Folgorata! Ho visto “Mi chiamo Sam”. Bello, commovente. Colorato e triste. Pieno di vita come di drammaticità. Lineare e controverso. Dolce e nervoso.

Non può lasciare indifferenti, non credo. Ti butta addosso talmente tante emozioni e tante sfumature che non puoi non captarne almeno una, e rifletterci.

Sam è un padre ritardato, che cresce da solo una figlia senza problemi fino a quando questa compie 7 anni e, gli assistenti sociali, le persone “che sanno”, decidono di strappargliela perché “certificano” che la sua età mentale, nonostante sia un adulto, é ferma ai 7 anni. Come quella della figlia. Da quel momento inizia un percorso travagliato, confuso e crudele che porta alla separazione di Lucy, la bellissima e intelligentissima Lucy, e di Sam (interpretato da Sean Penn)

Per proteggere il suo papà, Lucy alterna momenti di grande saggezza e maturità a momenti di rifiuto verso l’apprendimento di cose nuove, per non sentirsi più grande e più capace di lui.

Si potrà pensare che è la solita “americanata”, ma questo non preclude il fatto che ci metta di fronte a situazioni che esistono e che viviamo, più o meno da protagonisti.

E’ un film allegro e strappalacrime al tempo stesso. Allegro perché Sam non è solo, lavora, ed è circondato da amici gioiosi. Quattro amici come lui, uno diverso dall’altro, con caratteristiche ben distinte, che fanno sorridere. Sono persone colorate, che fanno sorridere in ogni momento della storia. Non per la loro condizione, ma per il loro modo di comportarsi, che potrebbe essere benissimo quello di tante altre persone. Ovvio, che certi lati siano calcati (e forse già questo ci spinge ad una certa reazione) ma questi aspetti si possono trovare in chiunque.

C’è quello sempre serio, diffidente e accigliato che, per qualsiasi cosa dice “lo sapevo che andava a finire così”, quello appassionato di cinema che ricorda a memoria battute e film, quello saggio, che dispensa consigli e verdetti e quello silenzioso e dolce, sempre dal sorriso aperto.

Dall’altra parte, nella vita “reale”, c’è l’avvocato Harrison, interpretato da Michelle Pfeiffer, tutto ricchezza, potere, affermazione ed…egoismo.

Naturale che, per insegnarci la lezione, i due mondi si incontrino, e che ci facciano scontrare con il cosiddetto buon senso. Abbiamo il diritto di decidere per la vita degli altri “solo” perché sono “diversi”? Dobbiamo per forza misurare tutta la nostra vita con il metro delle etichette e dei luoghi comuni o possiamo lasciarci andare, eccezionalmente, e far parlare i sentimenti? Cosa avremmo fatto noi al posto di Lucy, Sam, dell’avvocato Harrison, del pubblico ministero? Avremmo lottato? Da che parte avremmo guardato la vicenda?

Mi metto in prima persona: non credo sia facile pensare alla soluzione. E’ molto facile invece, lasciarsi guidare dalla legge, dal giusto o sbagliato, dal concesso e dal proibito.

“Mi chiamo Sam” fa pensare. Fa pensare che non perché si è down o autistici o chissà cos’altro, non si possa amare e…..insegnare. Potrà sembrare banale, certo, l’avvocato di grido, apparentemente soddisfatto, ma in realtà frustrato, che impara i valori più semplici dalla persona “diversa”.

Ecco perché, guardando il film, ci si interroga. Perché si capisce che anche se le persone sono “diverse” possono avere una vita e imparare qualcosa e insegnare qualcosa.

 

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