Nell’immediatezza del pomeriggio di sabato, dinanzi agli investigatori e soprattutto alle psicologhe, non ci sono state lacrime non essendoci dapprima stato un pentimento. Una posa da dura del resto già evidente nella premeditazione dell’agguato a ripetuti colpi di forbice (contro testa, volto e braccia) da parte di questa 13enne e della complice, coetanea come la vittima, nonché nella successiva loro fuga dal parco della trappola, Castelbelforte, 3 mila abitanti nella provincia mantovana verso il Veneto.
♥ dalle Idee alle Sceneggiature • Idee dalla realtà
La morte arriva e dice che è il tuo momento, ma se lo batti in una partita in un gioco a tua scelta puoi vivere. Quale gioco scegli? Non si può vincere contro la morte ad un gioco di abilità. È un essere soprannaturale, non c'è competizione. Quindi scelgo il tris.
Dopo trentamila partite che finiscono identicamente in un pareggio si stanca e mi lascia vivere.
di Pierangelo Treccani per quora.com
Adriano Celentano pubblicò una canzone negli anni '70 completamente senza senso, pensata esclusivamente per suonare come l'inglese americano, tutto ciò per dimostrare come agli italiani piacesse qualsiasi canzone inglese, a prescindere dal testo, parole e relativo significato. La canzone, intitolata ‘Prisencolinensinainciusol’, è stato uno dei suoi più grandi successi, ed è ancora oggi una delle più famose tracce della musica italiana degli anni ‘70.
Avevo 20 anni e all'epoca lavoravo in un famoso bar dell'Eur come banconista.
Si avvicina un tizio, all'apparenza molto distinto e mi fa:
"Mi da una pastarella?"
"Buongiorno signore, per cortesia, dovrebbe fare prima lo scontrino alla cassa"
"Oh, che ti credi che vado via senza pagare? Dammi una pastarella al cioccolato"
"Assolutamente no, signore, io credo che lei pagherà, ma prima di consumare, mi deve portare lo scontrino, per piacere.
"TU NON SAI CHI SONO IO!"
"Sinceramente, no, ma anche se lo avessi saputo, non le darei la pastarella finché lei non mi presenta lo scontrino."
"IO SONO UN MAGISTRATO, TI FACCIO CACCIARE VIA, DIMMI DOV'E' IL PRINCIPALE"
"Lo trova alla cassa del ristorante, cerchi del Signor Tonino."
Dopo un minuto, rientra il tizio, seguito dal proprietario, che comincia a sbraitare"
"Il suo dipendente non mi ha servito quello che gli avevo chiesto!"
Il proprietario mi guarda e mi fa:
"Paolo, per piacere, servi al signore quello che ha chiesto."
Prendo la pastarella, la metto sul piattino con tanto di tovagliolo, e il tizio insiste:
"Lo deve mandare via, è un maleducato"
E il signor Tonino, con molta determinazione disse:
"No, non lo mando via, ha fatto esattamente quello che gli ho sempre detto, mai servire nessuno che non abbia lo scontrino. Per cui, questa pastarella è offerta dalla casa, si prenda il caffè e la smetta di dire ai miei dipendenti come si devono comportare, perché quello è compito mio."
Stranamente, non lo vidi più.
di Paolo D'Andrea per quora.com
Facebook, Twitter, TikTok, Instagram o qualsiasi altra piattaforma, non importa: niente social fino ai 15 anni. È una proposta di legge. Come riportano alcuni quotidiani locali, secondo la Commissione nazionale per l'informatica e le libertà (Cnil), in Francia la prima registrazione sui social network avviene, in media, a 8 anni e mezzo, e vi si iscrivono più della metà dei 10-14enni. L’appello lanciato dal deputato Laurent Marcangeli è principalmente rivolto ai genitori che, a suo dire, spesso non si rendono conto dei rischi che i propri figli corrono navigando sui social fin da così piccoli.
da lastampa.it
Un giudice spagnolo ha ordinato all'ex partner di condividere la custodia del proprio cane. La motivazione? L’animale domestico ha il diritto di vedere entrambi. La coppia aveva divorziato e, come spesso accade, le due parti si stavano contendendo la custodia dell’animale. La sentenza ha chiarito: per non compromettere il livello emotivo e psicologico del quattro zampe occorre che ognuno dei due ex compagni trascorra del tempo e accudisca il cane.
Una decisione che ha scatenato il dibattito sui social media, con commenti e reazioni diverse, molte volte opposte. Era stata la donna ad avviare la causa per determinare chi avrebbe dovuto tenere in modo permanente e definitivo l'animale domestico. La sorpresa, anche per l’ex fidanzato, convinto di poter disporre del quattro zampe per sempre, è stata grande. Il giudice di Madrid ha inoltre deciso che il cane dovrà vivere in periodi alternati di un mese con ciascuno dei due.
"La proprietà condivisa di Panda (questo il nome del cane, ndr) – chiarisce la sentenza - è determinata per ciascuno dei caregiver e delle parti responsabili poiché l'affettività che una persona può avere per il proprio animale domestico non esclude che possa non essere parificata a quelle di altre persone”.
da lastampa.it
“Ho lasciato l’Italia dopo il diploma, convinto che non sarei mai più tornato. Invece dopo 13 anni ho scelto di avviare la mia nuova attività proprio nel nostro paese perché mi sono reso conto che, messi sulla bilancia, i suoi pregi superano i difetti”. Fabio Fasolo è un imprenditore, veneto ma nato in Puglia, classe 1988, che alcuni mesi fa ha venduto le quote della sua azienda in Vietnam per tornare in Italia e lavorare come travel designer per i clienti asiatici. Una scelta, quella di lasciare il fiorente sud-est asiatico, presa insieme a sua moglie, originaria di Taiwan. “Il motivo principale è l’inquinamento, vogliamo vivere in un paese in cui far crescere una famiglia. In Italia vogliamo creare una rete che offra al mercato asiatico esperienze culturali e culinarie alternative alle grandi città, come la riscoperta di antichi borghi”.
Fabio aveva deciso di andarsene con la crisi del 2008. “All’epoca tentai di cercare lavoro dopo il diploma ma rimasi veramente deluso”. Così dopo un colloquio di lavoro andato a buon fine è andato a lavorare negli Stati Uniti, a Orlando, in un ristorante nel parco Disney come cameriere. E, iniziata la gavetta, non si è più fermato: prima sulle navi da crociera nel mar dei Caraibi, poi ad Hong Kong, il suo primo lavoro da assistente manager in un ristorante e club di lusso. “Dopo tre mesi il general manager mi portò con lui a Singapore, al famoso Marina Bay Sands, in un nuovo ristorante. Il fatturato era da capogiro”, ricorda. Una gestione talmente di successo che il brand viene comprato da Louis Vuitton, per replicarlo in tutta l’Asia. Fabio ritorna ad Hong Kong come responsabile per aprire un’altra sede, poi va a Taiwan per creare da zero una rete di ristoranti e servizi food italiani per un imprenditore americano. E ancora in Spagna e di nuovo nel sud-est asiatico, in Vietnam, dove ha aperto un’attività di torrefazione da imprenditore. “Ho da sempre la passione del buon caffè e il Vietnam è il secondo produttore mondiale, oltre che uno dei paesi a più alto tasso di espansione economica nel mondo”.
Le cose vanno bene, anche con le difficoltà della pandemia. “Ci sono paesi nel sud-est asiatico, il Vietnam in testa, che crescono come la Cina degli anni ottanta o l’Italia del dopoguerra. Il mondo del lavoro è dinamico, ci sono molte opportunità e se vuoi avviare un business e fare i soldi sono i paesi su cui oggi si può puntare”. Non è un caso che tra le nuove “tigri asiatiche” siano annoverate Vietnam e Cambogia . “Se uno è curioso a livello gastronomico e culturale è una regione molto interessante. L’Asia dopo l’Europa è il continente con più varietà di ricette e di prodotti usati a livello culinario. Dal punto di vista turistico ci sono tantissime cose da vedere, anche naturali”. Ma c’è un prezzo: “Inquinamento e corruzione. Il primo è stato il principale motivo per cui abbiamo scelto di non costruire lì la nostra vita – afferma Fabio –. Perfino in Cina inizia ad esserci attenzione sul tema ambientale, soprattutto nelle grandi città. Sono rimasto sorpreso dalle tante iniziative politiche dell’ultimo decennio. In Vietnam, invece, a livello ecologico c’è la totale anarchia”. E la corruzione è radicata e stratificata, come in alcuni paesi sud-americani. “Una volta – racconta Fabio – ero alla dogana dopo un viaggio in Cambogia, benché avessi tutti i documenti in regola non volevano farmi rientrare, finché, e me ne vergogno, non ho messo dieci dollari nel passaporto”.
I coniugi Fasolo avevano valutato varie opzioni oltre l’Italia. “Singapore, Inghilterra, Canada, Stati Uniti e Svizzera. Ma ci sono dei punti di forza che solo il nostro paese possiede: qualità della vita, buon clima, cultura e gastronomia – evidenzia il giovane imprenditore –. Anche la nostra sanità pubblica, con tutti i suoi difetti, è ancora lì e questo è un fiore all’occhiello rispetto molte altre nazioni. Abbiamo un minino di fondo pensionistico e un know-how da preservare ed esportare”. C’è solo un problema che Fabio non riesce a mandar giù: “Siamo rimasti indietro sulla burocrazia, anche rispetto ai nostri vicini”. Un esempio? “Per me e mia moglie, che è taiwanese, è stato più semplice sposarci online negli Stati Uniti e farci riconoscere il matrimonio in Italia, che farlo qui”. Altro problema italiano è l’alta tassazione che non sempre corrisponde ad un’alta qualità dei servizi. “Posso fare un esempio proprio con Taiwan dove con una tassazione più alta e a scaglioni, rispetto ai suoi vicini, corrisponde un’alta resa dei servizi. Io prendevo un bello stipendio e non ero dispiaciuto di pagare molte tasse”, sottolinea Fabio.
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dall'articolo di Marco Vesperini per IlFattoQuotidiano.it
Alla Gioia dei Bimbi è stato uno dei primi negozi in Italia a dedicarsi al modellismo importando la moda dalla Germania. "Noi eravamo le assistenti di Babbo Natale: ma oggi non si gioca più". Franca e Rita da settant’anni sanno che la felicità si compone un pezzo dopo l’altro, e sta tutta nell’attesa di quello che non hai ancora. L’intuizione fu della loro madre, Iolanda Ginocchio: italiana emigrata ad Amburgo, poi rientrata a Genova dopo la guerra “per ricominciare da zero”, aveva visto in Germania quei magnifici trenini da collezione: laccati, luccicanti, meccanismi perfetti che evocavano viaggi, pianure e colline da attraversare, ponti da superare, interi universi di storie in miniatura.
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Articolo di Erica Manna per Repubblica.it
È finita in ospedale con in volto i segni inequivocabili delle violenze e l’unica colpa di essersi mostrata in un video di TikTok senza il velo. Una ragazzina di 16 anni di origini egiziane è stata aggredita ieri pomeriggio dal padre che, saputo del video da alcuni parenti, appena rientrata a casa l’ha insultata, minacciata e picchiata violentemente.
La storia arriva ancora una volta da Brescia, già nota per alcuni casi di mancata integrazione e violenza nei confronti delle figlie da parte dei genitori di fede musulmana: la morte di Sana Cheema, la 25enne pakistana uccisa nel 2018 dopo essersi ribellata alla volontà della famiglia di sposare un cugino e per il cui omicidio sono indagati padre e fratello; e la condanna a cinque anni in primo grado lo scorso dicembre, per un padre, una madre e un fratello, pakistani, accusati di aver combinato il matrimonio della figlia.
Ieri è stata la 16enne a chiedere aiuto, secondo quanto ricostruito dai carabinieri, con un messaggio WhatsApp inviato ad un’amica che ha poi contattato il 112. Militari e soccorritori hanno trovato la ragazza sotto choc con in volto i segni evidenti delle botte ricevute davanti alla madre e alle sorelline. «Mi ha detto che voleva ammazzarmi», avrebbe riferito agli inquirenti la studentessa, cresciuta a Brescia con la voglia di vivere come le amiche e finita in ospedale con due settimane di prognosi. Tolta alla famiglia, è stata presa in carico da una struttura protetta, mentre il padre è stato denunciato a piede libero.
Articolo di SALVATORE MONTILLO per lastampa.it
È ispirato alle esperienze reali delle bambine e dei bambini con cui Save the Children lavora ogni giorno, ‘Home’, il cortometraggio che racconta lo stato d’animo dei piccoli rifugiati lanciato a un anno dall’inizio della guerra in Ucraina dall’organizzazione e dallo studio d’animazione Aardman Animations, vincitore del premio Oscar e autore di film cult come ‘Wallace & Gromit’, ‘Shaun, vita da pecora’ e ‘Morph’. Il lavoro, firmato dal regista Peter Peake, mostra cosa significa vivere separati dagli amici, dalla famiglia e dalla scuola e trovarsi da un momento all’altro in un ambiente nuovo e sconosciuto, ma celebra anche la possibilità che questi bambini hanno di accogliere nuovi amici e di conoscere culture diverse.
Qui il link per vedere il Cortometraggio "Home"
Il prezzo pagato dai bambini – Anche questo fa parte del pesante tributo pagato dai bambini in un anno di guerra, raccontato di recente nell’ultimo report di Save the children e che parla di 438 bambini uccisi e 851 feriti. Diverse, infatti, le storie che hanno ispirato il corto, come quella di Noura, 12 anni, siriana: “Siamo rifugiati, ma siamo orgogliosi. Non siamo finiti qui perché lo volevamo, ma perché abbiamo dovuto farlo. Se avete un rifugiato vicino a voi, penso che dovreste cercare di accoglierlo”.
Il corto sui piccoli rifugiati – La storia di “Home” è raccontata senza dialoghi, in modo che il messaggio sia accessibile a bambini e adulti di tutte le età, ovunque. “Un piccolo cerchio arancione che arriva in una nuova scuola in un mondo interamente viola abitato da personaggi triangolari viola. Il cerchio arancione si sente subito fuori posto – racconta Save the children – in difficoltà con la lingua e il nuovo cibo, ma grazie all’amicizia che sboccia con un compagno di scuola, il cerchio inizia a sentirsi accolto e accettato. A mano a mano che ciò accade, piccole esplosioni di arancione iniziano a comparire nell’ambiente viola, elevando il paesaggio a un ambiente più ricco, caldo e diversificato”. Il film mostra poi diversi personaggi di tutte le forme e tonalità, trasformando il tutto in un mondo pieno di energia e di colori.
Il regista: “Speriamo che spinga a immedesimarsi in questi bambini” – Il cortometraggio dura quattro minuti e nasce con l’obiettivo di sostenere i milioni di bambini costretti a lasciare le loro case a causa della violenza, non solo in Ucraina, ma anche in Paesi come Afghanistan, Yemen e Siria. “L’animazione è un mezzo straordinario per esprimere idee che altrimenti sarebbero difficili da comunicare – spiega Peter Lord, cofondatore e direttore creativo di Aardman – e noi speriamo che il film incoraggi i bambini di tutto il mondo a immedesimarsi in alcuni loro coetanei che potrebbero vivere un’esperienza simile”.
Articolo di Luisiana Gaita per ilfattoquotidiano.it
Oggi gli esiti degli accertamenti saranno inviati al Tribunale dei minori che ha giurisdizione, quello di Brescia. La non imputabilità delle ragazzine rende difficile prospettare eventuali misure ma rimangono la gravità dei fatti e certe frasi pronunciate dalla principale assalitrice («Se lo meritava») insieme al suo evidente disinteresse per le condizioni della vittima, appunto lasciata a terra sanguinante, a invocare aiuto, e trasferita in elicottero nell’ospedale di Verona. Che la ragazzina ferita non sia in pericolo, anche se ieri mattina ha subito un delicato intervento chirurgico, è stato soltanto un fatto casuale: centimetri, o anche meno, e sarebbe stata uccisa.
Circa il movente, in una vicenda per forza di riserbo e massima protezione delle protagoniste, non sembrano esserci dubbi sull’invidia, sulla rivalità, forse sull’autentico odio che da tempo alimentava propositi di vendetta e non aspettava che un’occasione. Al riguardo, a Castelbelforte si evidenzia più la differenza di voti, ma gli investigatori invitano a considerare, magari sì in aggiunta all’ottimo rendimento scolastico nella classe di terza media di una e non delle altre due, una storia di fidanzatini. Ovvero di simpatie di un amico per la 13enne colpita anziché per l’assalitrice (la complice avrebbe ammesso spiegando d’essere stata costretta ad agire, una versione comunque sotto verifica). Dopodiché, conviene inquadrare degli elementi generali per contestualizzare: ad esempio la vita di paese, che specie nell’adolescenza molto regala in termini di protezione e di spazi, ma che allo stesso tempo molto toglie alimentando l’inquietudine, anche se Castelbelforte è un luogo pacifico, amministrato con intelligenza: insomma poteva succedere qui come ovunque altrove, non è questo ad essere dirimente. E non lo è, volendo per forza fare della sociologia da dilettanti, la ricerca obbligata di fattori decisivi nelle famiglie poiché parliamo di italiani con lavoro e casa, all’apparenza privi di «problemi concreti».
I carabinieri ci ricordano poi l’assenza, nel passato delle assalitrici, di episodi violenti o di insofferenza. Nella testa delle ragazzine, o almeno in una di esse, la coetanea andava punita infliggendo terrore e dolore, forse la morte, sennò s’ignora il motivo delle forbici portate da casa.
articolo di Andrea Galli per Corriere.it
Hai già visto film al cinema od in televisione.... ma non hai ancora chiaro come trovare un’idea da sviluppare e trasformare in una tua sceneggiatura, certo non puoi rifarti integralmente con quello che hai visto al cinema od in tv, ma trovare qualcosa di ben chiaro, preciso e definito che sia solo tuo, è difficile ma non impossibile.
Trovare una grande idea per una tua sceneggiatura.
Non è semplice? ma tu mentre vivi la tua vita quotidiana, vedi quello che fai? come ti comporti? osservi quello che accade intorno a te? cosa vedi nella tua famiglia, tra i tuoi parenti? cosa pensi quando i tuoi amici ti raccontano le loro "avventure di vita" o fanno qualcosa che tu non prevedevi? Se hai voglia di raccontare una storia basta guardarti intorno e vedrai che le idee non ti mancheranno.
Vuoi altri spunti? basta aprire un quotidiano, leggere gli articoli, qualcuno ti colpirà sicuramente... idem per i telegiornali, anche quelli regionali, con notizie più vicine al tuo mondo... oppure basta navigare tra le migliaia di parole e foto e video del web....
Ah, ora capisci che di idee da raccontare ne avresti in testa fin troppe...?
Un'idea è questa: un tizio a corto di ispirazione scrive su un noto social se c'è qualcuno che possa suggerirgli un paio di buone idee per un film. Riceve privatamente un soggetto interessante dal quale sviluppa una sceneggiatura che poi diventa un film di successo. A questo punto chi gli aveva inviato il soggetto si fa vivo reclamando una parte degli utili. Non riuscendovi porta lo sceneggiatore davanti al giudice accusandolo di plagio, ma non avendo alcuna prova a suo sostegno non ottiene nulla, ma deve invece difendersi da una querela per diffamazione avanzata dallo sceneggiatore. Vedendo che non può prevalere, il soggettista si ritira a vita privata passando il tempo a scrivere acide risposte su quel noto social e sperando di trovare l'occasione di poter raccontare la sua incredibile storia.
di Luigi Sgreva per quora.com
L’auspicio del ministro Schillaci: tra vent’anni una generazione libera dal tabacco. Ma tra gli adolescenti dipendenza in salita L’obiettivo è quello di arrivare entro il 2040 con una generazione quasi del tutto libera dal consumo di tabacco. È questa la prospettiva in vista della quale il Ministro della Salute, Orazio Schillaci, ha annunciato la prossima introduzione di misure più severe contro le sigarette tradizionali e i nuovi prodotti a base di tabacco riscaldato e nicotina. In particolare, diventerà vietato fumare nei luoghi all’aperto, “in presenza di minori e donne in gravidanza” e verrà meno “la possibilità di attrezzare sale fumatori in locali chiusi”. Le norme previste potrebbero essere applicate già dalle prossime settimane tramite un emendamento al decreto Milleproroghe sul Piano oncologico nazionale, dato che le misure annunciate si inseriscono all’interno del Piano europeo contro il cancro 2021. Il provvedimento arriva a vent’anni esatti dalla legge Sirchia con cui venne introdotto il divieto di fumo nei locali pubblici, a seguito della quale era stata evidenziata una riduzione del numero di fumatori e dell’incidenza di molte patologie, specialmente quelle cardio e cerebrovascolari.
Nel 2022 però il consumo ha avuto un incremento del 2% rispetto alla rilevazione precedente, quella effettuata nel 2019, prima dell’arrivo della pandemia. Secondo i dati forniti dal Ministero della Salute, nell’anno appena trascorso quasi un italiano su quattro, e precisamente il 24% della popolazione, consuma fumo, sia che si tratti delle cosiddette bionde o di tabacco sfuso. Un trend che è in ripresa dopo anni di calo, mentre è in costante aumento il numero di persone, specie i giovanissimi, che fumano sigarette a tabacco riscaldato: dall’1,1% del 2019 si è passati al 3, 3% del 2022. Prodotti che, insieme alle sigarette elettroniche si sono aggiunti, negli ultimi anni, alle sigarette tradizionali e che vengono considerati meno pericolosi dal 36% dei fumatori, verso i quali occorrono invece interventi di monitoraggio e prevenzione perché si tratta di articoli tutt’altro che innocui. Vale allora la pena ricordare che il fumo resta la principale causa di malattie e di mortalità in Italia. Circa 93 mila morti all’anno sono attribuibili al fumo che causa il 20,6% dei decessi tra gli uomini e il 7.9% tra la popolazione femminile.
A proposito di prevenzione, la Società Italiana di Igiene, Medicina Preventiva e Sanità Pubblica (Sltl) intende appoggiare le misure annunciate dal Ministero della Salute e proporsi come interlocutore per l’attuazione di strategie di contrasto che comprendono campagne di informazione a iniziative di formazione per i cittadini, con particolare attenzione verso i giovani. Su norme di vendita e consumi giovanili si è concentrata la ricerca recente realizzata da Euromedia Research. “Verifica dell’età per il divieto di vendita di prodotti da fumo e inalazione ai minori. Le percezioni dell’opinione pubblica nella Città Metropolitana di Milano”. Si tratta di un sondaggio voluto da Federazione Italiana Tabaccai (Fit), Adiconsum e Moige, nell’ambito della campagna di informazione e sensibilizzazione sociale “La responsabilità è un gesto normale”, patrocinata dal Comune di Milano. Lo studio si è basato su 1.500 interviste rivolte a cittadini residenti nella Città Metropolitana di Milano dai 16 anni in su.
93mila
Morti attribuiti ogni anno al fumo
20,6%
Morti attribuiti al fumo tra gli uomini sul totale dei decessi
7,9%
Morti attribuiti al fumo sul totale della popolazione femminile 2% L’aumento dei fumatori nel 2022 rispetto all’ultima rilevazione del 2019
24%
Italiani di ogni età dediti regolarmente al fumo (in aumento giovanissimi e donne)
3,3%
Coloro che fumano sigarette a “tabacco riscaldato” (nel 2019 erano l’1,1%)
82%
Cittadini consapevoli che la legge vieta la vendita di tabacco ai minori (sondaggio Fit, Adiconsum,Moige)
60%
Cittadini che si aspettano un’applicazione più rigorosa del divieto di vendita di sigarette ai minori (idem)
14,4 %
Ragazzi che dichiarano di fumare regolarmente
32%
Ragazzi che hanno cominciato a fumare tra i 14 e i 15 anni
42%
Ragazzi che hanno cominciato a fumare tra i 16 e i 17 anni
La rilevazione, che ha coinvolto non solo i giovani ma anche gli adulti, aveva proprio questa finalità: capire quanto si conosce oggi il divieto di vendita ai minori di sigarette e delle cosiddette e-cig, le sigarette elettroniche. E scoprire qual è il punto di vista dei milanesi, considerato che Milano e il suo territorio da sempre anticipano i trend dei consumi nazionali. I risultati sono eloquenti. Oltre il 60% dei cittadini del capoluogo lombardo si aspetta che il divieto di vendita ai minori sia rispettato da tutti. Più precisamente l’82% degli adulti è ben consapevole che la legge vieti la vendita di sigarette, tabacco e sigarette elettroniche ai minori, ma il 58% ritiene che non venga rispettata e il 43,4% riferisce di aver assistito personalmente all’acquisto dei prodotti da parte dei giovanissimi. Una realtà confermata dagli stessi ragazzi. Il 64,9% di loro ha raccontato di episodi in cui coetanei hanno potuto acquistare senza che fosse loro chiesta l’età. Un aspetto cruciale di un fenomeno in preoccupante escalation, come confermano i numeri del sondaggio. Secondo i dati raccolti la prima sigaretta si fuma a 12 anni.
Quasi il 32% lo ha fatto tra i 14 e i 15 anni e il 42% tra i 16 e i 17. Ed è in quest’ultima fascia di età che il 14,4% dei ragazzi ammette di fumare regolarmente. Quasi un quarto del campione intervistato pensa che gli strumenti più efficaci per fare prevenzione siano le campagne informative nelle scuole e di comunicazione verso il grande pubblico. « Emerge con chiarezza l’aspettativa dei cittadini rispetto alla collaborazione, alla coralità degli sforzi diretti a prevenire l’accesso dei minori ai prodotti da fumo, la richiesta che il mondo degli adulti dia un messaggio chiaro e univoco ai ragazzi », commenta Carlo de Masi, presidente di Adiconsum. I ragazzi invece sottolineano il ruolo fondamentale che hanno genitori e scuole nel fare prevenzione. « Dai risultati raccolti dall’indagine si capisce bene come molti giovani siano fiduciosi nel fatto che sarà possibile far rispettare in toto il divieto di vendita ai minori», sottolinea Antonio Affinita, direttore generale del Moige. «
Da genitori vogliamo che sia dato riscontro a questa fiducia con misure concrete che possano impedire l’accesso dei giovanissimi a prodotti a loro vietati. Il rispetto delle norme a loro tutela deve essere sempre il valore etico di ogni esercente e di ogni acquirente», conclude Affinita, che invita all’impegno le stesse famiglie affinché «condividano percorsi educativi per richiamare i nostri figli al rispetto delle regole e a comportamenti corretti».
>Articolo di per avvenire.it
Concedeteci di usare una frase fatta, eppure talvolta non meno vera, che spesso abbiamo sentito per gravi fatti di cronaca: «Una strage annunciata». In tarda serata i sistemi colpiti e bloccati dall'attacco ransomware globale reso noto domenica dall'Agenzia per la Cybersicurezza nazionale aveva superato in tutto il mondo quota 2.100. Un numero che sale rapidamente. La vulnerabilità sfruttata dai cyber-criminali era tutt’altro che sconosciuta. La soluzione, la «patch» (toppa) come si dice in gergo, era stata rilasciata ben due anni fa, nel febbraio 2021, da VMware, l’azienda del software coinvolto. «E 3 giorni fa il Cert francese (il Centro di risposta le allerta cyber, ndr) aveva lanciato l’allarme: è stato più o meno ignorato e questo fatto è di una gravità sconcertante» ci dice Corrado Giustozzi, divulgatore ed esperto di cyber-sicurezza, partner di Rexilience. Ogni attacco informatico sfrutta sempre una vulnerabilità nel software. In questo caso quella riscontrata nei diffusi software di «virtualizzazione» della californiana VMware («virtualizzare» significa fare girare in modo simulato, via software, un programma o un sistema su un altro hardware).
In questo caso la soluzione per il problema era stata messa a disposizione da VMware ben due anni fa, nel febbraio 2021. «C’è di mezzo una catena infinita di sciatteria e disinteresse per non aver fatto gli aggiornamenti dovuti... E per di più il software in questione può essere attaccato solo se esposto su Internet, cosa che andrebbe evitata. Chi è nei guai non dico che se li è andati a cercare ma di certo non si è mosso in tempo con le contromisure» dice con amarezza Giustozzi. Tra gli oltre 2.100 server colpiti ci sono moltissime aziende e pubbliche amministrazioni (tra cui il comune francese di Biarritz, uno dei pochi bersagli trapelati al momento).
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da articolo di Paolo Ottolina per Corriere.it
Un "massiccio attacco tramite un ransomware già in circolazione" è stato rilevato dal Computer security incident response team Italia dell'Agenzia per la cybersicurezza nazionale. I tecnici dell'Acn hanno già censito "diverse decine di sistemi nazionali verosimilmente compromessi e allertato numerosi soggetti i cui sistemi sono esposti ma non ancora compromessi". Tuttavia, si spiega, "rimangono ancora alcuni sistemi esposti, non compromessi, dei quali non è stato possibile risalire al soggetto proprietario. Questi sono chiamati immediatamente ad aggiornare i loro sistemi".
Il ransomware prende di mira i server VMware ESXi. L'agenzia per la Cybersicurezza ricorda come "la vulnerabilità sfruttata dagli attaccanti per distribuire il ransomware è già stata corretta nel passato dal produttore, ma non tutti coloro che usano i sistemi attualmente interessati l'hanno risolta". Sfruttando la vulnerabilità dei sistemi operativi, gli hacker possono portare avanti attacchi ransomware che "cifrano i sistemi colpiti rendendoli inutilizzabili fino al pagamento di un riscatto per avere la chiave di decifrazione". […]
Il ransomware è un malware, cioè un "software malevolo" che cripta i file presenti sul computer della vittima, rendendoli illeggibili e non più utilizzabili senza una chiave di decifrazione che viene data dagli hacker solo dietro pagamento di un riscatto. Di solito per i privati si tratta di cifre non impossibili, tra le decine e le centinaio di euro, che le vittime di norma pagano pur di non perdere dati; nel caso di grandi organizzazioni, aziende o enti pubblici, le cifre invece possono essere molto alte.
Estratto dell’articolo da www.repubblica.it
Mettere ordine nella «giungla» degli influencer. È con queste parole che il deputato socialista Arthur Delporte presenterà in Parlamento tra qualche giorno una proposta di legge che punta a regolamentare un far west in cui si moltiplicano scandali e truffe. Dopo essere stato uno dei primi Paesi a varare una legge per il diritto alla disconnessione e aver applicato la direttiva sul copyright nei contenuti di informazione, la Francia è ancora una volta pioniera.
La proposta di legge punta a creare uno status giuridico per gli influencer e vietare la promozione sui social network e sulle piattaforme di prodotti farmaceutici, dispositivi medici e atti chirurgici, in particolare cosmetici, ad eccezione delle campagne governative di salute pubblica. Si propone anche di impedire la promozione di contratti finanziari a rischio, di alcuni asset digitali o di investimenti in libretti di criptovaluta o Nft.
L'articolo 1 definisce anche cosa sono le agenzie di influencer. In caso di inadempienza, il testo prevede una pena detentiva di sei mesi e una multa di 75mila euro. L'esame del testo della sinistra comincerà il 9 febbraio in parlamento e ha buone chance di essere approvato perché nel frattempo anche un deputato della maggioranza macronista, Stéphane Vojetta, ha deciso di far convergere un altro testo già in preparazione. […]
Estratto dell’articolo di Anais Ginori per www.repubblica.it
Non hanno nemmeno l'età per guidare un motorino, frequentano ancora le medie o addirittura le elementari, ma circa un milione di bambini e ragazzini tra i 10 e i 14 anni già si sbronza. E il 66% lo ha fatto tra i 15 e i 17 anni, quando la somministrazione di alcolici sarebbe ancora vietata. Rintanati in casa negli anni bui della pandemia, giovani e giovanissimi tornano a socializzare ma tra loro cresce la generazione dei «baby alcol», fotografata da uno studio «Espad» ancora inedito, condotto dall'Istituto di fisiologia clinica del Cnr. Un alzare di gomito in età sempre più precoce che ha effetti disastrosi per la salute ma anche nella vita familiare e affettiva di questi adolescenti.
A diciassette anni Mario è già un alcolista con un passato in una comunità di recupero. Giacomo ha quattro anni in più e il lunedì, dopo la sbornia, si sente «in colpa» perché nel weekend appena trascorso ha «picchiato mamma mentre il cervello era alterato dal gin». A quindici anni Vincenzo si ubriaca ogni sabato sera «per farsi accettare dal gruppo di amici, che bevono tutti». Storie di giovanissime vite rubate dall'alcol. «Negli ultimi 15 anni l'età di chi si rivolge a noi è calata moltissimo: è scesa di 10 anni», racconta Pasquale M., coordinatore di Alcolisti Anonimi Campania.
Secondo lo studio Espad il 46,1% degli studenti ha assunto per la prima volta bevande alcoliche tra i 12 e i 14 anni. Il 15,2% lo ha fatto persino prima degli 11 anni. «Fortunatamente nella maggior parte dei casi si tratta di approcci, tipo il nonno che fa assaggiare lo champagne a Capodanno, ma non sempre è così», spiega Sabrina Molinaro, ricercatrice del Cnr e responsabile dello studio. «Dal 2019 osserviamo infatti un aumento della percentuale di under 11 e di 12-14enni che hanno fatto abuso di alcol».
A conferma sciorina i dati dello studio: la fetta di chi consuma alcolici sotto 11 anni di età dal 2019 ad oggi è salita dal 10,5 al 15,2%, mentre ad ubriacarsi è l'1,2%. Quota che sale però al 28% quando si passa alla fascia di età 12-14 anni, dove a sbronzarsi è oltre il 5% in più rispetto a soli tre anni fa. In percentuale non sembra granché, ma considerando che tra i 10 e i 14 anni si contano oltre 2,8 milioni di ragazzini, significa che un milione di loro ha già provato l'effetto dell'ubriacatura.
Sbronze a parte, ad allarmare è soprattutto la percentuale di chi fa abuso di alcol, bevendo 20 o più volte nel corso di un mese.
Oramai lo fa il 6,1% di ragazzi e ragazzini, «la percentuale più alta mai registrata in Italia», specifica la dottoressa Molinaro. La quale rimarca anche un'altra novità del 2022: il sorpasso delle ragazze (il 78,6%) sui ragazzi (76,7%) che tra i 15 e i 19 anni hanno fatto uso di bevande alcoliche, «più frequentemente di cocktail, che per la presenza di zuccheri e per l'alta gradazione sono anche maggiormente pericolosi delle birra, prediletta dai maschi». A bere di più sono soprattutto le giovanissime tra i 15 e i 16 anni, «tra le quali è anche diffuso il fenomeno del bere e non mangiare per evitare di ingrassare. Pratica che ovviamente aumenta gli effetti deleteri dell'alcol», rivela ancora la ricercatrice del Cnr.
Ad aggravare ancor di più la situazione c'è poi il mix con energy drink e droghe varie assunte per attenuare gli effetti dell'alcol. Lo ha sperimentato almeno una volta un ragazzo o un'adolescente su tre mentre uno su dieci lo fa frequentemente. Sono facilmente immaginabili gli effetti devastanti sulla salute.
«Per rendersi conto della gravità del fenomeno basta fare due chiacchiere con i tassisti che nelle notti di venerdì e sabato riaccompagnano a casa tantissimi bambini stravolti dall'alcol dopo serate nei chioschetti e nei locali», conferma Alberto Villani, responsabile di pediatria generale e malattie infettive all'ospedale romano Bambino Gesù ed ex Cts. Il quale poi cita il dato dell'Osservatorio dipendenze di Palazzo Chigi, che tra i ricoverati in pronto soccorso per intossicazioni alcoliche ha rilevato un 17% di under 14.
«Chi ha questo tipo di problema - prosegue Villani - sono bambini ricchi e poveri, maschi e femmine, non c'è differenza.
Generalmente soggetti che vivono una profonda solitudine esistenziale. Non praticano sport, non suonano strumenti, hanno una vita vuota che riempiono con vino, birra e superalcolici».
(…)
Estratto dell’articolo di Paolo Russo per la Stampa
Il film egiziano “L’ALTRA PAR”, della durata di soli 2 minuti e 31 secondi, ha vinto il premio per il miglior cortometraggio al Festival del cinema. Il regista ha 20 anni. Il film descrive come le persone si isolano nella tecnologia e dimenticano una delle cose migliori della vita, la convivenza umana con l’amore e la fratellanza. Segue il link per la visione del cortometraggio.
https://www.farodiroma.it/wp-content/uploads/2019/09/VID-20190906-WA0005.mp4?_=1
Articolo del 06/09/2019 di Redazione de farodiroma.it
Una lettura obbligata per qualsiasi studente di comunicazione è "I media come estensioni dell'uomo (Understanding Media)”, opera classica del teorico Herbert Marshall Mcluhan (1911-1980). In uno dei modelli teorici del libro, troviamo l'affermazione – Il medium è il messaggio – in cui l'autore analizza l'efficacia tecnica della comunicazione in termini di sensibilità individuale e collettiva.
Il messaggio non è solo contenuto, ma un “massaggio psichico” che i media manifestano come sensazioni umane. Marshall Mcluhan ritiene che, a causa dell'era elettronica, l'ambiente sia sempre creato in modo nuovo attraverso i dispositivi. Le macchine creano un nuovo ambiente ispirato a un vecchio ambiente, fungendo da interfaccia per questo processo di ristrutturazione.
In una realtà in cui gli individui sono sempre più connessi, gli smartphone sono i dispositivi che ci connettono a questo processo, attirando l'attenzione umana sui loro schermi. Il corto di animazione "Vita curva”, creato dal regista e sceneggiatore cinese Xi Chenglin, fa satira alla nostra dipendenza dagli smartphone, dimostrando che il postulato di Mcluhan può avere una dimensione ridicola nella nostra società.
Il regista ha spiegato che la sua idea è nata dall'osservazione quotidiana: “Piegato è diventato il risultato del moderno sviluppo della scienza e della tecnologia. Le persone guardano i loro telefoni cellulari e tablet high-tech e si concentrano solo sul proprio palmo, alienandosi gradualmente dalla bella vita e dall'ambiente circostante. “Curved Life” è un tentativo di utilizzare l'umorismo nero per descrivere lo status quo sociale e riflettere sull'argomento.” ha spiegato.
L'animazione ha vinto il premio annuale da Accademia Centrale di Belle Arti (Cina) nel 2014 e riprende il concetto di “phubbing", termine che riunisce le parole "snobbare” (affronto) e “telefono" (telefono) per descrivere l'atto di ignorare qualcuno che utilizza uno smartphone.
Fonte: Co.CREA
Tutti noi sappiamo quanto sia fondamentale per il sistema Italia la filiera del Made in Italy. Qualche cifra: parliamo della seconda industria di questo Paese, con un fatturato di 53 miliardi di euro nel 2021 solo nel tessile e abbigliamento, con una crescita sul 2020 del +18,4%, un numero di aziende pari a 43.000 e un numero di addetti pari a 370.800. Questo quanto si apprende dai dati Istat elaborati dal Centro Studi di Confindustria Moda. Il nostro Made in Italy è fatto di tanti noti brands, alcuni ancora in mano italiana, come Armani, Dolce e Gabbana, Ferragamo, altri finiti nelle mani dei colossi francesi LVMH e Kering, come Gucci, Fendi, Bulgari, Bottega Veneta. Ma noi non siamo qui a parlare di questo, ma a parlare di chi c’è dietro questi grandi nomi: c’è una filiera di produttori, tra maglifici, concerie, calzaturifici e chi più ne ha più ne metta, enorme, che copre tutto il nostro stivale. Un know how immenso, un’artigianalità, un savoir faire che tutti ci invidiano. Ed infatti a produrre in Italia sono anche i grandi brand d’oltralpe, come Hermes, Chanel, Dior, e molti altri. Ecco che nel 2019 è nato il Gruppo Florence, con la mission di proteggere e preservare questo know how, dando man forte al tessuto della filiera produttiva grazie a tre fondi di investimento con le spalle larghe dietro, come Italmobiliare, il Fondo Italiano Investimenti e il Fondo Vam Investments di Francesco Trapani, ex amministratore delegato di Bulgari e noto conoscitore del settore. Il gruppo Florence vanta ad oggi 20 acquisizioni, coprendo già 9 regioni dello Stivale, dal Piemonte alla Puglia. Il modello di business prevede che il socio fondatore ceda l’azienda al gruppo Florence, ma rimane azionista e quindi decision maker, assieme agli altri. L’obiettivo strategico è coprire l’intera gamma produttiva. Ognuna delle aziende partner è già leader per lo sviluppo tecnico e per la produzione nel proprio segmento di prodotto. La formula del successo? La massa critica, che permette di trovare delle efficienze e risparmi, ma anche una maggiore managerializzazione. Le aziende hanno una maggiore stabilità finanziaria e una diminuzione del rischio di dipendenza da una specifica categoria prodotto. L’amministratore delegato del gruppo Florence, Attila Kiss, 55 anni, di origine ungherese, vanta una lunga esperienza nel mondo del fashion, ha una visione di lungo raggio per la tutela del Made in Italy, attività strategica per il nostro Paese. Attila ha sposato il progetto sin dalla partenza, anzi è tra gli sponsor e gli ideatori. Nel momento in cui c’è un’acquisizione, Attila parte a conoscere tutti i dipendenti dell’azienda e a coinvolgerli nella missione globale di salvaguardia del know how tecnico e culturale delle produzioni made in Italy, e così in poco più di due anni ha riunito già tante aziende per un giro d’affari di oltre 200 milioni di euro con oltre 1.000 dipendenti. Obiettivo finale la quotazione. E allora complimenti al gruppo Florence, che sia da stimolo per altre iniziative imprenditoriali a tutela del nostro Paese. L’unione fa la forza. E su questo noi Italiani abbiamo ancora tanto da imparare.
Articolo di Valentina Rainone per today.it
Gli italiani neri - cioè i cittadini che vivono, lavorano e pagano le tasse in Italia, ma hanno un colore della pelle diverso da quello della maggioranza della popolazione - incontrano molte più difficoltà nella vita di tutti i giorni, rispetto ai connazionali bianchi. Nemmeno il possesso del passaporto tricolore li protegge da pregiudizi e discriminazioni: soprattutto se hanno studiato e oggi sono, uomini e donne, medici, infermieri, maestri, educatori, smentendo così il luogo comune che li vorrebbe soltanto braccianti sfruttati, irregolari o addirittura criminali. In un Paese come l'Italia che considera il razzismo un fatto isolato, la pelle non dovrebbe avere alcuna influenza. Nessuno infatti giudicherebbe o rifiuterebbe una persona in base al colore degli occhi o dei capelli. Invece è esattamente quello che accade.
La questione riguarda oltre un milione di residenti, con cittadinanza italiana o permesso di soggiorno. Un'indagine, coordinata dall'organizzazione internazionale Amref Health Africa e curata dai ricercatori Paola Barretta e Giuseppe Milazzo dell'Osservatorio di Pavia, ha analizzato il fenomeno, raccogliendo interviste nel mondo della sanità, della scuola e della comunicazione. I risultati descrivono una nazione che, come altri Stati europei, deve ancora crescere nel suo rapporto con la realtà e con il suo passato coloniale.
Razzismo silenzioso
“Il razzismo – osservano i ricercatori, dopo aver studiato decine di segnalazioni – è spesso associato a fatti episodici, dettati da inclinazioni politiche o difficoltà psicologiche individuali, ma è assente un'analisi rispetto alle cause strutturali”. Mentre il confronto si consuma tra sedute parlamentari e dibattiti televisivi, secondo lo studio, la frattura nella società si allarga: da una parte il mito degli italiani brava gente, dall'altro i connazionali con un diverso colore della pelle – magari italiani da più generazioni – costretti a sopportare e a testimoniare quello che i ricercatori chiamano “razzismo all'italiana”: “Un quadro incompleto e distorto, che non permette di comprendere le ragioni sottostanti i fenomeni che osserviamo nella realtà e che porta, inevitabilmente, dolore e lacerazione”.
I casi di questa discriminazione silenziosa abbondano. È di pochi giorni fa la notizia degli insulti sui social, a Fagnano Olona in provincia di Varese, che hanno costretto un medico del paese, Enock Rodrigue Emvolo, 48 anni, a chiedere il trasferimento. Motivo degli attacchi la circostanza che il dottor Emvolo, arrivato da poco a Fagnano, è nero e originario del Camerun, anche se si è laureato in Medicina in Italia e si sta specializzando in chirurgia di emergenza all'ospedale di Varese.
Mettere un medico nelle condizioni di cambiare sede, con la grande insufficienza di personale sanitario, è tra l'altro un incredibile autogol. Ma la maggior parte dei casi rimane sconosciuta. A volta è una questione di occhiate: “Si nota un po' lo sguardo – racconta un'infermiera – , o la diffidenza che le persone hanno inizialmente al primo impatto, o magari quando si ritrovano in un letto di ospedale, in rianimazione e si trovano davanti una infermiera nera: un po' si vede lo shock”. Succede anche dal farmacista: “Io in farmacia mi rendo conto proprio dallo sguardo: cioè sono quasi sorpresi di vedere una persona nera con un camice bianco”.
Umiliazione a scuola
Nemmeno la scuola viene risparmiata: “Ho questa ansia di vedermi guardata come un extraterrestre – rivela un'insegnante – come una persona che è al posto sbagliato. Non ho la paura che qualcuno mi aggredisca fisicamente, ma l'umiliazione: io ho paura di essere umiliata come nera e questa paura mi segue sempre”. I neri, secondo la ricerca, vengono considerati senza alcuna ragione anche potenziali ladri: “Varie volte le persone, quando io cammino sul marciapiede – dice un educatore – si coprono la borsa con la mano o cambiano lato della borsa o si assicurano di aver chiuso la macchina... mi capitano spesso queste cose e, secondo me, l'inasprimento del razzismo è proprio perché è andato peggiorando”.
Quando poi in classe si insegna storia, le contraddizioni vengono al pettine: “Una cosa che io vorrei tantissimo che qualcuno si preoccupasse di scardinare – auspica una mediatrice culturale - è l'insegnamento della storia. Quando si arriva a un certo punto, ovvero le campagne italiane in Africa, tutto questo viene dipinto come la conquista, la vittoria... poi però nessuno parla di quelle popolazioni che sono state colonizzate. In Italia c'è stata una battuta d'arresto pazzesca da questo punto di vista. Il colonialismo in Africa, il fascismo in Africa, non se ne parla, non vengono trasmessi film, se non alcuni tipi di film che rievocano la vittoria e le gesta brillanti degli italiani. Però non si parla dei retaggi che noi ci portiamo dietro, di cosa ne è stato appunto delle donne e degli uomini che hanno subito il colonialismo o anche per esempio di che cosa è stato il madamato, il meticciato, i figli appunto di quella componente coloniale. Questo, secondo me, è uno dei grandi elementi che sono alla base dell'estrema ignoranza italiana”.
Il medico alla porta
Ricorda un medico: “Ero di guardia, sono andato in una casa e appena arrivato, ho suonato, ha aperto: ero io, di colore. Io non ho niente da comprare [dice il paziente alla porta] alle due di notte e io ho detto: guarda, non sono un vucumprà, io sono un medico”. E il paziente: “Non ti voglio, non ti voglio. Allora – continua il medico – io sono ritornato in sede, lui ha richiamato ancora in sede, ho preso la telefonata e poi sono andato lì e lui nel frattempo aveva chiamato i carabinieri dicendo: c'è uno di colore che realmente non so che cosa sta facendo in questo quartiere”.
Perfino in attesa del parto, denuncia la ricerca, capita che le mamme chiedano di essere assistite da bianchi: “Mi guarda e mi fa: adesso mi chiami l'ostetrica. Io gli ho detto: guardi signora che sono io l'ostetrica. Sorride, tra una contrazione e l'altra, e mi fa: sì, ho capito tu chi sei, ti prego adesso devo proprio spingere. Chiamami l'ostetrica”. È difficile farsi accettare per il colore della pelle anche come infermiera: “Alla fine vengo comunque considerata straniera: se sei una straniera, quindi fai l'addetta alle pulizie. Viene sempre sminuito il tuo ruolo”.
“Io credo – prosegue un'insegnante – che innanzitutto bisognerebbe formare gli insegnanti, i docenti, perché c'è proprio un vuoto formativo riguardo al razzismo, a come affrontare il razzismo, a come affrontare la diversità tra le persone”. Le conseguenze coinvolgono ovviamente gli studenti: “Questi ragazzi, pur non subendo episodi di discriminazione, è come se partissero non da zero ma da meno uno: come se dovessero dimostrare sempre qualche cosa in più degli altri”. Questa rincorsa continua è all'origine di quella che alcuni studiosi chiamano la “black fatigue”, letteralmente la fatica nera: è la stanchezza cronica che si accompagna agli sforzi quotidiani che sono richiesti a una persona nera, per mantenersi ancorata all'idea ottimista che un giorno il razzismo sarà sconfitto.
Molti intervistati evidenziano come la sottovalutazione di atti di discriminazione e di esclusione di matrice razziale sia anche frutto di un'assenza sistematica della questione dal dibattito pubblico e politico: “Tale assenza – osservano i ricercatori – unita all'inconsapevolezza della gravità delle pratiche razziste, provoca una vera e propria spirale del silenzio”. La Francia, periodicamente attraversata da forti tensioni sociali, ha affrontato le ombre culturali del suo colonialismo nel bel film di Laurent Cantet “La classe”, vincitore della Palma d'oro a Cannes nel 2008. Quello francese è anche il modello al quale l'Italia più si avvicina. Ogni Paese deve però scegliere la sua strada, che si costruisce di giorno in giorno. Purché non si nascondano i problemi: altrimenti, come spiega un'ostetrica del Niger da tempo in Italia, “è difficile avere una terapia per una malattia non diagnosticata”.
Articolo di Fabrizio Gatti per today.it
Nel 2021 in Italia sono state uccise 106 donne. "Questa volta sei arrivata tardi Chiara: la Giornata per l'eliminazione della violenza contro le donne è appena passata!". E invece no: ho deciso volutamente di lasciar passare qualche giorno per trattare questo argomento. Perchè è giustissimo "sfruttare" l'occasione del 25 novembre e l'agenda setting per concentrare l'attenzione sul tema, ma di violenza sulle donne se ne dovrebbe parlare ogni giorno, perchè ogni giorno viene commessa.
E allora parliamone. Perchè se è vero che nel 2021 le vittime di femminicidio sono state (almeno) 106, nel 2022 al 20 novembre scorso eravamo già a 104. Il 66% dei femminicidi del 2021 è stato commesso dal partner o ex partner, l'87% da un membro della famiglia della vittima. Sono dati riportati nell'Atlante dei femminicidi, una piattaforma nata per raggruppare i femminicidi commessi nel 2021 dividendoli in sottocategoria. Sfogliando la mappa interattiva, con i femminicidi che diventano cerchi colorati posizionati sulla cartina dell'Italia a seconda di dove sono stati commessi, scopriamo ad esempio che in 35 casi la vittima aveva già subìto violenze pregresse da parte del suo omicida. 10 di loro avevano trovato il coraggio di denunciare. E' il caso, ad esempio, di Ilenia Fabbri, 46enne uccisa a Faenza per mano di un sicario assoldato dall'ex marito, che la donna aveva già denunciato; o quello della 18enne Saman Abbas, uccisa a Novellara - il cui cadavere è stato seppellito e sarebbe stato ritrovato proprio nei giorni scorsi - che sette giorni prima di essere uccisa aveva denunciato (due volte) i genitori.
In tre casi le vittime erano ancora minorenni: come la 15enne Chiara Gualzetti, uccisa a Monteveglio, nel bolognese, da un 16enne con il quale era andata a fare una passeggiata che l'ha accoltellata, presa a calci e pugni e abbandonata in una scarpata. Nella maggior parte dei casi, invece, le vittime erano donne over 60: è il caso di Clara Ceccarelli, 69enne genovese uccisa dall'ex marito che le ha inflitto 115 coltellate - dettaglio davvero inquietante: la donna, perseguitata da anni dall'ex marito, temeva talmente tanto di essere uccisa che aveva già pagato le spese per il suo funerale. Se la maggior parte delle vittime sono italiane, sono tanti invece i casi delle donne di provenienza estera: come la nigeriana Victoria Osagie, 35enne uccisa dal marito a Concordia Sagittaria, nel veneziano, davanti ai tre figli piccoli, nonostante quasi un anno prima fosse stato attivato il Codice Rosso a causa di un passato di violenza domestica iniziato nel 2014 e fatto di pestaggi, ricoveri in ospedale e minacce di morte.
L'Atlante analizza anche i dati degli uomini omicidi: molti di loro sono giovanissimi. Come il 17enne condannato all'ergastolo per l'omicidio della fidanzata coetanea Roberta Siragusa, uccisa tra le fiamme a Caccamo e gettata in un dirupo. La mappa divide i casi anche in base alle "cause scatenanti": in oltre 30 femminicidi la causa associata all'omicidio è quella di una "volontà di possesso", come nel caso di Sonia di Maggio, 29enne accoltellata a morte dall'ex fidanzato a Specchia Gallone, nel leccese, mentre si trovava per strada con il nuovo compagno. Un'altra delle cause più frequenti è quella dell'"escalation di violenza": come quella subìta da Dorina Alla, 39enne uccisa a martellate a Pove del Grappa dal marito, che da anni costringeva la donna a vivere nel terrore. Nella stragrande maggioranza dei femminicidi, per uccidere è stata usata un'arma da taglio: è il caso di Filomena Silvestri, 65enne uccisa a Castrovillari dal figlio con più di 30 coltellate. In una ventina di casi, l'omicida dopo aver ucciso la donna ha tentato di depistare le indagini: come nel femminicidio di Silvia Del Signore, 59enne uccisa a Portoferraio dalle percosse del marito. L'uomo, che per anni aveva abusato della moglie, dopo averla uccisa ha chiamato le forze dell'ordine sostenendo che la donna fosse morta in un incidente domestico scivolando in bagno.
E allora cosa possiamo fare di fronte a questi numeri giganteschi, a queste cifre che pesano come macigni sulle teste di ognuna di noi? Parlare, parlare, parlare (e denunciare, ogni qualvolta è il caso di farlo). Parlarne sempre, in ogni contesto e in ogni occasione. Non solo il 25 novembre.
Articolo di Chiara Tadini per today.it
"Mamma, papà... Devo dirvi una cosa"
"Amore cosa succede? Così ci fai preoccupare, sei agitato per la discussione di laurea di domani?"
"No, ecco, a proposito della laurea... So che avete già organizzato tutto, prenotato il ristorante... Ma in realtà io domani non mi laureo. Mi mancano ancora tanti esami per potermi laureare. Lo so, vi ho deluso e vi ho mentito, ma non sapevo come fare, la pressione era troppo forte, mi sentivo soffocare, ho anche pensato di... Di farla finita"
"Tesoro ma cosa dici? Vieni qui, fatti abbracciare. Se non sei ancora pronto per laurearti non è un problema, cancelliamo il ristorante e rimandiamo a casa i parenti. L'importante è che tu stia bene. Solo questo. Tutto il resto può aspettare. Avresti dovuto parlarcene fin da subito, avremmo potuto aiutarti. Ma siamo contenti che tu sia riuscito a parlarcene"
Poteva andare così. In tanti, troppi casi sarebbe potuta andare così. Sarebbe potuta andare così, forse, anche per Riccardo Faggin, il 26enne di Abano Terme che la notte tra il 28 e il 29 novembre scorso ha perso la vita schiantandosi con la sua auto contro un albero. Un incidente strano, in seguito al quale è emerso un tremendo dettaglio: il giorno dopo Riccardo avrebbe dovuto laurearsi in Scienze Infermieristiche. O almeno questo aveva detto ad amici e parenti. In realtà l'Università di Padova ha poi rivelato che il giovane aveva sostenuto solo una manciata di esami.
Le indagini sono ancora in corso, ma con tutta probabilità quello di Riccardo è l'ennesimo caso di giovani studenti universitari suicidi il giorno prima della (finta) laurea. Una piaga per la quale non esistono al momento statistiche ufficiali, ma che riguarda sempre più ragazzi. Cosa scatta nella mente di questi giovani che arrivano a compiere un gesto così estremo pur di non deludere le persone alle quali vogliono bene e alle quali hanno mentito per anni sugli esami passati e in realtà neanche mai sostenuti? C'è la pesantezza del vivere sentendosi costantemente oppressi dalla sensazione di non farcela, di non essere all'altezza, di non essere "abbastanza" in un mondo che ci vuole sempre più competitivi e veloci anche nel conseguire un titolo di studio - abbiamo tutti fresco nella mente il caso di Carlotta Rossignoli. Ragazzi che vivono con l'ansia costante di dover dimostrare di essere bravi, di essere i migliori, perchè fallire non è concesso. E anche per un genitore il confine tra spronare (giustamente) il proprio figlio e fargli pressione è labile. Non è facile per nessuno, ma insieme si può riuscire a trovare la quadra.
Ai ragazzi, da ex studentessa universitaria, voglio dire una cosa: non abbiate paura. Non abbiate paura quando una cosa è troppo difficile per voi, anche se vi sembra che per gli altri sia così facile. Le emozioni negative non vanno rifiutate o soffocate, ma accettate: si può avere paura, si può provare angoscia, e per tutte queste emozioni si può chiedere aiuto. In primis ai genitori, che sapranno ascoltarvi e perdonarvi tutto. E, se così non fosse, potrete comunque smettere di logorarvi e andare avanti per la vostra strada, consapevoli di avere fatto tutto il possibile per farcela e smettendo di essere costretti a portare avanti una doppia vita creata per soddisfare le aspettative dei genitori e della società.
Quanto deve essere doloroso sorridere alla propria famiglia, vederli orgogliosi mentre organizzano la festa in tuo onore, invitano i parenti, ti chiedono che regalo vorresti ricevere, e in realtà dentro essere lacerati dal dolore e dalla vergogna? Una vergogna così grande che non si riesce a tirare fuori, ad ammettere. E allora si fa buon viso a cattivo gioco, si continua a mentire fino all'ultimo istante, quando ormai non c'è più via d'uscita. E invece una via d'uscita c'è: si può mettere da parte tutto, l'umiliazione, i sensi di colpa, la delusione, ammettere la verità e chiedere aiuto. "Mamma, papà, devo dirvi una cosa".
Articolo di Chiara Tadini per ToDay.it
Riccardo Faggin era un ragazzo di 26 anni, studente universitario di Scienze infermieristiche. Era, perché pochi giorni fa Riccardo ha deciso di togliersi la vita simulando un incidente stradale. Il giorno dopo avrebbe dovuto laurearsi. O almeno, questo era quello che aveva detto ai genitori, che avevano preparato tutto l’occorrente per festeggiare l’occasione. Solamente dopo l’incidente mortale, i genitori di Riccardo hanno scoperto che quella seduta di laurea il giorno dopo non si sarebbe mai tenuta. “Penso e ripenso a qualche particolare, a cui non davamo peso. Ci sembrava che Riccardo avesse soltanto qualche giornata strana, magari solo le scatole girate. Invece aveva indossato una maschera. E noi non ce ne siamo mai accorti”, ha dichiarato la madre di Riccardo in un’intervista, in qualche modo attribuendosi la colpa della morte del figlio.
La storia di Riccardo è in un certo senso molto simile a quella di molti altri coetanei che trascorrono gli anni della propria vita professionale e universitaria schiacciati dal peso delle aspettative. A fare la differenza è l’epilogo, che nel caso di Riccardo è drammatico. Le aspettative. Tanti di noi trascorrono la vita cercando costantemente di soddisfarle, spesso finendo per impedirsi di esprimere la propria vera essenza e le proprie attitudini.
Io non credo che la morte di Riccardo sia colpa dei genitori, credo piuttosto che molto spesso anche i genitori subiscano la pressione psicologica del soddisfare le aspettative degli amici, dei conoscenti, dei familiari. In una parola: della società. Viviamo in una società che ci alleva fin dalla più tenera età inculcandoci il concetto di successo a tutti i costi, dove per successo non si intende certo la fama, ma la necessità di aderire perfettamente a determinati canoni professionali e di istruzione. Il diploma, la laurea nei tempi corretti, lavorare con sacrificio, farsi una famiglia, tutto per ottenere una qualche sorta di posizione nella società. Il fallimento non è concepito, la caduta momentanea è considerata un segno di debolezza. Solo i deboli subiscono battute d’arresto o commettono errori. La fragilità non è ammessa, anzi va insabbiata.
Sullo sfondo rimangono molto spesso attitudini, inclinazioni, abilità e volontà della persona, che se non rispondono perfettamente ai desiderata della società vengono immediatamente bollati come capricci o perdite di tempo. A scuola così come nel mondo del lavoro. La passione? Che risate. Un’inutile ostinazione da sopprimere se non comporta un concreto ritorno economico in tempi brevi.
Sin dal primo giorno di scuola ci viene insegnato con accanimento che dobbiamo diventare un utile ingranaggio di una società, che dobbiamo essere in grado di produrre un valore economico per le imprese che avranno bisogno della nostra manodopera. Questo è il nostro scopo sulla terra. Non conta la qualità della vita e infatti le rimostranze, le ondate di Great Resignation e quelle di Quiet Quitting che in questi ultimi anni hanno iniziato a partire soprattutto a partire dai più giovani vengono reputate inutili lagne di ragazzi svogliati da molti imprenditori e numerosi politici.
I ragazzi non hanno voglia di lavorare, di impegnarsi, di sacrificarsi. Quante volte l’abbiamo sentito dire? Tutti i santi giorni. Perché è più facile porre l’accento sul fatto che certi settori non riescono più a trovare manodopera anziché sul motivo per cui queste imprese non trovano più persone disposte a lavorare: salari infimi, totale assenza di equilibrio tra vita privata e professionale, incapacità di coltivare i diversi talenti dei collaboratori. Ma è molto più semplice puntare il dito, molto più complesso andare in profondità per analizzare le cause che hanno portato a questo scollamento tra le parti. La verità è che le cause non interessano perché sono viste come un ostacolo alla produttività e alla produzione di ricchezza, le uniche cose che contano. Come se la vita di un individuo debba ridursi solamente a questo.
Articolo di Charlotte Matteini per today.it
Anche se funziona, serviranno anni di sperimentazioni perché la fusione nucleare possa darci energia pulita. Ma c'è una un'altra invenzione già accessibile in Europa che, se riuscirà a diffondersi e a garantire costi convenienti, potrebbe cambiare la nostra vita di tutti i giorni: l'idrogeno in polvere. La ricerca è in corso da tempo. Ma da poche settimane una start-up israeliana ha dimostrato, con la propria tecnologia, che si può ricavare elettricità aggiungendo acqua a una miscela molto simile al caffè: che però contiene l'elemento più semplice che si trova in natura.
La società si chiama Electriq Global e ha avviato la sperimentazione ad Amsterdam in Olanda, dove da settembre è in funzione una gigantesca gru semovente, alimentata con idrogeno in polvere e non con il tradizionale gasolio. “La nostra tecnologia può produrre idrogeno, così come si prepara una tazzina di Nespresso – dice Baruch Halpert, amministratore delegato della start-up –. Si prende una capsula, la si miscela con l'acqua, si mette in un catalizzatore e si ricava l'idrogeno”. Il tutto avviene all'interno di un generatore che, grazie a una normale pila a combustibile (fuel cell) nello stadio finale, produce l'elettricità che alimenta i motori della gru. La novità è nel trasporto in polvere: un processo che permette di ridurre i costi di produzione e di eliminare la scomodità legata a raffreddamento, compressione, peso delle bombole e relativa infiammabilità dell'idrogeno gassoso, così come è stato utilizzato finora. Ma vediamo come funziona.
Energia in cialde
Il generatore a idrogeno in polvere non produce rumore, anidride carbonica e nemmeno gas di combustione, poiché la reazione che sfrutta è soltanto elettrochimica. L'unico scarto al termine del processo può essere restituito al produttore e riutilizzato per catturare e trasportare altro idrogeno. Si parte da una molecola composta da potassio, boro e due atomi di ossigeno (metaborato di potassio). L'impianto elettrolitico, progettato da Electriq Global e alimentato da energia rinnovabile, sostituisce l'ossigeno con quattro atomi di idrogeno ricavati dall'acqua. Si ottiene così una polvere formata da potassio, boro e idrogeno (boroidruro di potassio): la nuova sostanza è completamente inerte, non è esplosiva né infiammabile, e può essere facilmente compressa per il trasporto in blocchi, saponette o capsule. Una volta rimescolata all'acqua all'interno del generatore, la polvere libera gli atomi di idrogeno utili a produrre energia e li scambia con l'ossigeno. Il risultato di scarto sono l'acqua, da riutilizzare all'interno dell'impianto, e nuovo metaborato di potassio: cioè il composto iniziale, che può essere restituito al produttore e rigenerato. Ma se anche venisse accidentalmente disperso nell'ambiente, sarebbe praticamente innocuo concime a base di potassio.
Forse proprio questa tecnologia, applicata su larga scala, ci permetterà di sostituire i combustibili fossili con la catena dell'idrogeno. Ma è ancora presto perché, a parità di energia rilasciata, i costi siano competitivi con benzina e gasolio. Lo sono invece con le attuali batterie che alimentano i motori elettrici. “La densità energetica di un generatore a polvere di idrogeno – spiega infatti Baruch Halpert – è sei volte maggiore di quella di una batteria al litio”. E non è nemmeno necessario sostituire la batteria o perdere ore a ricaricarla. Basta aggiungere altra polvere e si può ripartire. Un'ulteriore convenienza è data dalla reazione elettrochimica: per ogni chilo di idrogeno in polvere, se ne producono due da trasformare in energia. “Il chilo in più – sostiene l'amministratore delegato di Electriq Global – è fornito dall'acqua”.
Non possiamo, per ora, sapere se e quando avremo auto al caffè di idrogeno. Anche perché sostituire il parco macchine e l'intera filiera del petrolio, dalle raffinerie a un numero di distributori sufficienti, richiede tempo. Ma l'Olanda sembra crederci. Nel porto di Amsterdam è in costruzione la prima fabbrica di idrogeno in polvere che, tra gli altri impieghi, può essere sperimentato nel trasporto pesante, nella navigazione fluviale e nella fornitura di elettricità a concerti e manifestazione pubbliche. “Se vogliamo che l'idrogeno sia il vettore energetico del futuro – aggiunge Halpert – dobbiamo renderlo adatto a molteplici applicazioni”. Paesi come Grecia, Italia e Spagna, con il loro potenziale di energia solare, potrebbero facilmente ospitare fabbriche di metaborato di potassio. E in un futuro non troppo lontano, magari ogni mattina prima di andare al lavoro, metteremo una cialda di caffè... padron, di idrogeno verde nel generatore della nostra e-bike.
Articolo di Fabrizio Gatti per today.it
Il Liceo Artistico Nervi-Severini di Ravenna ha istituito il congedo mestruale per le studentesse che soffrono di dismenorrea (termine medico con cui vengono indicati i dolori associati al ciclo mestruale) e che lo richiedano, che potranno assentarsi da scuola in maniera giustificata per un massimo di due giorni al mese. La delibera con la quale il consiglio di istituto del liceo ravennate ha dato avvio all'iniziativa - partita da un gruppo di studentesse dello stesso istituto - è stata pubblicata nei giorni scorsi sull'albo online della scuola. "Probabilmente - ha spiegato il preside Gianluca Dradi - per una scuola si tratta della prima iniziativa di questo genere in Italia". E in effetti non si trovano informazioni su altri istituti scolastici che abbiano attuato misure simili.
La novità, come prevedibile, ha diviso in due l'opinione pubblica tra chi è a favore dell'iniziativa e chi, invece, la considera "esagerata" e teme che le studentesse possano approfittarsene. Certo, il rischio di approfittatori quando si crea un diritto c'è sempre, ma non per questo si può rinunciare a crearlo lasciando in difficoltà le ragazze che, invece, soffrono davvero per questo problema e che sono tante: secondo uno studio del 2020 condotto dall'University of Virginia Health System, infatti, in circa il 5-15% delle donne con dismenorrea primaria i crampi sono abbastanza gravi da interferire con le attività quotidiane e possono comportare l'assenza da scuola o dal lavoro.
"Io puntualmente sporcavo la sedia e i vestiti perché non potevo andare in bagno più di una volta all'ora, poi prendevo 8 in condotta per punizione se stavo a casa una volta al mese, nonostante avessi il certificato di dismenorrea. L'endometriosi me l'hanno diagnosticata 18 anni dopo. La professoressa di ginnastica, avendo lei il ciclo leggero, non credeva a nulla e ci obbligava a farla peggiorando la situazione", racconta una ex studentessa ravennate. Il problema è reale, tanto reale che il liceo Nervi-Severini richiede un certificato medico che attesti la diagnosi di dismenorrea per concedere il congedo mestruale. E così il rischio di "approfittatrici", se forse non si annulla del tutto, almeno si riduce drasticamente.
E nel mondo del lavoro?
Chi è contro la misura del liceo ravennate sottolinea il fatto che, nel passaggio dalla scuola al mondo del lavoro, le studentesse si troverebbero in difficoltà, in quanto nel mondo del lavoro non esiste il congedo mestruale. "La donna lavoratrice che soffre di dismenorrea, in forma tale da impedire l'assolvimento delle ordinarie mansioni lavorative giornaliere, ha diritto di astenersi dal lavoro per un massimo di tre giorni al mese". Purtroppo il testo di questa proposta di legge partito da quattro parlamentari del Pd non si è mai tramutato in legge vera e propria, ma è rimasto in stallo dal 2016. In Italia, si legge nella proposta, dal 60 al 90% delle donne soffrono durante il ciclo mestruale, e questo causa tassi di assenteismo dal 13 al 51% a scuola e dal 5 al 15% sul lavoro.
Diverso all'estero: in Spagna, a maggio 2022 la Camera dei deputati ha dato il primo via libera al disegno di legge che introduce un congedo mestruale per le donne che soffrono di mestruazioni molto dolorose. Se la misura verrà confermata al Senato, la Spagna sarà il primo Paese dell'Unione Europea a introdurre una legislazione di questo tipo seguendo l'esempio di altri Stati, come Giappone, Indonesia e Zambia, che hanno già introdotto forme di congedo mestruale. In molti di questi Paesi, però, molte donne scelgono comunque di non usufruirne per il rischio di essere discriminate.
E qui entra in gioco un altro rischio, ben più grave di quello decantato da chi teme che le studentesse possano approfittarsi del congedo mestruale: quello di creare un'ulteriore discriminazione per le donne, alla pari del "rischio maternità". Se, purtroppo, ancora molti (troppi) datori di lavoro si chiedono perchè assumere una donna se questa può restare incinta e godere quindi della maternità, allo stesso modo gli stessi datori potrebbero chiedersi perchè assumere una donna se può assentarsi dal lavoro fino a tre giorni al mese a causa del ciclo mestruale.
Secondo una ricerca del 2020 svolta dall'Istituto Nazionale Astraricerche, infatti, il 35,2% delle donne intervistate teme che il congedo mestruale porterebbe a un peggioramento della situazione lavorativa femminile, aumentando la diffidenza dei datori di lavoro verso l'assunzione di donne. Il 27,9% delle intervistate, inoltre, ritiene che il congedo mestruale "sminuirebbe le donne, lasciando passare il concetto che la capacità lavorativa di una donna varia in base ai cambiamenti ormonali". Solo il 34,6% delle intervistate ritiene che un Paese civile dovrebbe riconoscere la possibilità a chi sta male di non lavorare.
Quindi cosa fare? Rinunciare a un diritto per paura che questo possa ritorcersi contro le stesse donne? No: credo che rinunciare a un diritto non sia mai la soluzione. Quelle 16 studentesse del liceo ravennate dalle quali è partita la proposta di congedo mestruale sono 16 future lavoratrici. La speranza, allora, è quella che anche una volta inserite nel mondo del lavoro quelle 16 ragazze - e come loro tante altre giovani donne, sempre più consapevoli dei loro diritti - possano far sentire la loro voce e creare un ulteriore cambiamento anche in un contesto lavorativo.
Articolo di Chiara Tadini per today.it
Ci sono alcune serie che lasciano il segno per la loro trama avvincente, per i colpi di scena perfettamente posizionati nella storia, per un'ottima colonna sonora, una bella fotografia, un finale a sorpresa che lascia addosso quel desiderio di voler scoprire come andranno a finire le cose. Alcune serie coinvolgono per la bravura degli attori protagonisti, per la complessità dei personaggi che vengono raccontati, per l'epoca storica che rievocano. Altre, invece, hanno la capacità di imporsi con forza nella mente e nel cuore di chi le guarda per il saper rendere partecipi di un'esperienza visiva che si avvicina più alla realtà che alla finzione, che è talmente ruvida, spigolosa, brutale da assumere tutte le caratteristiche di un fatto reale, quasi di un ricordo personale e diventare, così, vissuto più che visione. La vita bugiarda degli adulti appartiene a questa tipologia di serie tv.
Netflix con questo titolo, tratto dall'omonimo romanzo di Elena Ferrante, e con una straordinaria regia di Edoardo De Angelis ha dimostrato che quando ci si libera del superfluo e si racconta una storia reale, tangibile, sensoriale, è impossibile non innamorarsene anche dei suoi lati più bui, più contraddittori, più sporchi.
La vita bugiarda degli adulti è un racconto di formazione che segna l'irruento passaggio dall'infanzia all'adolescenza di una ragazza ribelle ma di buona famiglia nella Napoli del 1990. In questa serie che vede l'esordiente Giordana Marengo nei panni della protagonista Giovanna al fianco di una veterana Valeria Golino, c'è una continua alternanza di elementi contrastanti che contribuiscono all'equilibrio perfetto di una storia che si regge tra sapienza e ignoranza, fedeltà e tradimento, ribellione e accondiscendenza, curiosità e accidia, ricchezza e povertà. Vedere La vita bugiarda degli adulti equivale a fare una vera e propria esperienza di vita, ci si immedesima, si viene coinvolti, si resta spiazzati, si soffre e si gioisce insieme ai personaggi della storia che sono il vero punto di forza di questa serie. Non servono descrizioni, non servono trame personali avvincenti, ai protagonisti de La vita bugiarda degli adulti basta esistere, vivere nello schermo e parlare al pubblico.
Questa serie con la sua forza comunicativa e il suo coraggio nel mostrare tutto il brutto della vita adulta fatta, per forza di cose, di continue bugie, sbatte in faccia a tutti una realtà che sullo schermo spesso viene edulcorata ma che, in questo caso, è cruda ma più viva che mai.
Perdersi questo viaggio alla riscoperta di cosa vuol dire essere adolescenti, sognare, credere che i propri genitori siano eroi senza macchia e pensare che essere adulti significhi custodire una saggezza tale da tenersi alla larga di qualsiasi tipo di errore, per poi venire delusi da tutta l'imperfezione di quelli che, per convenzione, vengono definiti adulti è un'esperienza straziante e meravigliosa che lascia un graffio nell'anima.
Articolo di Marianna Ciarlante per today.it
Adele (nome di fantasia, ndr) era una studentessa universitaria di 19 anni che frequentava la Iulm di Milano. Non sappiamo ancora chi era davvero, quali fossero le sue passioni e i suoi desideri per il futuro. Sappiamo solo che ha deciso di togliersi la vita nel bagno della sua università, scusandosi "per i suoi fallimenti".
Quasi 2 giovani al giorno si uccidono in Italia
Il suicidio di Adele, purtroppo, è solo l’ultimo di una lunga serie. Ogni anno in Italia, secondo i più recenti dati Istat disponibili, aggiornati al 2019, si contano circa 4.000 suicidi all’anno, il 13% dei quali – circa 500 – fra gli under 34. Di questi 500, si contano circa 200 casi tra gli under 24, che in altissima percentuale risultano essere proprio studenti universitari. La situazione è drammatica ed è divenuta ancor più drammatica con la pandemia, che ha di fatto avuto un ruolo da detonatore di problematiche già latenti soprattutto tra i giovanissimi. Sempre secondo l’Istat, infatti, nel 2021 in Italia 220mila ragazzi tra i 14 e i 19 anni si dichiaravano insoddisfatti della propria vita e in una condizione di scarso benessere psicologico.
Numeri impressionanti, che però sembrano non sconvolgere più di tanto chi dovrebbe occuparsi di trovare soluzioni a questi disagi, frutto di una società che non tollera il fallimento, fondata sulla competizione estrema, alla perenne ricerca del successo e che arriva a bullizzare chi non è in grado di rispettare determinati standard e aspettative. Una società che, soprattutto, considera i giovani non il futuro e una leva per la crescita del Paese, ma carne da macello utile solamente ad alimentare un modello di vita, professionale e personale, ancora arroccato a logiche anni ’50.
Sono passati pochi mesi dalla morte di Riccardo Faggin, studente universitario di 26 anni che ha deciso di togliersi la vita simulando un incidente stradale. Anche in quel caso, tutta Italia ha parlato della drammatica vicenda per giorni. E poi? Finita nel dimenticatoio. Il sipario è calato velocemente sia sulla storia di Riccardo che soprattutto sull’analisi di un fenomeno in preoccupante ascesa e che nessuno sembra aver intenzione analizzare e comprendere per trovare delle soluzioni.
Il bombardamento dei "supereroi"
Di contro, i media, un giorno sì e un giorno no, ci bombardano di storie di laureati prodigio che finiscono il proprio percorso di studi con anni di anticipo, che discutono la tesi di laurea durante il travaglio e di superuomini e superdonne che vivono esclusivamente per lavorare e che esaltano lo spirito di sacrificio dove per sacrificio si intende l’essere disposti a qualsiasi cosa pur di lavorare, anche 12 ore al giorno per un tozzo di pane senza avere alcuna vita al di fuori della propria professione.
Storie raccontate a tambur battente come se in qualche modo si volesse instillare nella mente dei ragazzi che basta volerlo per farcela, è solo questione di volontà, dimenticando però che in particolare l’Italia è uno dei Paesi Ocse con i peggiori indicatori per quanto riguarda il benessere economico e professionale dei giovani under 34, che vivono una condizione di precariato e stipendi risibili molto peggiore di quella vissuta dai propri genitori alla stessa età.
In questa narrazione nulla contano le difficoltà, i disagi, i disturbi. Di quelli nessuno tiene conto, anzi sono elementi di disturbo che è bene nascondere sotto il tappeto. “Guarda, questa ragazza è riuscita a laurearsi scalando le montagne e studiando 18 ore al giorno, perché tu non puoi farcela?”. E via oggi, via domani, questi messaggi tossici iniziano a insinuarsi nelle menti delle persone più fragili, che continuano a sentirsi completamente inadeguate alle aspettative che la società impone loro. E a volte, capita che qualcuno non riesca più a resistere a questa continua pressione psicologica e soccomba. Com’è capitato ad Adele, a Riccardo e alle centinaia di ragazzi che negli ultimi anni sono arrivati a togliersi la vita scusandosi per i propri fallimenti universitari e professionali.
Articolo di Charlotte Matteini per today.it
Da sempre al fianco dell’Uomo in un legame antico come il tempo, il cane ha conquistato il cuore di tutti con un'intesa profonda fatto di sguardi, fedeltà e amicizia. Fin dal 1925 data di costituzione del primo reparto cinofili della Pubblica Sicurezza, i cani hanno accompagnato la vita della nostra Istituzione decretando così la loro insostituibile presenza nei ranghi della Polizia.
In questa pagina troverete i video con le storie di alcuni cani poliziotto e dei loro conduttori, che si son resi protagonisti di vicende e operazioni di Polizia. Seguite ogni domenica, a partire dal 1° dicembre, alle 13,40 sul tg 5 nella rubrica "l'Arca di Noè" le storie di Ares, Amper, Kira e tanti altri nostri "colleghi".
Matteo e Leo insieme sono specializzati nella ricerca di persone scomparse in superficie e sotto le macerie. Nel 2016 ad Arquata del Tronto, Leo e Matteo hanno salvato una bambina rimasta sotto le macerie della sua casa dopo il sisma che ha colpito il centro Italia.
La sicurezza è il loro mestiere: Kira e Donato sono un’unità cinofila antiesplosivo e lavorano all’aeroporto di Malpensa.
(dal sito https://www.poliziadistato.it/articolo/cani)