Possiamo cominciare dicendo che la cultura dell’immagine sta attraversando una nuova rivoluzione, dopo quella segnata dalla riproducibilità fotografica da cui è nato il cinema: questa rivoluzione riguarda le tecnologie elettroniche e digitali. Esse consentono di produrre simulazioni ad altissima definizione senza ricorrere al supporto fotografico tipico del cinema. Ciò che a noi interessa è la sfida che queste tecnologie sembrano lanciare al modello narrativo e drammaturgico che si è imposto attraverso il cinema.
La forma narrativa è l’aspetto fondamentale del cinema: noi andiamo al cinema per vedere delle storie; tuttavia, sembra che la rivoluzione digitale abbia iniziato a contrastare la vocazione narrativa del cinema contrapponendole un’estetica del videogame. Tale estetica è quella per cui non si va al cinema per seguire una storia, bensì per abbandonarsi all’emozione del videogioco, alla sola attrazione verso le immagini e gli “effetti speciali”. Sembrerebbe allora che l’Estetica del videogame sia sostanzialmente un’estetica antinarrativa.
Il cinema narrativo può reagire in diversi modi a questa rivoluzione:

  1. ignorando il problema;
  2. resistendo alla penetrazione delle nuove tecnologie;
  3. cercando di rendere le nuove tecnologie funzionali al racconto.

Ci sembra che quest’ultima ipotesi sia la più ragionevole, se il cinema vuole salvare la sua natura di esperienza narrativa. Ma in quanti film si fa un uso esplicitamente narrativo delle nuove tecnologie? A suo tempo, una significativa eccezione era costituita da Robert Zemeckis ed i suoi Roger Rabbitt, La morte ti fa bella Forrest Gump; ma pare che alla fine anche lui si sia adattato più alla componente spettacolare.

In verità, sembra che stia accadendo qualcosa di simile a ciò che accadde col sonoro: molti tra i migliori registi andarono in crisi, tant’è che solamente due di loro rimasero grandi anche dopo l’avvento del sonoro (Ejzenstejn e Bunuel). A suo tempo, però, il cinema si orientò verso la soluzione più semplice: il cinema parlato, recitato, musicato. Le possibilità offerte dal cinema audiovisivo, cioè un cinema che faccia un uso autonomamente costruttivo della colonna sonora, rimase inesplorata. Anche oggi non ci sono moltissimi film che lavorino in questo senso.
Ma per parlare di questo problema, occorre spiegare che cosa si intende per cinema narrativo: con questa espressione, ci riferiamo ad un modo autonomo di raccontare che è proprio del cinema. Una narrazione che non è traducibile nel linguaggio letterario. Due esempi sono La stanza del figlio Dancer in the dark: il primo è quasi interamente traducibile, mentre il secondo andrebbe del tutto perso. Ciò che resta fuori dalla traduzione sono tutti quegli elementi nei quali il racconto si avvale di risorse multimediali, quando cioè il film non racconta con parole e azione bensì con la forma: suono, luce, colore. Nel caso di Dancer in the dark, tutto il film racconta: basti pensare ai rumori, specie quelli della scena della fabbrica, che fanno cambiare statuto all’immagine.

Ecco la tesi che si vuole proporre: il cinema assurge ad esperienza narrativa autonoma quando rende funzionale, sul piano narrativo e drammaturgico, la sua natura multimediale. Quindi la multimedialità non è un nemico del cinema narrativo, bensì è il suo alleato principale; anzi, il cinema narrativo nasce proprio dalla scoperta di poter utilizzare in modo funzionale alla narrazione tutte le risorse della sua natura multimediale. Il primo ad accorgersene fu Ejzenstejn, che chiamò questa caratteristica del cinema drammaturgia della forma. Anche un’altra espressione ci sarà utile, molto diversa, attribuibile a Dziga Vertov.
Ejzenstejn espone questo concetto nella Teoria generale del montaggio: il rapporto tra montaggio e narrazione non può essere studiato osservando solo il mezzo cinematografico, ma deve essere indagato più “a monte”, nel contesto di una “Teoria generale del Montaggio”. Nell’opera di Ejzenstejn, datata 1937, si illustrano due movimenti:

  1. una tesi storiografica (una suddivisione della pratica del montaggio cinematografico in 3 periodi);
  2. una proposta teorica, vale a dire una distinzione tra rappresentazione e immagine.

Vediamo questa distinzione: io posso rappresentare in molti modi una “barricata”, ma una buona immagine di una barricata sarà quella che mi restituisce - sul piano dell’espressione - qualcosa di fondamentale del suo contenuto. Per ottenere ciò, devo quantomeno decostruire il dato rappresentativo e rimontarlo in modo nuovo.
L’immagine nasce da questo smontaggio e rimontaggio del dato rappresentativo: per esempio, in una “barricata” l’insegna di una panetteria, che di solito si trova in alto, starà in basso e rovesciata; la rappresentazione ha incorporato in sé il senso di stravolgimento dell’ordine abituale delle cose e lo fa vedere: per questo è un’immagine.
La tripartizione della storia del montaggio cinematografico è molto semplice: si tratta di capire in che modo nel cinema sia stato concepito questo nesso tra rappresentazione e immagine, tra decostruzione e ricostruzione. Dice Ejzenstejn: nella prima fase, montare significava comporre l’inquadratura; nella seconda fase, montare significava mettere in rapporto inquadrature diverse ed intervenire sul ritmo della loro successione; nella terza fase, si tratta di risolvere la questione del montaggio tra suono ed immagini in quanto il montaggio è oramai montaggio audiovisivo.

Bisogna soffermarsi su un punto: il principio di montaggio inteso come decostruzione e ricostruzione non è un procedimento esclusivamente cinematografico: Ejzenstejn dimostra, con numerosi esempi, che esso è all’opera in Letteratura, in musica, in teatro, in pittura; per esempio, nel leggere un quadro, noi lo segmentiamo sempre in elementi principali che poi rimontiamo in una nuova unità. Se un’opera pittorica ha un significato, se colpisce lo spettatore, essa è il risultato di uno smontaggio e di un rimontaggio. Ejzenstejn fa l’esempio del quadro di Serov, che è un ritratto della celebre attrice Ermolova: se il quadro comunica un senso di spiritualità, non lo fa certo grazie all’utilizzo di mezzi espressivi, ma grazie a mezzi compositivi, cioè al montaggio. Vi è una sorta di scansione in piani (dalla figura intera fino al primissimo piano) che costringe l’attore ad osservare dall’alto verso il basso (appunto, come se ci inchinassimo).

Quindi il montaggio esiste in tutte le arti ed affonda le sue radici già nell’utilizzo del geroglifico. Ma allora qual’è la peculiarità del cinema? Per Ejzenstejn, il cinema è l’unica arte capace di coinvolgere la più grande eterogeneità di elementi percettivi in un’immagine significante. Il montaggio cinematografico, quindi, non combina solamente elementi visivi (ed Ejzenstejn rimproverava i colleghi Kulesov, Pudovkin e Vertov) ma tutto l’apparato audiovisivo. “Drammaturgia della forma”, allora, significa che qualunque elemento - spazio, luce, suono, colore, parola ecc. - può caricarsi di significati e di emozioni utili ad articolare il racconto cinematografico.
Attraverso numerosi esempi - da Il vecchio e il nuovo Ottobre - Ejzenstejn dimostra che il cinema nasce multimediale ed il racconto cinematografico deve imparare a servirsi sempre di questa multimedialità.
Tocchiamo ora l’altro punto: la teoria dell’immagine e del montaggio di Dziga Vertov. Il cinema può sviluppare questo progetto di “multimedialità” sul piano narrativo; ma può anche capitare che il cinema si orienti verso la sua natura multimediale per farne un oggetto di racconto. Scopriamo così una cosa molto importante di cui si parla e si è parlato troppo poco: il cinema ha scelto questa strada molte più volte di quanto si pensi, spesso anche in modo istintivo. Il cinema, cioè, accorda molto spesso alla sua multimedialità il compito di narrare.
Esempi sono Blow UpBlow OutLisbon Story; ma pensiamo all’inserimento narrativo dell’elemento “pittorico”  (Deserto rosso, Paris Texas), di quello “teatrale” (Vanja sulla 43° strada, Teatro di guerra) o quello “televisivo” (Videodrome, Strade Perdute, Truman Show), ed ancora quello “fotografico” (Shining, La doppia vita di Veronica). Tutti questi esempi fanno nascere il sospetto che non si tratti di una scelta bensì della natura stessa dell’immagine.

Di questo fenomeno troviamo un’efficace spiegazione nella teoria di Vertov: Vertov voleva un cinema delle “cose stesse”, della “realtà”; condannava il cinema che si rifaceva ai modelli letterari o teatrali, contrapponendovi il progetto di un cinema non-recitato. L’idea di Vertov può essere riassunta così: da un lato abbiamo l’idea del Kinoglaz (cineocchio), inteso come “la vita colta sul fatto” e dall’altro abbiamo l’idea dei film che producono film. Il “cineocchio” esplora le cose della vita ponendosi esso stesso come parte di quella realtà (quindi opponendosi al documentarismo o al cinema-verité); il cinema ha un suo modo di rappresentazione che non è originario ma derivato da altre forme, quali arti figurative, teatro, letteratura. Vertov fu tra i primi a pensare al cinema in termini di “audiovisivo”, anche se non esisteva ancora la possibilità tecnica di realizzarlo. Egli inizia a sperimentare queste idee nel suo cinegiornale, il Kinopravda (cinegiornale della verità delle cose), che mostrava una verità delle cose che si presentavano come “verità cinematografiche”. Per Vertov, lo spettatore del cinema non-recitato era uno spettatore consapevole della finzione: anzi, a ben vedere l’idea di Vertov era quello di “cinematizzare” - cioè “alfabetizzare” - gli spettatori, educandoli al cinema.

Vertov sperimentò per dimostrare - e lo fece attraverso L’uomo con la MdP - che il cinema mette in gioco una doppia visione: cosa vista ed atto di vedere. L’immagine cinematografica è un’immagine intimamente sdoppiata, cioè presenta una cosa “vista” e contemporaneamente un “atto di vedere”. Vertov ha mostrato che se la relazione tra realtà e simulazione, tra dato e costruito, è costitutiva dell’immagine, allora il cinema sembra avere la capacità di lavorare nell’intervallo tra i due.
La risposta del cinema all’estetica del videogame riguarda la piena valorizzazione del potenziale dell’audiovisivo, di cui si era consapevoli fin dall’inizio. Insomma, se il cinema racconta in modo autonomo, lo fa sfruttando creativamente la propria multimedialità; inoltre la natura doppia dell’immagine cinematografica apre tutto un campo di soluzioni narrative in cui la multimedialità entra a far parte del racconto, facendo in modo che sia proprio il conflitto o la multimedialità a configurare la narrazione. Così si aprono nuove possibilità di interazione tra immagine cinematografica ed immagine elettronica: ampio spazio alle sperimentazioni.

 

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