la costruzione di una gag fisica. Molti dei grandi comici americani, da Jerry Lewis fino a Jim Carrey hanno raccontato d’essere cresciuti grazie alle lezioni di Stan Laurel, le cui gag incatenate ( che scatenavano cioè reazioni a catena) erano studiatissime e comportavano un durissimo lavoro di preparazione. E’ molto pericoloso, se si vogliono raggiungere dei buoni risultati, trascurare che tra comico e pubblico c’è qualcosa in mezzo: cioè quello che si recita, che include testo e azione (G.M.)

1. Commento generale ( di G.M.) I vostri commenti e le vostre integrazioni hanno chiarito molto bene che a partire da un modello si possono sviluppare narrazioni molto diverse e che lo stesso modello può venire sviluppato in molte varianti. Ne voglio aggiungere una, davvero notevole. E’ il magnifico e celeberrimo inizio di “Sentieri Selvaggi” di John Ford. Dall’interno di una casupola buia, alla luce della prateria , seguiamo una donna che esce un po’ in ansia, come per un presentimento. In fondo alla prateria spunta un cavaliere solitario, irriconoscibile alla distanza. Piano piano tutta la famiglia esce all’aperto, in attesa silenziosa, sguardo all’orizzonte. ( E chi mai sarà? Il messia? Perché quell’attesa quasi sacrale? ) Qualcuno mormora un nome: Ethan. Non ne è ancora sicuro, esprime una speranza, ma labile, dubbiosa, che nessuno si sente di confermare. Finalmente Ethan, il protagonista, giunge alla vista. Indossa una divisa sudista. E’ tornato dalla guerra . Due bambini sorridenti lo chiamano zio e allentano la tensione.
Rispetto al modello: (1) Qui il coro non dice una sola parola, a parte il nome del protagonista e un primo riferimento che lo indica come zio dei bambini . (2). Il fatto che tutti lo attendano con tanta trepidazione ne rivela l’importanza. (3). Sorpresa: non è come ce lo aspettavamo, non si presenta come un eroe sorridente, sicuro di sé, è stanco, impolverato e porta sulle spalle il peso di una sconfitta. L’eroe è anche un anti-eroe.
Questa variante rivela quanto sia importante avvolgere nel mistero il protagonista, come si possa caricare l’attesa della sua entrata in scena anche senza parole, e come sia fondamentale lasciare che sia il pubblico, seguendo la storia, a formarsi un suo giudizio e fornire allo spettatore informazioni puramente visive che non richiedono spiegazioni supplementari. E’ dalla divisa sudista e dal suo atteggiamento che capiamo che Ethan è un reduce, che è un uomo forte, che ha attraversato un dramma e che non torna da vincente. (E anche se poi, a parole, Ethan /John Wayne assicurerà che la sconfitta non ha lasciato strascichi in lui, noi potremo capire che la durezza del suo carattere e la brutalità di certi suoi comportamenti successivi, hanno il sapore amaro di una rivalsa ).

2. Un’integrazione sul metodo. Carla Redaelli che legge e revisiona sceneggiature per professione ( e che collaborerà a questo corso esaminando e commentando quando è il caso i vostri esercizi), mi ha mandato un interessantissimo articolo/saggio di Lewis Cole, docente di sceneggiatura della Columbia University di New York e trainer del Mediterranean Film Institute, di cui Carla ha seguito un corso. Il saggio (Toughts about some essentials of screenwriting ) è in inglese e non ho l’autorizzazione a pubblicarlo, ma voglio citarne almeno un passo, opportunamente tradotto, che riguarda l’uso da fare dei manuali di sceneggiatura. Dice Cole: “ Attualmente ci sono una quantità di libri che vi insegnano come scrivere una sceneggiatura ( i più rinomati sono quelli di Syd Field). Ci sono molte utili idee in questi libri, ma il problema è che possono rafforzare una convinzione letale per la qualità. Che cioè la sceneggiatura sia un “prodotto”, da creare sulla base di regole certe. Ma chiunque ami il cinema, sa bene che le buone sceneggiature, come del resto qualsiasi altro lavoro creativo degno d’essere ricordato, vanno ben oltre la confezione del “prodotto” e non possono essere scritte seguendo semplicemente delle regole, perché per ogni regola definita, ci sono decine di esempi di rottura della regola.” Se si prende sul serio questa giustissima indicazione, ne consegue che il metodo d’insegnamento non dovrebbe, a mio avviso, predisporre degli esercizi da “eseguire” , per esempio delineando in poche righe un personaggio e/o un’azione e chiedendo agli studenti di “metterlo in scena” , come si fa abitualmente nei manuali di sceneggiatura. Non voglio dire che questo esercizio non sia utile, anzi è utilissimo se si considera che uno sceneggiatore nella stragrande maggioranza dei lavori che affronta, opera su commissione, cioè viene incaricato di sceneggiare idee o spunti di altri ( il regista, l’attore, oggi persino il produttore e/o funzionario televisivo) e dunque è bene che si abitui alla massima disponibilità e si attrezzi a saper raccontare le idee degli altri. Se si riesce a raccontare bene l’idea di un altro, è più facile raccontare le proprie. O almeno dovrebbe essere così. Se però all’aspirante sceneggiatore non si lascia neppure al principio la libertà di raccontare quello che vuole lui (una sua idea) lo si condiziona alla “confezione del prodotto” invece che aiutarlo a seguire un proprio cammino. Per chi tiene il corso poi, diventa difficile capire chi ha di fronte, qual è la sensibilità, quali sono gli orientamenti creativi dello studente. Ecco perché l’esercizio che ho proposto in questa prima lezione, vi ha lasciato assolutamente liberi di scegliere il vostro personaggio, la vostra situazione. Se oltre a indicare un modello narrativo ( da seguire e all’occorrenza modificare o trasgredire) vi avessi anche dato una traccia di personaggio o di azione, le cose forse per voi sarebbero state più semplici, ma non vi avrei aiutato a seguire il vostro libero percorso creativo, né avrei avuto modo di capire cosa siete più interessati a raccontare. Nella sezione esercizi, troverete alcune prove molto interessanti da questo punto di vista, proprio perché intrecciano uno studio di tipo tecnico, con temi e personaggi ben radicati nell’esperienza di chi ha scritto. E insieme, in questa sezione di commenti, segnalazioni e integrazioni, si può notare come l’attitudine di ciascuno a narrare una storia che in qualche modo “gli corrisponda”, non è affatto alternativo all’amore per il cinema, tutto il cinema, senza confini prestabiliti di genere e/o di livello, né di scelta di tema o argomento.
 Lezione di Gianfranco Manfredi  by www.gianfrancomanfredi.com