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Anche se funziona, serviranno anni di sperimentazioni perché la fusione nucleare possa darci energia pulita. Ma c'è una un'altra invenzione già accessibile in Europa che, se riuscirà a diffondersi e a garantire costi convenienti, potrebbe cambiare la nostra vita di tutti i giorni: l'idrogeno in polvere. La ricerca è in corso da tempo. Ma da poche settimane una start-up israeliana ha dimostrato, con la propria tecnologia, che si può ricavare elettricità aggiungendo acqua a una miscela molto simile al caffè: che però contiene l'elemento più semplice che si trova in natura.
La società si chiama Electriq Global e ha avviato la sperimentazione ad Amsterdam in Olanda, dove da settembre è in funzione una gigantesca gru semovente, alimentata con idrogeno in polvere e non con il tradizionale gasolio. “La nostra tecnologia può produrre idrogeno, così come si prepara una tazzina di Nespresso – dice Baruch Halpert, amministratore delegato della start-up –. Si prende una capsula, la si miscela con l'acqua, si mette in un catalizzatore e si ricava l'idrogeno”. Il tutto avviene all'interno di un generatore che, grazie a una normale pila a combustibile (fuel cell) nello stadio finale, produce l'elettricità che alimenta i motori della gru. La novità è nel trasporto in polvere: un processo che permette di ridurre i costi di produzione e di eliminare la scomodità legata a raffreddamento, compressione, peso delle bombole e relativa infiammabilità dell'idrogeno gassoso, così come è stato utilizzato finora. Ma vediamo come funziona.
Energia in cialde
Il generatore a idrogeno in polvere non produce rumore, anidride carbonica e nemmeno gas di combustione, poiché la reazione che sfrutta è soltanto elettrochimica. L'unico scarto al termine del processo può essere restituito al produttore e riutilizzato per catturare e trasportare altro idrogeno. Si parte da una molecola composta da potassio, boro e due atomi di ossigeno (metaborato di potassio). L'impianto elettrolitico, progettato da Electriq Global e alimentato da energia rinnovabile, sostituisce l'ossigeno con quattro atomi di idrogeno ricavati dall'acqua. Si ottiene così una polvere formata da potassio, boro e idrogeno (boroidruro di potassio): la nuova sostanza è completamente inerte, non è esplosiva né infiammabile, e può essere facilmente compressa per il trasporto in blocchi, saponette o capsule. Una volta rimescolata all'acqua all'interno del generatore, la polvere libera gli atomi di idrogeno utili a produrre energia e li scambia con l'ossigeno. Il risultato di scarto sono l'acqua, da riutilizzare all'interno dell'impianto, e nuovo metaborato di potassio: cioè il composto iniziale, che può essere restituito al produttore e rigenerato. Ma se anche venisse accidentalmente disperso nell'ambiente, sarebbe praticamente innocuo concime a base di potassio.
Forse proprio questa tecnologia, applicata su larga scala, ci permetterà di sostituire i combustibili fossili con la catena dell'idrogeno. Ma è ancora presto perché, a parità di energia rilasciata, i costi siano competitivi con benzina e gasolio. Lo sono invece con le attuali batterie che alimentano i motori elettrici. “La densità energetica di un generatore a polvere di idrogeno – spiega infatti Baruch Halpert – è sei volte maggiore di quella di una batteria al litio”. E non è nemmeno necessario sostituire la batteria o perdere ore a ricaricarla. Basta aggiungere altra polvere e si può ripartire. Un'ulteriore convenienza è data dalla reazione elettrochimica: per ogni chilo di idrogeno in polvere, se ne producono due da trasformare in energia. “Il chilo in più – sostiene l'amministratore delegato di Electriq Global – è fornito dall'acqua”.
Non possiamo, per ora, sapere se e quando avremo auto al caffè di idrogeno. Anche perché sostituire il parco macchine e l'intera filiera del petrolio, dalle raffinerie a un numero di distributori sufficienti, richiede tempo. Ma l'Olanda sembra crederci. Nel porto di Amsterdam è in costruzione la prima fabbrica di idrogeno in polvere che, tra gli altri impieghi, può essere sperimentato nel trasporto pesante, nella navigazione fluviale e nella fornitura di elettricità a concerti e manifestazione pubbliche. “Se vogliamo che l'idrogeno sia il vettore energetico del futuro – aggiunge Halpert – dobbiamo renderlo adatto a molteplici applicazioni”. Paesi come Grecia, Italia e Spagna, con il loro potenziale di energia solare, potrebbero facilmente ospitare fabbriche di metaborato di potassio. E in un futuro non troppo lontano, magari ogni mattina prima di andare al lavoro, metteremo una cialda di caffè... padron, di idrogeno verde nel generatore della nostra e-bike.
Articolo di Fabrizio Gatti per today.it
Il Liceo Artistico Nervi-Severini di Ravenna ha istituito il congedo mestruale per le studentesse che soffrono di dismenorrea (termine medico con cui vengono indicati i dolori associati al ciclo mestruale) e che lo richiedano, che potranno assentarsi da scuola in maniera giustificata per un massimo di due giorni al mese. La delibera con la quale il consiglio di istituto del liceo ravennate ha dato avvio all'iniziativa - partita da un gruppo di studentesse dello stesso istituto - è stata pubblicata nei giorni scorsi sull'albo online della scuola. "Probabilmente - ha spiegato il preside Gianluca Dradi - per una scuola si tratta della prima iniziativa di questo genere in Italia". E in effetti non si trovano informazioni su altri istituti scolastici che abbiano attuato misure simili.
La novità, come prevedibile, ha diviso in due l'opinione pubblica tra chi è a favore dell'iniziativa e chi, invece, la considera "esagerata" e teme che le studentesse possano approfittarsene. Certo, il rischio di approfittatori quando si crea un diritto c'è sempre, ma non per questo si può rinunciare a crearlo lasciando in difficoltà le ragazze che, invece, soffrono davvero per questo problema e che sono tante: secondo uno studio del 2020 condotto dall'University of Virginia Health System, infatti, in circa il 5-15% delle donne con dismenorrea primaria i crampi sono abbastanza gravi da interferire con le attività quotidiane e possono comportare l'assenza da scuola o dal lavoro.
"Io puntualmente sporcavo la sedia e i vestiti perché non potevo andare in bagno più di una volta all'ora, poi prendevo 8 in condotta per punizione se stavo a casa una volta al mese, nonostante avessi il certificato di dismenorrea. L'endometriosi me l'hanno diagnosticata 18 anni dopo. La professoressa di ginnastica, avendo lei il ciclo leggero, non credeva a nulla e ci obbligava a farla peggiorando la situazione", racconta una ex studentessa ravennate. Il problema è reale, tanto reale che il liceo Nervi-Severini richiede un certificato medico che attesti la diagnosi di dismenorrea per concedere il congedo mestruale. E così il rischio di "approfittatrici", se forse non si annulla del tutto, almeno si riduce drasticamente.
E nel mondo del lavoro?
Chi è contro la misura del liceo ravennate sottolinea il fatto che, nel passaggio dalla scuola al mondo del lavoro, le studentesse si troverebbero in difficoltà, in quanto nel mondo del lavoro non esiste il congedo mestruale. "La donna lavoratrice che soffre di dismenorrea, in forma tale da impedire l'assolvimento delle ordinarie mansioni lavorative giornaliere, ha diritto di astenersi dal lavoro per un massimo di tre giorni al mese". Purtroppo il testo di questa proposta di legge partito da quattro parlamentari del Pd non si è mai tramutato in legge vera e propria, ma è rimasto in stallo dal 2016. In Italia, si legge nella proposta, dal 60 al 90% delle donne soffrono durante il ciclo mestruale, e questo causa tassi di assenteismo dal 13 al 51% a scuola e dal 5 al 15% sul lavoro.
Diverso all'estero: in Spagna, a maggio 2022 la Camera dei deputati ha dato il primo via libera al disegno di legge che introduce un congedo mestruale per le donne che soffrono di mestruazioni molto dolorose. Se la misura verrà confermata al Senato, la Spagna sarà il primo Paese dell'Unione Europea a introdurre una legislazione di questo tipo seguendo l'esempio di altri Stati, come Giappone, Indonesia e Zambia, che hanno già introdotto forme di congedo mestruale. In molti di questi Paesi, però, molte donne scelgono comunque di non usufruirne per il rischio di essere discriminate.
E qui entra in gioco un altro rischio, ben più grave di quello decantato da chi teme che le studentesse possano approfittarsi del congedo mestruale: quello di creare un'ulteriore discriminazione per le donne, alla pari del "rischio maternità". Se, purtroppo, ancora molti (troppi) datori di lavoro si chiedono perchè assumere una donna se questa può restare incinta e godere quindi della maternità, allo stesso modo gli stessi datori potrebbero chiedersi perchè assumere una donna se può assentarsi dal lavoro fino a tre giorni al mese a causa del ciclo mestruale.
Secondo una ricerca del 2020 svolta dall'Istituto Nazionale Astraricerche, infatti, il 35,2% delle donne intervistate teme che il congedo mestruale porterebbe a un peggioramento della situazione lavorativa femminile, aumentando la diffidenza dei datori di lavoro verso l'assunzione di donne. Il 27,9% delle intervistate, inoltre, ritiene che il congedo mestruale "sminuirebbe le donne, lasciando passare il concetto che la capacità lavorativa di una donna varia in base ai cambiamenti ormonali". Solo il 34,6% delle intervistate ritiene che un Paese civile dovrebbe riconoscere la possibilità a chi sta male di non lavorare.
Quindi cosa fare? Rinunciare a un diritto per paura che questo possa ritorcersi contro le stesse donne? No: credo che rinunciare a un diritto non sia mai la soluzione. Quelle 16 studentesse del liceo ravennate dalle quali è partita la proposta di congedo mestruale sono 16 future lavoratrici. La speranza, allora, è quella che anche una volta inserite nel mondo del lavoro quelle 16 ragazze - e come loro tante altre giovani donne, sempre più consapevoli dei loro diritti - possano far sentire la loro voce e creare un ulteriore cambiamento anche in un contesto lavorativo.
Articolo di Chiara Tadini per today.it
Ci sono alcune serie che lasciano il segno per la loro trama avvincente, per i colpi di scena perfettamente posizionati nella storia, per un'ottima colonna sonora, una bella fotografia, un finale a sorpresa che lascia addosso quel desiderio di voler scoprire come andranno a finire le cose. Alcune serie coinvolgono per la bravura degli attori protagonisti, per la complessità dei personaggi che vengono raccontati, per l'epoca storica che rievocano. Altre, invece, hanno la capacità di imporsi con forza nella mente e nel cuore di chi le guarda per il saper rendere partecipi di un'esperienza visiva che si avvicina più alla realtà che alla finzione, che è talmente ruvida, spigolosa, brutale da assumere tutte le caratteristiche di un fatto reale, quasi di un ricordo personale e diventare, così, vissuto più che visione. La vita bugiarda degli adulti appartiene a questa tipologia di serie tv.
Netflix con questo titolo, tratto dall'omonimo romanzo di Elena Ferrante, e con una straordinaria regia di Edoardo De Angelis ha dimostrato che quando ci si libera del superfluo e si racconta una storia reale, tangibile, sensoriale, è impossibile non innamorarsene anche dei suoi lati più bui, più contraddittori, più sporchi.
La vita bugiarda degli adulti è un racconto di formazione che segna l'irruento passaggio dall'infanzia all'adolescenza di una ragazza ribelle ma di buona famiglia nella Napoli del 1990. In questa serie che vede l'esordiente Giordana Marengo nei panni della protagonista Giovanna al fianco di una veterana Valeria Golino, c'è una continua alternanza di elementi contrastanti che contribuiscono all'equilibrio perfetto di una storia che si regge tra sapienza e ignoranza, fedeltà e tradimento, ribellione e accondiscendenza, curiosità e accidia, ricchezza e povertà. Vedere La vita bugiarda degli adulti equivale a fare una vera e propria esperienza di vita, ci si immedesima, si viene coinvolti, si resta spiazzati, si soffre e si gioisce insieme ai personaggi della storia che sono il vero punto di forza di questa serie. Non servono descrizioni, non servono trame personali avvincenti, ai protagonisti de La vita bugiarda degli adulti basta esistere, vivere nello schermo e parlare al pubblico.
Questa serie con la sua forza comunicativa e il suo coraggio nel mostrare tutto il brutto della vita adulta fatta, per forza di cose, di continue bugie, sbatte in faccia a tutti una realtà che sullo schermo spesso viene edulcorata ma che, in questo caso, è cruda ma più viva che mai.
Perdersi questo viaggio alla riscoperta di cosa vuol dire essere adolescenti, sognare, credere che i propri genitori siano eroi senza macchia e pensare che essere adulti significhi custodire una saggezza tale da tenersi alla larga di qualsiasi tipo di errore, per poi venire delusi da tutta l'imperfezione di quelli che, per convenzione, vengono definiti adulti è un'esperienza straziante e meravigliosa che lascia un graffio nell'anima.
Articolo di Marianna Ciarlante per today.it
Adele (nome di fantasia, ndr) era una studentessa universitaria di 19 anni che frequentava la Iulm di Milano. Non sappiamo ancora chi era davvero, quali fossero le sue passioni e i suoi desideri per il futuro. Sappiamo solo che ha deciso di togliersi la vita nel bagno della sua università, scusandosi "per i suoi fallimenti".
Quasi 2 giovani al giorno si uccidono in Italia
Il suicidio di Adele, purtroppo, è solo l’ultimo di una lunga serie. Ogni anno in Italia, secondo i più recenti dati Istat disponibili, aggiornati al 2019, si contano circa 4.000 suicidi all’anno, il 13% dei quali – circa 500 – fra gli under 34. Di questi 500, si contano circa 200 casi tra gli under 24, che in altissima percentuale risultano essere proprio studenti universitari. La situazione è drammatica ed è divenuta ancor più drammatica con la pandemia, che ha di fatto avuto un ruolo da detonatore di problematiche già latenti soprattutto tra i giovanissimi. Sempre secondo l’Istat, infatti, nel 2021 in Italia 220mila ragazzi tra i 14 e i 19 anni si dichiaravano insoddisfatti della propria vita e in una condizione di scarso benessere psicologico.
Numeri impressionanti, che però sembrano non sconvolgere più di tanto chi dovrebbe occuparsi di trovare soluzioni a questi disagi, frutto di una società che non tollera il fallimento, fondata sulla competizione estrema, alla perenne ricerca del successo e che arriva a bullizzare chi non è in grado di rispettare determinati standard e aspettative. Una società che, soprattutto, considera i giovani non il futuro e una leva per la crescita del Paese, ma carne da macello utile solamente ad alimentare un modello di vita, professionale e personale, ancora arroccato a logiche anni ’50.
Sono passati pochi mesi dalla morte di Riccardo Faggin, studente universitario di 26 anni che ha deciso di togliersi la vita simulando un incidente stradale. Anche in quel caso, tutta Italia ha parlato della drammatica vicenda per giorni. E poi? Finita nel dimenticatoio. Il sipario è calato velocemente sia sulla storia di Riccardo che soprattutto sull’analisi di un fenomeno in preoccupante ascesa e che nessuno sembra aver intenzione analizzare e comprendere per trovare delle soluzioni.
Il bombardamento dei "supereroi"
Di contro, i media, un giorno sì e un giorno no, ci bombardano di storie di laureati prodigio che finiscono il proprio percorso di studi con anni di anticipo, che discutono la tesi di laurea durante il travaglio e di superuomini e superdonne che vivono esclusivamente per lavorare e che esaltano lo spirito di sacrificio dove per sacrificio si intende l’essere disposti a qualsiasi cosa pur di lavorare, anche 12 ore al giorno per un tozzo di pane senza avere alcuna vita al di fuori della propria professione.
Storie raccontate a tambur battente come se in qualche modo si volesse instillare nella mente dei ragazzi che basta volerlo per farcela, è solo questione di volontà, dimenticando però che in particolare l’Italia è uno dei Paesi Ocse con i peggiori indicatori per quanto riguarda il benessere economico e professionale dei giovani under 34, che vivono una condizione di precariato e stipendi risibili molto peggiore di quella vissuta dai propri genitori alla stessa età.
In questa narrazione nulla contano le difficoltà, i disagi, i disturbi. Di quelli nessuno tiene conto, anzi sono elementi di disturbo che è bene nascondere sotto il tappeto. “Guarda, questa ragazza è riuscita a laurearsi scalando le montagne e studiando 18 ore al giorno, perché tu non puoi farcela?”. E via oggi, via domani, questi messaggi tossici iniziano a insinuarsi nelle menti delle persone più fragili, che continuano a sentirsi completamente inadeguate alle aspettative che la società impone loro. E a volte, capita che qualcuno non riesca più a resistere a questa continua pressione psicologica e soccomba. Com’è capitato ad Adele, a Riccardo e alle centinaia di ragazzi che negli ultimi anni sono arrivati a togliersi la vita scusandosi per i propri fallimenti universitari e professionali.
Articolo di Charlotte Matteini per today.it
Da sempre al fianco dell’Uomo in un legame antico come il tempo, il cane ha conquistato il cuore di tutti con un'intesa profonda fatto di sguardi, fedeltà e amicizia. Fin dal 1925 data di costituzione del primo reparto cinofili della Pubblica Sicurezza, i cani hanno accompagnato la vita della nostra Istituzione decretando così la loro insostituibile presenza nei ranghi della Polizia.
In questa pagina troverete i video con le storie di alcuni cani poliziotto e dei loro conduttori, che si son resi protagonisti di vicende e operazioni di Polizia. Seguite ogni domenica, a partire dal 1° dicembre, alle 13,40 sul tg 5 nella rubrica "l'Arca di Noè" le storie di Ares, Amper, Kira e tanti altri nostri "colleghi".
Matteo e Leo insieme sono specializzati nella ricerca di persone scomparse in superficie e sotto le macerie. Nel 2016 ad Arquata del Tronto, Leo e Matteo hanno salvato una bambina rimasta sotto le macerie della sua casa dopo il sisma che ha colpito il centro Italia.
La sicurezza è il loro mestiere: Kira e Donato sono un’unità cinofila antiesplosivo e lavorano all’aeroporto di Malpensa.
(dal sito https://www.poliziadistato.it/articolo/cani)