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INTRODUZIONE

E’ di scena Carmelo Bene

Carmelo Bene nasce, o meglio viene abortito, a Campi Salentina in provincia di Lecce, nel 1937. Insieme a lui verrà alla luce il suo straordinario teatro, anzi,  la totale reinvenzione che Bene ha fatto del teatro.        
Dopo i primi studi classici presso un collegio di gesuiti, si trasferisce a Roma dove si iscrive nel 1957 all'Accademia di Arte Drammatica Silvio D’Amico, un'esperienza che, a partire dal solo anno successivo, abbandona convinto della sua "inutilità". Bene aveva già tutto il necessario dentro di sè.
Ad ogni modo, già da questo episodio è possibile intravedere l'incompatibilità fra l'idea classica di teatro, di rappresentazione, e la "destrutturazione" che di questa idea Bene ha portato avanti; un\'operazione culturale capace di demolire l'idea stessa di recitazione, messa in scena, rappresentazione e addirittura "testo".
 Il debutto di questo grande genio è datato 1959, come protagonista del "Caligola" di Albert Camus andato in scena a  Roma con la regia di Alberto Ruggiero. In questa fase, è ancora alle "dipendenze" di altri registi e di idee non sue. Di lì a poco comincerà a manifestarsi il bisogno del nostro di essere su e giù dal palco,   regista di se stesso, iniziando in questo modo l'opera di manipolazione e di straniamento di alcuni classici  immortali. L'attore le ha talvolta chiamate "variazioni". Sono di questi anni numerosi spettacoli come "Lo strano caso del dottor Jekill e del signor Hyde", "Gregorio", "Pinocchio"(1961), "Salomè"(1964), "Amleto"(1961), "Il rosa e il nero"(1966).
Nel 1965 si cimenta anche come scrittore, producendo il paradossale testo "Nostra signora dei Turchi", edito dalla casa editrice Sugar. L'anno dopo, il romanzo viene adattato e messo in scena al teatro Beat '62.
Comincia negli stessi anni la sua parentesi cinematografica; la sua prima esperienza nel cinema è da attore nel film di Pasolini "Edipo Re"(1967), poi come regista del film "Nostra signora dei Turchi"(1968), ancora una volta tratto da quel suo primo romanzo. Il film vince il premio speciale della giuria a Venezia e rimane un caso unico nell\'ambito della sperimentazione cinematografica. In seguito, gira ancora due film "Capricci" (1969) e "Don Giovanni" (1970), mentre del 1972 è "L'occhio mancante", libro edito da Feltrinelli e rivolto polemicamente ai suoi critici. Con "Salomè" (1972) e "Un Amleto in meno" (1973) si chiude la sua esperienza cinematografica, ripresa solo nel 1979 con l'"Otello", girato per la televisione e montato solo in tempi recenti. Cinque anni intercorrono tra il 1967 e il 1972, un lustro di furore iconoclasta che scosse la provincia del cinema italiano, assopita dinnanzi ad obsolete celebrazioni del Neorealismo. Riguardo al suo primo lungometraggio, “Nostra signora dei Turchi”, citando le parole dell’autore, “[…] è dichiaratamente anti ’68, in dispregio non solo a quel “maggio italo-gallico”, ma a tutti i “maggi” socialmondani della Storia, in saecula saeculorum”.
Questo Bene “rovinato dalle buone letture”, Lacan prima di tutto, con l’ardore del neofita crea un cortocircuito storico-geografico nel sud del sud dei santi. In “Nostra signora dei Turchi” si legge l’abbandono della storia confusa di continuo con una improbabile biografia. Rifiuto dunque, della storia ma anche del tempo, come lo stesso Bene racconta a Gianfranco Dotto: “Il tempo non esiste. Non mi sento nato e non mi sento cristiano, né tantomeno cattolico”.
Seppure premiato alla Mostra del Cinema di Venezia, il film non fu compreso da molta parte della critica italiana (contrariamente a quella francese). L’incomprensione probabilmente deriva dalla programmatica intenzione beniana di fare del suo cinema la negazione dell’azione e del corpo, irriducibile ad ogni estetica ed ininterpretabile.
Carmelo Bene si scaglia contro l’immagine, contro la rappresentazione, narrare non rientra fra i suoi compiti di cineasta:

         “il cinema è sempre servito a spacciare storielle,
                ma nessuno ha mai spacciato la pellicola

Gilles Deleuze, che ha studiato con attenzione le opere di Carmelo Bene, sostiene che la sensazione è ciò che si trasmette direttamente, evitando l’espediente di una storia raccontata; Lorenzo Esposito definisce “Nostra signora dei Turchi un film sulla dissipazione della soggettività in quanto tale, radicalmente differita nel doppio, nel triplo, nella moltiplicazione continua dell’esserci in / di un solo corpo dove ogni singolo movimento di macchina è rigorosamente marcato o interrotto, quasi solo immaginato come le ferite e le malattie di cui si vorrebbe vedere proliferare il proprio corpo […]. Nostra signora dei Turchi è la morte raccontata da un vivo” .
Questo ci riporta a Deleuze ed in particolare alla sua lucida analisi dell’immagine-cristallo. Il concetto di bergsoniana memoria si esplica nell’unità indivisibile tra un’immagine attuale e la sua immagine virtuale che le corrisponde come un riflesso. Immagine virtuale ed immagine attuale creano un piccolo circuito interno di elementi distinti ma indiscernibili che si riflettono l’un l’altro scambiandosi i ruoli in un infinito rimando. Deleuze stesso dirà che Carmelo Bene è uno dei massimi produttori di immagini-cristallo, citando a tal proposito il palazzo di “Nostra signora dei Turchi” fluttuante nell’immagine, la danza dei veli di “Capricci”; scene che attraverso il grottesco cerimoniale imposto ai corpi giungono alla scomparsa definitiva del corpo visibile:

         “il  cinema non  fu in grado  di farsi  corpo e questo coma
          somatico, relitto sopravvissuto al tormento dell’aprassia,
          è svanito.
          Alla volgarità  dell’immagine  artistica riservo da sempre
          la mia intransigente ostilità iconoclastica.

Tutto il suo progetto cinematografico, progetto iconoclastico, è improntato ad una vera e propria demolizione dell’immagine, che viene attuata in modo puntuale e maniacale con una serie di accorgimenti tecnici. Innanzitutto “Nostra signora dei Turchi”, “Capricci”, “Don Giovanni” sono girati in 16mm e solo successivamente gonfiati a 35mm, il che lascia un’impronta sulla pellicola, l’amplificazione. Bene ne fa uso alla stregua di uno strumento retorico: amplificare fino a far esplodere i fotogrammi, fargli perdere la misura, fino ad annullare il suo effetto. Altro espediente beniano è la ripetizione di alcuni fotogrammi; essa mina la consequenzialità temporale decostruendola, insieme all’uso di primissimi piani e del fuori fuoco.
In modo particolare in “Don Giovanni” e in “Salomè” Carmelo Bene sembra non volersi arrendere alla volgarità dei 24 fotogrammi al secondo e dunque attua un montaggio furioso: tutto per “sfidare l’immagine corpo due volte larvata nella virtualità dell’obitorio cinematografico”.
1973, fine della corsa:

crede nel cinema, crede che il cinema possa operare  una  teatralizzazione più  profonda del  teatro  stesso, ma  lo  crede  per  un solo istante. […] il tempo di una opera troppo presto interrotta, volontariamente interrotta, alla  capacità  che avrebbe il cinema di dare un corpo, di  farlo nascere e  scomparire  in una cerimonia” .

La fama internazionale, svariate targhe e trofei, il fegato definitivamente a pezzi, con questi lasciti del cinema Carmelo Bene torna al teatro, partecipa a trasmissioni radiofoniche, si dedica alla televisione, portando con sé l’elettronica e le nuove tecnologie. Il nostro torna al teatro con "La cena delle beffe", con "S.A.D.E.", entrambi del 1974, e poi ancora con "Amleto" (1975). Seguono numerose opere, ma molto rilevante è la sua cosiddetta "svolta concertistica", rappresentata in prima istanza da "Manfred" (1980), un lavoro basato sull\'omonimo poema sinfonico di Schumann. Ottimi i successi di pubblico e critica. Nel 1981 dalla Torre degli Asinelli a Bologna recita la "Lectura Dantis", poi negli anni '80 "Pinocchio" (1981), "Adelchi"(1984), "Hommelette for Hamlet" (1987), "Lorenzaccio" (1989) e "L'Achilleide N. 1 e N. 2" (1989-1990). Dal 1990 al 1994 la lunga assenza dalle scene, durante la quale, come dirà lui stesso, "si disoccuperà di sé". Nel 1995 era tornato sotto i riflettori e in particolare nelle librerie con la sua opera "omnia" nella collana dei Classici Bompiani (ciò che gli consentiva di orgogliosamente autodefinirsi “un classico in vita”), cui aveva fatto seguito nel 2000 il poemetto "'l mal de' fiori". A proposito di quest'ultimo lavoro, in un'auto-intervista redatta per Café Letterario del 16 maggio 2000, scrisse: "Prima di questo 'l mal de' fiori non mi ero mai imbattuto in una nostalgia delle cose che non furono mai in nessuna produzione artistica (letteratura, poesia, musica). Sono da sempre stato privo d\'ogni vocazione poetica intesa come mimesi elegiaca della vita come ricordo, rimpianto degli affetti-paesaggi, mai scaldato dalla "povertà dell'amore", sempre nei versi del poema ridimensionato nella sua funzione di 'amor facchino', cortese o no. Riscattato dall'o-sceno demotivato, divino, svuotato una volta per tutte dell'affanno erotico nel suo ossessivo ripetersi senza ritorno.
Muore il 16 marzo 2002, nella sua casa romana. Aveva 64 anni.                   
"Non può essere morto chi ha sempre dichiarato di non essere nato" ha detto alla notizia della sua scomparsa Enrico Ghezzi, che con Carmelo Bene aveva firmato il volume "Discorso su due piedi (il calcio)".
La vita di questo autore può essere letta “nella magmaticità dei suoi attraversamenti, (come) un opera vitale e assolutamente non storica, quasi un work in progress (…) capace di scardinare convinzioni, abitudini e procedure del simbolico”.

Capitolo primo

“Alla sorgente del Bene”

 1.1. Bene e l’avanguardia cinematografica

Carmelo Bene è senza dubbio un autore molto complesso la cui poetica si è espressa principalmente nel teatro. Ma la sua parentesi cinematografica è di grande interesse per la combinazione di elementi già in nuce nel cinema d’avanguardia sviluppatosi tra il 1910 e il 1930. Il Nostro si è avvicinato al cinema, segno privilegiato della modernità, struttura qualificante dei nuovi processi di interrelazione sociale e comunicativa, immaginando un altro cinema, come già altri prima di lui. Secondo Paolo Bertetto: ”immaginare un altro cinema possibile é infatti il grande impegno degli artisti, dei registi e dei teorici: un cinema diversamente inventato e teorizzato, di volta in volta organico alle poetiche e alle ricerche linguistiche dei vari movimenti d’avanguardia, o capace di realizzare in modo assolutamente puro e rigoroso le potenzialità e le specificità del cinema come arte autonoma”. Ciò che è importante sottolineare, anche sulla scorta di intuizioni  deleuziane, è che, pur non essendo il primo a tentare questa strada, Bene non appartiene ad un determinato movimento se non per quanto lui stesso inventa. Inoltre la totalità degli elementi che compongono la sua poetica, globalmente intesa nel suo essere plurimediale, mirano alla sottrazione, o meglio alla demolizione degli elementi determinanti il potere. Perseguendo questa strada egli è capace di sprigionare una forza non-rappresentativa e instabile. Ma in effetti, tutti gli autori che nel corso di questo secolo di cinema o poco più, hanno tentato strade desuete per esprimere se stessi fanno parte di un’unità, sebbene in negativo, “realizzata sulla base di un rifiuto, di una radicale ed esplicita estraneità al cinema ufficiale e alle sue leggi discorsive”.
Disarticolare i codici e i modelli narrativi, rifiutare una narrazione e una rappresentazione di tipo lineare, l’autosottrazione all’universo rappresentativo e l’imposizione di una fruizione anomala: ecco le linee guida di quell’unità che va dalla preistoria del cinema differente sino all’odierna video-arte. Alla sopra citata preistoria del cinema d’avanguardia appartiene la fase cinematografica del noto musicista Shönberg. In una sua lettera ad Emil Hertzka si legge una frase esplicativa della sua idea di cinema: “ Io esigo: la più grande irrealtà”. Egli rifiuta lo statuto narrativo-rappresentativo vigente per creare dall\'irrealtà costitutiva del cinema un’idea compositiva precisa quanto uno spartito musicale. Shönberg fu folgorato dalla duttilità del cinema, dalle possibilità di creare un linguaggio polimorfo ed irreale. Egli dunque tenta una convergenza tra diversi linguaggi artistici mirando alla creazione di un’arte sintetica,  ottenuta a partire dalla musica. Nel percorso beniano verso il cinema è ravvisabile qualcosa di molto simile, ma con una fondamentale differenza. Bene parte dal teatro con lo stesso intento di Shönberg: dar vita a qualcosa che lo superi, lo attraversi, ed è così che giunge a dar vita al suo cinema.

1.2. La negazione nella cinematografia dada e surrealista

Il movimento dadaista, nato in Svizzera e sviluppatosi in Francia nel 1916, ha rappresentato un vero e proprio "pugno nello stomaco" all'arte e ai suoi utenti. Se già il futurismo, italiano e russo, si opponeva al concetto stesso di arte rifiutandone i compromessi e il derivante successo, (ricordiamoci del piacere di Marinetti nel ricevere fischi anziché applausi o lo "Schiaffo al gusto del pubblico di Mayakoski), il dadaismo forse andava ancora oltre. La parola stessa "dada"non ha alcun significato, ”Dada non significa niente. Dada è un suono della bocca”, diceva T. Tzara.
Dada fu sregolatezza, astrattezza, fu il nonsense, arte "pura" completamente e volutamente fine a se stessa. Qui risiede la poesia e la bellezza del dadaismo, nel suo sarcasmo, nella sua pungente ironia. Il movimento Dada spinge verso la disgregazione del simbolico, dell’arte e la distruzione del senso, ma non già attraverso dichiarazioni teoriche di una poetica, bensì attraverso azioni concrete. Gli artisti dada intendevano rovesciare il funzionamento del simbolico, ”realizzando una produzione negativa e distruttiva, capace di inceppare le strutture istituzionali del fare artistico”.
Una poetica tale, dedita alla spontaneità e al caso, non poteva non includere il cinema; un\'arte giovane, tutta da scoprire e che già in sé presentava le caratteristiche proprie di tutti i movimenti d’avanguardia del primo '900: immagine in movimento, dinamizzazione visiva, dove ombre e oggetti si muovono e agiscono. Su questi concetti, propri della settima arte, futuristi, dadaisti e in seguito surrealisti fondarono la loro idea di cinema e, al contempo, la scavalcarono. Il cinema in mano loro sarebbe diventato un libero dispiegamento dell'immaginazione.
Invero notiamo come vi sia un solo film assolutamente dada, un film che ne riprenda l\'estetica nella sua essenza. E' Retourn a la raison di Man Ray, girato nel 1923. Quest’opera casuale, arbitraria e antistituzionale fu girata in un solo giorno, incollando semplicemente “le strisce (di pellicola) tra loro” .
Retourn a la raison c’interessa perché emblematico di un processo di negazione dell’universo spettacolare e di ogni canone estetico. Man Ray, distruggendo ogni idea compositiva, annulla la comunicabilità filmica e rende l’opera estranea ad ogni mercificazione.
Man Ray torna alla regia nel 1927 con Emak Bakia, la cui analisi è di maggiore interesse per la nostra ricerca in quanto la dimensione frammentaria che lo caratterizza sarà uno degli elementi di forza del cinema beniano.
Lo stesso Man Ray dirà del suo film che consiste in “una serie di frammenti, un cinepoema con una certa sequenza ottica da cui nasce un insieme che tuttavia resta un frammento” . Ecco dunque palesarsi la non-narrazione, la volontà d’essere mancante, di distruggere ogni progetto di ricomposizione ideologica. Lo stesso frammentarsi della struttura filmica lo ritroviamo in alcune sequenze del film Nostra Signora dei Turchi(1968), dove la coazione a ripetersi di determinati fotogrammi demolisce l’intero impianto narrativo aprendo uno spiraglio sulla claustrofobica struttura filmica tradizionale, nonchè sulla realtà.

Il Surrealismo recupera molte delle istanze eversive del Dadaismo. Il segno della continuità tra i due movimenti è dato primariamente dalle personalità che animarono entrambi i filoni; dalla negazione del simbolico ufficiale e dalla distruzione del senso seppure reinterpretati attraverso l’analisi di meccanismi psichici direttamente emergenti dall’inconscio.
La cinematografia surrealista opera utilizzando i temi cari alla psicoanalisi freudiana, con particolare attenzione per il sogno: le immagini di questi film seguono, infatti, una logica che non trova altro riscontro se non in quella dell\'attività onirica, non come semplice trascrizione di sogni, ma come riproduzione del processo generativo di questi, vale a dire che lo spettatore non deve cercare un significato in quello che vede o cercarvi un referente reale, ma cambiare l\'atteggiamento con cui, di solito, si siede sulla poltrona, al buio.
Il ribaltamento della realtà in favore dell’onirismo è una lezione che Carmelo Bene mette in pratica già a partire dalla versione teatrale di Nostra Signora dei Turchi (1966) dove l’azione si svolge sempre dietro vetri smerigliati che impediscono una chiara visione e l’ascolto dei deliri testuali. Ma la piena realizzazione di ciò avviene nella versione cinematografia, dove l’uso del mezzo cinematografico accresce notevolmente la forza immaginifica del sogno. Unitamente a quest’ultimo, ironia, amour fou, humour noir, rappresentano i « picconi » con cui i surrealisti hanno tentato di abbattere le mura difensive della morale borghese per ottenere la liberazione dell’uomo. Il mezzo d’azione tra i più efficaci per questa demolizione è stato proprio il cinema, considerato surrealista di per sè, in quanto al cinema tutto è possibile. Uno dei film più indicativi della poetica del gruppo è Un chien andalou .  Nonostante in questo film i trucchi ottici siano limitati e la potenza dell’immagine sia estranea alla potenza della tecnica la sua crudeltà è insostenibile per l’occhio dello spettatore medio. Secondo l’analisi di Canosa il film vieta la visione tradizionale allo spettatore: il taglio dell’occhio(visione tradizionale) viene eseguito dallo stesso regista, “l’occhio è tagliato e la visione è negata. Ma, paradossalmente, l’occhio non rinuncia a vedere, bensì vede finalmente. La realtà si spalanca mostruosa”.
Il film presenta una serie di elementi di grande interesse: uno sviluppo antinarrativo che si regge sull\'inatteso e sullo choc, la presenza di una simbologia sessuale, la continua tensione tra il piano razionale e quello del subcosciente, l\'oscillazione tra la costruzione di una storia e la sua negazione (i personaggi sono ricorrenti e, anche se allo spettatore non è concessa alcuna identificazione, costituiscono una sorta di punto d\'ancoraggio per poter individuare una certa coerenza all\'interno del film).
Alla luce di quanto detto a proposito di Un chien andalou, sono notevoli i punti di contatto tra il surrealismo cinematografico e il cinema beniano,ma sarebbe semplicistico vedere in quest’ultimo i prodromi del primo e  null’altro.

1.3. Oltre il surrealismo:  Artaud cineasta

Il discorso di Artaud sul cinema si differenzia dalle posizioni dei surrealisti in quanto nega di assimilare lo spazio del cinema al sogno.
L’immagine, secondo  Artaud, deve avere come oggetto il funzionamento del pensiero di cui il sogno è solo un’approssimazione. Dai suoi scritti emerge che, a parer suo, la specificità del cinema è la vibrazione come “nascita occulta del pensiero”, ciò “può rassomigliare e apparentarsi alla meccanica di un sogno senza essere un sogno esso stesso” .
 Il distacco tra il cinema di Artaud e quello surrealista non risiede nei temi trattati, che rimangono  pressappoco immutati, ma l’approccio ad essi; l’autore scrive: “la sessualità, il rimosso, l’inconscio non mi sono mai sembrati spiegazione sufficiente dell’ispirazione o dello spirito…” . Non è il pensiero a confrontarsi con queste istanze, bensì il contrario: queste determinazioni si confrontano col pensiero come fosse un problema più alto, indeterminabile.
Artaud scompiglia i rapporti tra  pensiero e cinema per congiungere quest’ultimo con la realtà intima del cervello. Egli attribuisce al cinema una “forza dissociatrice” capace di creare interstizi tra le immagini in cui far risiedere la significanza. Usando parole di  Blanchot “Artaud rovescia i termini del movimento, mette in primo piano la privazione, e non più la totalità immediata di cui quella privazione pareva dapprima la semplice mancanza. Quel che viene prima, non è la pienezza dell’essere, ma l’incrinatura e la fessura” .
Siamo di fronte ad un novo cinema, un cinema della crudeltà dove non ci sono storie da raccontare, ma solo lo sviluppo degli stati dello spirito.
Antonin Artaud può essere definito il maestro ideale del nostro Carmelo Bene che darà vita ad un “barocco della crudeltà” di matrice artaudiana tuffato dentro un mondo distorto.
Sono innumerevoli gli elementi di comunanza tra i due autori a partire dalla medesima strada intrapresa che dal teatro li ha portati al cinema per poi tornare indietro.
Dopo la deludente realizzazione de La Coquille e Clergyman, Artaud, come accadrà allo stesso Bene, smette di credere nel cinema: “il mondo imbecille delle immagini preso come nel vischio in miriadi di retine non completerà mai l’immagine che ci si è potuti fare di lui” .
Buona parte degli scenari  cinematografici scritti da Artaud non furono mai realizzati,tra questi Les dix-huit secondes è molto interessante poiché si sviluppa su piani temporali diversi(un tempo mentale integrato con quello filmico che va oltre il tempo reale).uno stesso discorso è valido per analizzare ciò che accade in Nostra Signora dei Turchi in qui si verifica un cortocircuito temporale tra Storia e storia.
Les dix-huit secondes affronta uno dei temi essenziali della poetica artaudiana, esso rappresenta “…la disarticolazione dell’io, la frantumazione del soggetto,…in preda all’abisso e alla negatività, segnato da una mancanza radicale ad essere e a simbolizzare” . Qui Artaud tenta di realizzare un’opera che si faccia pensiero e delirio proiettando sulla dimensione filmica le ossessioni della mente, un “delirio dispiegato della visione” . Lo stesso delirio lo vive  il Don Giovanni di Bene quando, seduto ad una tavola imbandita, vede dinnanzi a lui una donna,due donne, tre donne,ma sempre la stessa proiezione della sua mente.
Nel testo del 1933 La vecchiaia precoce del cinema, Artaud realizza che la fissazione su pellicola dell’immagine la rende morta poiché “impedisce risistemazione e ogni ripetizione…la figura del film è definitiva e  senza appello” . È qui che risiede la cifra distintiva tra maestro ed epigono. Di fatti Bene, a differenza di Artaud, crede che un’opera, una volta terminata, non può più essere in alcun modo compromessa. Una volta datagli vita, il testo, di qualsiasi natura, si rende autonomo dall’autore e la ripetizione funziona come principio di differenziazione. Proprio attraverso il cinema, Bene perviene al riconoscimento “di un evento irriproducibile nell’istituto della ripetizione” che si realizza attraverso la dissociazione delle componenti narrative e del senso. Nel superare il suo maestro, Carmelo Bene diviene per Maurizio Grande “una macchina antilinguaggio” capace di attuare un processo di allontanamento dal senso moltiplicando  visioni allucinatorie .

1.4. E’ la volta di Bene

Nei paragrafi precedenti abbiamo cercato di tracciare delle linee su cui far scorrere la storia del cinema fino a Carmelo Bene. Quest’ultimo non è però  classificabile, né catalogabile, ma può essere solo “registrato”, in quanto, come sostiene Gian Piero Brunetta , la stessa “raggruppabilità tematica, stilistica, poetica, ideologica degli autori in famiglie, tendenze, scuole, cooperative,che ci consente di operare un taglio netto tra produzione commerciale e produzione sperimentale, porta, alla fine di ulteriori suddivisioni e ripartizioni, a riconoscere che i conti non tornano perfettamente. Rimane sempre fuori, quasi in uno spazio di nessuno, Carmelo Bene” . L’impossibilità di attribuire un posto al nostro è dovuta al fatto che Bene, nonostante gli evidenti contatti con le avanguardie,permane all’interno di una tradizione culturale ben più antica, quella del grande attore ottocentesco. Ciò è evidente, in particolare, per quanto concerne i testi utilizzati sia nel teatro che nel cinema. Shakespeare in testa, sono i grandi maestri del passato ad offrire il miglior materiale su cui lavorare.
Proprio sui due binari di tradizione e avanguardia prende il via il progetto beniano di demolizione dell’immagine, nonché della comunicabilità filmica.
Quando Giancarlo Dotto chiede a Bene come sia arrivato al cinema, questi gli risponde: “dal detestar qualcosa. Per poi demolirla”,la domanda a questo punto è come. La  risposta è lui stesso a darla: “invece del racconto, questo bricolage di suoni e immagini destinato a una citazione di racconto, questa miriade di segni alla deriva dell’onda sonora che detta il movimento”.
Bene rifiuta di narrare;quand’anche la storia emerge, è solo per confondere ulteriormente i piani della narrazione. Per ottenere il suo scopo comincia a disfare l’impianto cinematografico dal suo costituente principale: il montaggio.
Febbrile e ossessivo, il montaggio dei film di Bene è la sede principale dell’opera di distruzione figurativa che attende le immagini girate: vivisezionate, le sequenze perdono il loro significato originale per  acquistarne uno nuovo che deriva  dall’accostamento di frammenti spesso così brevi da far sorgere nello spettatore il dubbio di aver solo immaginato ciò che hanno visto(o meglio intravisto). Il senso(o non-sense) permane negli interstizi, la sua sottrazione lo rende più evidente.
Il cinema di Carmelo Bene è contro il cinema: nessun “cinema de pàpa” da negare, nessun nuovo cinema da costruire, ma, tout court, il cinema da disfare in un progetto di annientamento che investe lo statuto di visibilità dell’immagine cinematografica e i codici della rappresentazione di cui si sostanzia e che nell’intenzione iconoclasta che lo muove non lascia possibilità di ricostruzione o di rinnovamento.
L’immagine artaudianamente sconcatenata   si sottrae a sé stessa attraverso la coazione a ripetere, che invece di dare maggiore vigore al messaggio lo sopisce, lo cancella.
Il dettaglio, l’ingrandimento eccessivo hanno lo stesso effetto di un rimpicciolimento estremo: la cancellazione.
 Bene “ crede che il cinema possa operare una teatralizzazione più profonda del teatro stesso, ma lo crede solo per un breve istante. Ben presto pensa che il teatro sia più adatto a rinnovare se stesso e a liberare le potenze sonore, che il cinema troppo visivo ancora limita, anche a costo che la teatralizzazione integri supporti elettronici piuttosto che cinematografici. Resta il fatto che ha creduto, in momento, il tempo di un’opera troppo presto interrotta, volontariamente interrotta, alla capacità che avrebbe il cinema di dare un corpo, cioè di farlo, di farlo nascere e scomparire in una cerimonia, in una liturgia” .

Capitolo secondo

“La cecità dell’immagine:
Nostra Signora dei Turchi”

2.1.  Biografia o Storia?

La parentesi “eroica” di Bene, ovvero la sua fase cinematografica, inizia ufficialmente con Nostra Signora dei Turchi , film del 1968 finito in concorso alla Mostra del Cinema di Venezia della contestazione . Benchè l’opera sia figlia di quell’anno così importante politicamente, citando le parole dell’autore, essa “[…] è dichiaratamente anti ’68, in dispregio non solo a quel “maggio italo-gallico”, ma a tutti i “maggi” socialmondani della Storia, in saecula saeculorum” .
Nostra Signora dei Turchi porta con se non una missione politica bensì epica: “parodia dell’intellettuale italiota (…), carico di zavorre iperstoricizzate, coppole e tricolori, poeti santi e navigatori”, questo film rappresenta un cortocircuito spazio-temporale in cui l’invasione d’Otranto da parte dei Turchi nel 1480 è raccordata a più riprese con un’altra invasione, quella dei turisti durante la stagione estiva. In questo complesso quadro la figura di Carmelo Bene, scissa in una moltitudine di ruoli, autobiografia del personaggio narrante e narrato, tende ad elidere la sua continua presenza sui vari piani della vicenda e lo scarto temporale tra invasori antichi e moderni per legare Storia e biografia, ottenendo così una non-storicizzazione dell’autobiografia ed un’attualizzazione della storia.
Il film si apre con la presentazione visiva e verbale del moresco Palazzo Sticchi, un falso storico in realtà  novecentesco: “…mentre procede il viaggio della macchina da presa dentro di esso, la voce fuori campo di Carmelo Bene ci descrive il palazzo come elemento di riferimento essenziale alla biografia del protagonista che gradualmente, si trasforma in autobiografia del narrante. Autobiografia vivente nel prodigio di un passato non concluso che si attualizza in un presente fuori dello stesso tempo  dello stesso spazio, e come conquista materiale e formale dell’immaginario”. Il palazzo rappresenta una sorta di cesura temporale che ingloba e fagocita vicende umane, Storia, Mito. Esso rappresenta due diversi passati: quello della memoria e quello dell’immaginario . Proprio all’interno dell’immaginifico passato tratteggiato da Bene si trova la sua storia; negli occhi di uno dei martiri della fede si legge lo sguardo del nostro. “Prigionieri, addormentati nell’Ade, i martiri-eroi, simboli di quella divina immagine creatrice e redentrice, celata dentro ognuno di noi, attendono di essere riconosciuti e risvegliati dalla luce a nuova vita. Lui, eroe-personaggio-Carmelo Bene, sprofondato nella morte, immerso in se stesso, non può ripetere né sottostare alla castrante situazione accaduta cinquecento anni prima. Ora deve liberarsi affrontando l’esperienza del proprio mondo interiore” . La liberazione di Bene avviene grazie al suo film, una feroce e divertita parodia della vita interiore .
Passato e presente si aggrovigliano fino all’implosione della logica temporale del racconto, il che si verifica fin dalla prima sequenza dove l’uso dell’imperfetto suggerisce alle vicende del personaggio un’aria di passato. Eppure ciò che accade conserva una continuità indefinita nel presente, non solo tramite l’esposizione verbale, quanto mostrando insistentemente dettagli del palazzo moresco e del “viaggio” della macchina da presa al suo interno .
Con Nostra Signora dei Turchi Carmelo Bene compie un delirante viaggio nel Sud del Sud dei Santi, luogo di residenza prescelto da matti e santi il cui più importante compito è assolvere le deformità stereotipiche con cui si suole condannare la minorità meridionale per tramutarle in virtù

2.2. La demolizione dell’impianto narrativo

“Il cinema è mezzo, strumento, procedimento e linguaggio” . Il cinema è comunicazione, dunque deve esserci un significativo rapporto tra funzione filmica e comunicabilità di referenti capaci di stabilire un senso esplicito. Negli anni trascorsi dalla sua nascita (28 dicembre 1895) al 1968 (anno in cui viene girato Nostra Signora dei Turchi), il cinema si è dato delle regole sulla rappresentazione filmica riguardanti l’ordine logico, le convenzioni spaziali e temporali. Ma come poteva il nostro Carmelo Bene attenersi a delle regole che contrastavano  il suo programmatico intento di demolizione del cinema . Carmelo fa violenza ad ogni convenzione e trova in nuove possibilità espressive un’efficacia superiore. Egli rifiuta di racchiudere il cinema  entro sistemi precodificati, non accetta di dover intendere il linguaggio cinematografico come “ traduttore o fissatore di determinati contenuti preesistenti all’azione linguistica” . Le soglie percettive possono variare grazie al genio di un autore capace di una puntuale de-costruzione dei sistemi tradizionali di rappresentazione, dei codici, delle meccaniche e delle regole canonizzate dell’esecuzione teatrale. Carmelo Bene giunge sino alla soglia della non-comunicabilità poiché il suo compito non è “spacciare storielle” . Egli rigetta categoricamente la tesi di un utilizzo del racconto cinematografico funzionale ad una narrazione lineare, per creare un  tipo di narrazione concentrico, “dove ogni elemento ha la sua pluralità di ruoli, una posizione polivalente e suscettibile di amplificazione dinamica ed estetica, polisense, esteticamente ambigua, logicamente contraddittoria, poeticamente indeterminata” . Nella narrazione filmica non vi è progressione di azioni o eventi, “si danno solo atti mancati, gesti sospesi, impasse” ; il più significativo esempio di ciò sta nel rituale delle cadute volontarie.
Carmelo-personaggio continua a gettarsi dalla finestra ancora e ancora, pur restando indenne. Bene-regista, citando Hitler, afferma: “per valutare il disfacimento di un corpo è indispensabile rapportarne la gravità all’altezza da cui è precipitato”…la traiettoria, dunque . Volendo essere meno criptici, nel momento in cui il corpo attoriale di Bene  si getta nel vuoto, l’azione è interrotta e il corpo resta sospeso per un attimo per poi trovarsi già a terra, dove il dolore è espresso “in una segmentazione del gesto propria di un corpo già trasformato in macchina” . Per il nostro è necessario sopprimere la traiettoria, o meglio l’intervallo tra inizio e fine del gesto, per conservare di Inquel gesto l’immediatezza . La potenza dell’atto sta nella sua sospensione, nella sua incompiutezza, nel suo non-essere.
Il rituale delle cadute involontarie comincia a mettere in atto quell’autofrantumazione dell’io pienamente raffigurata dai molti personaggi partoriti da Carmelo-auctor e resi vivi da Carmelo-actor . Si può ben dire, come fa Maurizio Grande che “ogni elemento, ogni componente testuale è investita da un principio dissociativo, da un automatismo oggettivante, da slittamenti continui del senso e improvvise defunzionalizzazioni e da proliferazioni di altri da sé, come presenze-assenze da inventare, il cui dispositivo è il \"corpo\": è l’uguale che prende a differirsi e come scrive Pierre Klossowski è \"l’uguale che si tratta di contraffare [e disintegrare] implicando una dissomiglianza\" nel gesto e nella voce” . Di qui  il senso di scene come quella di un gangster che spara alla sua immagine civile (il suo passaporto), o ancora la trasformazione del protagonista in un anziano frate a sua volta sdoppiatosi in un frate più giovane. Tutti questi doppi sono ferite dell’io, utili espedienti per la contraffazione di un’immagine due volte larvata dalla morte, quella di una realtà che non è più e quella registrata mai viva.
L.Esposito definisce “Nostra signora dei Turchi un film sulla dissipazione della soggettività in quanto tale, radicalmente differita nel doppio, nel triplo, nella moltiplicazione continua dell’esserci in / di un solo corpo dove ogni singolo movimento di macchina è rigorosamente marcato o interrotto, quasi solo immaginato come le ferite e le malattie di cui si vorrebbe vedere proliferare il proprio corpo […]. Nostra signora dei Turchi è la morte raccontata da un vivo” .

2.3. Ed ora la pellicola

Siamo nella primavera del 1968, a Carmelo Bene viene affidato dalla Nexus Film il compito di girare tre documentari nel Salento , di cui solo uno vedrà la luce Il barocco leccese, recentemente restaurato. Utilizzando i fondi stanziati per la realizzazione di questi lavori, Bene gira il suo primo lungometraggio Nostra Signora dei Turchi, senza neppure una vera sceneggiatura . I mezzi a disposizione della troupe, composta da Mario Masini (direttore della fotografia) e Bene (attore-regista-ideatore), sono decisamente limitati : attrici senza compenso e per le comparse “coloni indigeni acquisiti con un bicchiere di vino rosso procapite” . Il film è interamente girato negli ambienti “reali”, un unicum per Bene, con una macchina da presa Arriflex ST in 16 mm, poi ingrandito in 35 mm. Il girato viene letteralmente de-costruito in due settimane di montaggio grazie alla maestria di Mauro Contini, un montaggio forsennato capace di cancellare la narrazione per lasciar il posto alla demolizione.
Nostra Signora dei Turchi non merita ancora i prodigiosi montaggi dei successivi film di Bene , ma la sua realizzazione ha del miracoloso: “avevamo la pellicola misurata (…). Ci si arrangiava con gli scarti di pellicola, e con gli scarti s’addizionavano immagini ammantate di nulla, in nome di quel mio metodo ormai classico che aggiunge per sottrarre” .
Bene si avvicina al detestabile cinema per poter fare a pezzi il visivo fisicamente, materialmente. Il nostro Carmelo si scaglia contro l’immagine, contro la rappresentazione,         “il cinema è sempre servito a spacciare storielle, ma nessuno ha mai spacciato la pellicola (…). Squartata, bruciata, fatta a pezzi” . Nelle lunghe sedute di montaggio la pelle-pellicola subisce trattamenti inimmaginabili: trinciata con coltelli, bruciata con cicche di sigaretta, stropicciata  e calpestata fino a rendere impossibile un’oggettiva visione.
Insieme alla pellicola si distrugge ogni possibile incontro con il pubblico, volontariamente privato dell’opportunità di fruire l’immagine quanto il suo significato.
“Era questo disammantare l’ammanto che costituiva il mio primo film. Ma si è sempre al primo film. Si è sempre al primo verso, si è alla prima battuta. Si è sempre di prima, come mi piace ricordare” .

Capitolo terzo

 “Don Giovanni”

3.1. Don Giovanni: milletré occasioni mancate

1970: Don Giovanni, terza avventura cinematografica di Carmelo Bene.
Set del film una stanza d’albergo: tendaggi pesanti alle finestre, pochi metri reali a disposizione dilatati infinitamente nella finzione filmica.
Il film viene presentato a Cannes, alla Quizaine des realisaturs, nel maggio del 1970 e nell’agosto alla Mostra del Cinema di Venezia, un film castigato dalla distribuzione, meno che in Francia . A differenza dei due precedenti lungometraggi , quest’opera non ha origine da varianti letterarie né tantomeno teatrali. Il soggetto trae spunto da “Il più bell’amore di Don Giovanni”, una novella di Jules-Amédée Barbey d’Aurevilly, in cui il conte Ravila di Ravilès ricorda l’amore provato per una strana tredicenne, figlia di una sua amante, convinta di essere stata ingravidata dallo sguardo di Don Giovanni, durante un’esercitazione ad un  piano dai tasti che suonano a vuoto. Partendo da questo semplice episodio, il nostro Bene opera la decostruzione del mito di Don Giovanni dimenticando la sua storia e dilatando in modo estenuante la sua avventura con la piccola tredicenne, non ancora sfiorita in donna (Gea Marotta). Proprio lei, giovane e pura, marca l’impossibilità per Bene-Don Giovanni della copula. Ciò che viene raccontato qui è l’agire sospeso, irrisolto di un uomo per cui “di ogni donna messa a nudo il corpo è terra irriducibile, limite che esclude ogni conquista (…), conquistatore si, Don Giovanni, ma del suo proprio scacco(…), più che fallire non può il seduttore nella rovina in sé che germoglia e dilaga” .
 Carmelo Bene infligge un grave colpo al dongiovannismo già dal falso prologo in bianco e nero,  dove ostenta l’indifferenza del protagonista verso il catalogo delle dodici donne sfilanti dinnanzi al suo sguardo. In realtà tutte le donne del catalogo non sono che la ripetizione differita di un’unica donna, sempre la stessa, l’amata Lydia Mancinelli. Il corpo attoriale di Lydia si traveste per attuare un’impossibile seduzione, preso in un’estasi cosmetica crea altro da sé, moltiplica il suo essere: “è l’uguale che si contraffà implicando una dissomiglianza” .

3.2. L’amplificazione cancella il senso

Don Giovanni offre la risposta a come provocare i crampi alla rappresentazione, come distruggere l’immagine. “Amplificazione e ingrandimento: primissimi piani, dettagli, ferocità cromatica, corpo in frammenti simili a coriandoli, arguzia, sfocatura, sovrimpressioni, graffi sulla pellicola, montaggio al limite del subliminale, contrazione testuale, rumori, citazioni, phonè, vetri infranti? Questo film è un flusso e ci mostra la distruzione in un campo di battaglia composto di fotogrammi” .
Il particolarissimo montaggio fratto qui adoperato aiuta Carmelo Bene a disegnare il suo corpo a corpo con l’immagine, la sua strenua lotta per demolirla. Spazialità e temporalità sono dislocate da un montaggio che costringe l’immagine a “eccedersi in quattro-cinque-seimila inquadrature che sono altrettante traiettorie di caduta, fulminei inabissamenti durante i quali Bene prova a filmare tutti i singoli istanti di questa curva temporale, vista come una grande onda che travolge tutto al suo passaggio” . Questo accade soprattutto quando la bambina, la madre e Don Giovanni attraversano il corridoio che conduce alla camera rossa. Le loro immagini avanzano e retrocedono continuamente come la musica di un vecchio vinile rovinato, mediante variazioni della scala delle distanze create con il passaggio velocissimo dal dettaglio al primo piano e addirittura al primissimo. Si verificano anche repentine variazioni di direzione mediante continui salti in avanti e indietro.   Prende vita così un circuito dell’immagine in cui si iscrivono i personaggi con il loro innaturale incedere, scorrevole per qualche frazione di secondo, per poi interrompersi subitaneamente e riprendere dal punto di partenza. L’estrema sezionatura dei fotogrammi , la reale difficoltà nel recepire immagini che si susseguono ad una velocità impressionante disfa la narrazione, alcune sono talmente brevi da essere percepibili solo a livello subliminale ma questo non è ancora abbastanza. La vera ossessione del film è rappresentata dall’amplificazione, legata in prima battuta al gonfiaggio subito dalla pellicola nel passaggio da 16 mm a 35 mm. Oltre il puro dato tecnico, l’amplificazione è in grado di far esplodere i fotogrammi, fargli perdere la misura, la loro educata composizione. L’oggetto amplificato non guadagna visibilità, bensì si sfuoca perdendo ogni possibilità di essere decifrato, cancellandosi nel suo espandersi. L’eccesso si pone come regola e non permette più di cogliere la differenza tra accrescimento e diminuzione . Nel catalogo femminile a disposizione di Don Giovanni l’amplificazione diviene ingrandimento cutaneo: la cosmesi attuata sul volto di Lydia  eccede  l’intento di occultamento dei difetti per restituire volti devastati, in cui l’eccesso di  trucco pare abbia infine accelerato la distruzione del tessuto stesso, lasciandolo in preda a bolle pestilenziali. Preso dal deturpare l’immagine, il nostro Carmelo realizza un’ultima cosmesi: quella sui cadaveri . “Don Giovanni è un trattato sulla morte, sulla putrefazione dei morti ancora viventi” , sulla demolizione del corpo prima ancora che del vedere.
Questo film dissipa il movimento in ogni infinitesimale fotogramma, in ogni dettaglio: Lydia-amante-madre si fa persino quadro, si dà come pura immagine.
“L’effetto quadro” rappresenta la risposta alla preliminare domanda da cui parte tutto il cinema di Carmelo Bene: la differenza  tra l’immagine fissa e quella in movimento. “Detestandole entrambe, mi limito a dire che la virtualità d’un corpo in movimento è assai meno dinamica d’un virtuale apparentemente incantato una volta per tutte (olio su tela…), dove l’oggetto figurato sprigiona un’energia sospesa, impassibile d’una fruizione definitiva da parte di chi guarda. Al contrario, l’immagine in movimento non può generalmente sottrarsi al limite mediocre del già sciaguratamente espresso” .  Dunque Lydia diviene citazione viva ed esplicita della Baingneuse di Ingres per cambiare ancora e scivolare nella Venere allo specchio di Velàsqez.
Dall’immagine fissa, Bene trapassa fino all’immagine meccanizzata e artificiale della marionetta avvolta in fili che le danno la vita ed una pseudo-movenza , quegli stessi fili che cingeranno Carmelo Bene impedendo una volta ancora l’atto amoroso, la congiunzione dei corpi, impedendo il compiersi dell’essenza vera di Don Giovanni.

Capitolo quarto

 “Attraverso il cristallo”

4.1. L’immagine cristallo

Nei suoi saggi sul cinema, Gilles Deleuze dedica pagine ammirate all’opera cinematografia di Carmelo Bene, che considera uno dei massimi produttori di immagini cristallo. Sulla scorta di Bergson, nell’Immagine-tempo, lo studioso analizza questo concetto.
L’immagine  cristallo è data dall’accostamento di un’immagine attuale ad una specie di doppio, “la stessa immagine attuale ha un’immagine virtuale che le corrisponde come un doppio o un riflesso(…) vi è formazione di un’immagine a due facce, attuale e virtuale” . Le due componenti dell’immagine cristallo formano un piccolo circuito interno di elementi distinti, ma indiscernibili. Tale indiscernibilità rende impossibile attribuire in maniera definitiva la marca di realtà o di virtualità alle due facce del cristallo poiché esse sono, come afferma Bachelard, immagini reciproche. Esistono, inoltre, oggetti materiali che posseggono una natura doppia, capace di rendere ulteriormente indistinguibile il passaggio dal reale al virtuale: lo specchio  ne è un eclatante esempio. Il continuo ribaltamento insito nelle immagini speculari cresce di complessità nella pratica beniana: nel Don Giovanni Lydia Mancinelli vede emergere dallo specchio che le è di fronte un’immagine virtuale-citazione pittorica della Venere allo specchio di Velàzquez. Nel finale del medesimo film, lo specchio diviene protagonista: attraversato da Carmelo Bene, si riduce in frantumi, ma quando Lydia si china a raccogliere i cocci, ecco comparire il riflesso del nostro Carmelo, ingurgitato dalla magica superficie riflettente che torna ad essere integra. In Nostra Signora dei Turchi  Bene-protagonista nega il volto come unità e, nel rifletterlo allo specchio, inscrive dentro quest’ultimo l’immagine in primissimo piano di Santa Margherita, operando così una moltiplicazione dei piani di analisi. Non solo dunque l’immagine allo specchio è virtuale in relazione al personaggio attuale, ma c’è da tenere in conto l’attualità e la virtualità della santa, a sua volta riflessa, e le possibili combinazioni tra le varie entità del circuito così generato.  Ecco cosa rappresenta Nostra Signora dei Turchi , “un film sulla dissipazione della soggettività in quanto tale, radicalmente differita nel doppio, nel triplo, nella moltiplicazione continua dell’esserci in/di un corpo, dove ogni singolo movimento di macchina è rigorosamente mancato o interrotto, quasi solo immaginato come le ferite di cui si vorrebbe veder proliferare il proprio corpo” .
Non bisogna trascurare il fatto che alla base dell’immagine cristallo c’è una complessa relazione temporale studiata attentamente dal filosofo francese Henri Bergson a cui più volte Deleuze fa riferimento. L’immagine considerata attuale rappresenta il tempo presente, che subisce delle variazioni fino a divenire passato. Ma ciò non si verifica quando il presente non è più, bensì mentre è ancora. Questo vuol dire che l’immagine deve essere contemporaneamente presente e passata. Dunque “il presente è l’immagine attuale e il proprio passato contemporaneo, è l’immagine virtuale, l’immagine allo specchio” . Ne consegue che il tempo deve di continuo sdoppiarsi: “il tempo consiste in questa scissione, è essa, esso che si vede nel cristallo” . Ma attenzione a non dimenticare che tale scissione, non essendo totale, permette comunque al cristallo di vivere la sua reciprocità .
Il cristallo è il “limite sfuggente tra il passato immediato che non è già più e l’avvenire immediato che non è ancora (…), specchio mobile che riflette senza posa la percezione in ricordo” .

4.2.  Il cerimoniale del corpo

Perseguire la cecità dell’immagine. Forse è tutto qui il cinema di Carmelo Bene.  Ma, perché il nostro riesca nel suo intento, è necessario dare un corpo a questo cinema; che sia performatico, cerimoniale, patetico, "ridicolo", distante dagli automatismi del corpo quotidiano, ordinario del cinema di Andy Warhol . che possa darsi come puro cristallo. Diviene dunque necessario che il corpo cinematico passi attraverso un cerimoniale che permetta la sua trasformazione in corpo ora grottesco ora glorioso, “per giungere infine alla scomparsa del corpo visibile”. L’immagine visibile del corpo si (dis)fa (in) immagine orale. Parodia cerimoniale installata nel corpo stesso, nei gesti anche vocali, "l’aprassia e l’afasia sono due facce della stessa postura": afasia come "guasto della parola" e aprassia come "sincope del gesto". Corpo cavo; corpo come cavità orale (os oris "bocca"), voce, respiro. Corps subtil come lo ha definito Pierre Klossowski .
La cerimonia ha come scopo ultimo da raggiungere quello di “liberare il corpo del protagonista o del maestro di cerimonia, che passa attraverso tutti gli altri corpi” . Ecco dunque che ogni azione perde la sua naturalezza per dar vita ad una liturgia, come accade in Nostra Signora dei Turchi dove,  in seguito al rituale delle cadute volontarie, Bene è a terra, il dolore appare inumano, espresso da gesti propri di  un corpo tramutato in macchina, la morte  non riesce a compiersi, “mummia completamente bendata che non riesce più a farsi una puntura, la postura impossibile” .
La ritualità più assoluta si raggiunge nel Don Giovanni, opera interamente percorsa dai cerimoniosi tentativi del protagonista di conquistare la giovane fanciulla, figlia di una delle sue amanti. I rituali di seduzione hanno luogo in quattro momenti distinti: la preparazione del tè è il primo. Ogni suono, ogni voce è amplificata, tutti i gesti sono frantumati dal montaggio fratto che li rende macchinaci e innaturali, cancellando il corpo e la sua percezione in quanto tale.
Fallito il primo tentativo, eccone subito un altro: lo spettacolo dei burattini. La madre forza la figlia a guardare, ma ella si rifiuta e bacia ossessivamente il rosario, suo unico appiglio contro le tentazioni. Don Giovanni anima i burattini senza però riuscire ad attirare lo sguardo della piccola che fugge rigirandosi, dunque è costretto a muoversi  continuamente intorno ad ella per poterlo intercettare, il che impedisce il compiersi dell’azione.
Terzo tentativo: la strategia si svolge ora mediante oggetti religiosi, corone e crocifissi. Le immagini si confondono e divengono irreali, lo sguardo della bambina si fa vertiginoso e vaga tra i ceri. Dinanzi ad un altro fallimento codificato Don Giovanni intraprende l’ultimo tentativo di seduzione, l’ultima estrema contraffazione di sé: vestito da Cristo avanza verso la giovane e, tra ripetute sospensioni  rallentamenti, anche il sonoro perde definizione. Ad un tratto la sua immagine si sblocca e precipita sulla bambina che risponde con uno sputo.
Le quattro cerimonie terminano tutte con un fallimento sintomatico dell’impossibilità  del compimento. L’agire è sottratto poiché per Bene “il cinema non fu in grado di farsi corpo e, comunque, questo coma somatico, relitto sopravvissuto al tormentone dell’aprassia, è svanito. (…)  Ho sentito l’urgenza di sfidare, frantumandola,  l’immagine-corpo, già di per sé due volte larvata nella virtualità dell’obitorio cinematografico” .

Conclusioni

Cala il sipario

Nel corso di questo breve lavoro abbiamo analizzato un aspetto del lavoro da cineasta di Carmelo Bene, forse l’ultimo grande autore di un secolo ancora troppo confuso, il ‘900.
La mania classificatrice degli studiosi ha forzosamente inserito la cinematografia beniana nell’Avanguardia forse perché, una volta circoscritto il fenomeno, diviene di gran lunga più facile abbandonarlo nell’oscuro dimenticatoio delle espressioni culturali non di massa. Ma non si può certo dire che il nostro non sia un osso duro, capace di resistere al mondo, come alla malattia, come ai critici incompetenti che, rifacendosi alla vecchia massima “condanna ciò che non comprendi”, l’hanno spesso ostacolato. Proprio come accadde nell’indimenticabile  edizione della Mostra del Cinema di Venezia del’68 quando Carlo Mazzarella, inviato di punta della RAI, stroncò in diretta televisiva Nostra Signora dei Turchi , in concorso alla mostra. Bene e i suoi amici erano sufficientemente ubriachi per ingaggiare una discussione con il critico e così, quando Perla Peragallo chiede: “Che faccio gli do uno schiaffo?” e Bene le risponde: “E perché no”, il ceffone appare inevitabile.
Passano vent’anni e Il nostro Carmelo avrà di nuovo a che fare  con le mostre veneziane, ma questa volta in un ruolo completamente diverso: 1988, durante una rappresentazione de “Homelette for Hamlet” al Teatro Quirino, arriva la folgorante notizia della nomina di Bene come direttore artistico della sezione teatro della Biennale. Questa decisione risultò agli occhi degli addetti ai lavori una follia, “come insediare un serial killer alla presidenza del Telefono Azzurro” . Come era facile prevedere, questa storia non ebbe esiti positivi, tutt’altro, fu l’antefatto di una diatriba durata due anni, finita a colpi di querele e carta bollata.
Al di là del suo spiacevole esito, questa faccenda ci porta a riflettere sull’erronea attribuzione di Bene ad una qualunque lobbies artistica poiché, se si esclude quella degli Asinelli, il nostro non si è mai chiuso in nessuna torre, non ha mai risparmiato a se stesso alcuno sforzo per esserci, convinto com’era che “in Italia basta voltarsi un attimo e non si è più,non si è mai stati”. 
Fissare Carmelo Bene in uno qualsiasi dei suoi innumerevoli stilemi vuol dire ucciderlo perché, come afferma Gilles Deleuze, “la potenza di un artista è il rinnovamento” .
Ma, se è così semplice essere dimenticati, cosa rimane oggi di Carmelo Bene e del suo cinema?
Non è semplice trovare epigoni del nostro nell’attuale panorama cinematografico, è probabile che non ce ne siano, eppure possiamo rintracciare alcuni elementi di matrice beniana tanto nel cinema quanto, forse in misura maggiore, nelle nuove forme della comunicazione per immagini.
Per quanto concerne la sua attitudine alla distruzione della narrazione, sono di certo in molti i registi che tentano questa via, sebbene non con il suo stesso estremismo. Ormai non è più tempo per il montaggio lineare, tutto è già visto, già fatto. Bisogna sconvolgere a tutti i costi per avere la possibilità di restare più di trenta secondi nell’alluvionato flusso comunicativo. C’è inoltre da considerare che l’avvento del montaggio digitale ha reso in pratica una bazzecola decostruire una storia: non sono più necessarie notti intere in oscure salette di montaggio in cui tagliuzzare fotogramma dopo fotogramma per poi vedere sorgere un novello Frankestein.
Al di là della tecnica, un film in cui si può percepire una qualche eredità beniana è “2046”, l’ultimo film del maestro del cinema di Hong Kong Wong Kar Wai. Questo film è diretto innegabilmente con grande maestria e un labor limae immenso, con la solita ricerca sulle superfici riflettenti, sui dettagli umani, sui confini della pellicola, che abbiamo già visto in altre opere del regista come “In the mood for love”(2000). Questa non-storia si esplicita non grazie ad una struttura narrativa logicamente consequenziale, ma attraverso una messa in scena che si fa veicolo profondo e prezioso di una continuità emotiva, che è poi il principio fondante di tutto il cinema di Wong Kar Wai. Tornando a “2046”, esso è  il titolo del suo decadente ed erotico romanzo di fantascienza. Ma 2046 è il posto dove va a finire la memoria, è anche in un certo senso quel buco in cui Chow sussurrava il suo segreto. E\' un luogo senza spazio fatti di volti e di ricordi. Qui, in questo claustrofobico luogo, che fa tornare alla mente ogni set di Carmelo Bene, il melodramma non nasce da un racconto, ma da un’atmosfera, creata da un sovrapporsi  immagini, suoni, colori. In un certo senso “2046” è il risultato finale di tutti gli esperimenti estetici tentati in precedenza dal cineasta, e perciò si rivela ben presto quale “opera summa”, film-limite, esperienza sensoriale prima di ogni altra cosa.
Come dicevamo in precedenza, un montaggio decostruito, l’assenza di una vera e propria storia da narrare sono caratteristiche riscontrabili anche in forme video diverse dal lungometraggio, come il video-clip, il cortometraggio o la pubblicità . Queste forme brevi, non avendo a disposizione i tempi di un film, sviluppano la narrazione (quand’anche essa esista) attraverso colpi di scena, quadri espressivi. Il loro obiettivo non è raccontare, ma mostrare. Il registro linguistico diviene inadeguato: lasciamo  che i nostri occhi siano abbacinati da tali espressioni visive fino in fondo.
“Carmelo Bene ha anticipato –come tutti i grandi poeti dell’inattualità  artistica che si muovono sulla tragica soglia di un negativo che possa condurre al costruttivo- ridondanti culture della visione, densi attentati formali e curatissimi decentramenti del gusto”.

                        
Sipario

 Appendice

“Antologia di fotogrammi”

  Il rituale delle cadute volontarie

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Carmelo Bene in Nostra Signora dei Turchi (1968)

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 Carmelo Bene in Nostra Signora dei Turchi (1968).

Demolizione Immagine Cinema Carmelo Bene clip image006      Lo specchio e l’immagine cristallo: Carmelo Bene in Nostra Signora dei Turchi (1968).

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Carmelo Bene e Lydia Mancinelli in Nostra Signora dei Turchi (1968).

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Immagine fissa e immagine movimento;
Lydia Mancinelli in Don Giovanni (!970).

Lydia Mancinelli in Don Giovanni (!970).

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Ancora un’immagine cristallo;
Carmelo Bene in Don Giovanni (1970).

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Primo rituale di seduzione: la cerimonia del thè; Carmelo Bene e Lydia Mancinelli in Don Giovanni (!970).

Secondo rituale di seduzione: il teatro dei burattini; dettaglio di fata in Don Giovanni (!970).

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Terzo rituale: i doni di Don Giovanni;
Gea Marotta in Don Giovanni (1970).

Ultimo rituale: Travestirsi da Gesù Cristo; Carmelo Bene in Don Giovanni (1970).

Bibliografia      

 A. Amendola “Carmelo Bene. Un’avanguardia tra reinvenzione e riscrittura simbolica” in Quaderni del dipartimento di Scienze della Comunicazione n.2 Simboli, linguaggi e contesti, Carocci editore, Roma 2002;
A. Amendola “Dell’eterno ritorno. Totò nell’avanguardia scenica tra Leo De Bernardinis e Carmelo Bene” in Quaderni del dipartimento di Scienze della Comunicazione n°3 Linguaggi e maschere del comico, Carocci editore, Roma 2002;
A. Aprà “Bene oltre lo shermo” in Per Carmelo Bene Linea d’ombra, Milano 1995;
C. Bene “autografia di un ritratto” in Opere, Bompiani 1995;
C. Bene “Nostra Signora dei Turchi” in Opere, Bompiani 1995;
C. Bene “La voce di Narciso” in Opere, Bompiani 1995;
C. Bene “Sono apparso alla Madonna in Opere, Bompiani 1995;
C. Bene–G. Deleuze “Sovrapposizioni” Feltrinelli, Milano 1975;
C. Bene-G. Dotto “Vita di Carmelo Bene” Bompiani, Milano 1988;
J. Narboni, “Carmelo Bene: Nostra Signora dei Turchi”, Cahiers de Cinema n. 206, 1968, Parigi;
R.Censi (speciale a cura di) “Giocare col fuoco” in  Cineforum 437 fascicolo n.7 Agosto/Settembre 2004;
G. Deleuze “L’immagine-tempo”, Ubulibri, Milano 1989;
A. Di Caccia-M. Recalcati “Jacques Lacan” Mondadori, Milano 2000;
E. Ghezzi “Il cinema che non si vede” in Film critica, fascicolo n.524 Aprile 2000;
L. Esposito “Il cinema Bene non esiste” in Film critica, fascicolo n.524 Aprile 2000;
M. Grande (speciale a cura di) “Carmelo Bene, il circuito barocco” in Bianco&nero  n.11-12 Settembre/Ottobre 1973;
M. Morandini “Il Morandini dizionario dei film” Zannichelli, Bologna 2003;
P. Bertetto “Il cinema d’avanguardia” Saggi Marsilio, Venezia, 1983;
F. Quadri (speciale a cura di) “Don Chisciotte di Bene,
barocco della crudeltà” in Sipario n.278- 279, 1969, Milano;
I. Moscati “Una rivoluzione che parte dal teatro” in Sipario n.270, 1968, Milano;
G. Bartolucci “Il trittico-immagine” in  Scrittura scenica n.3, 1971, Roma.
C. Saba, Carmelo Bene, Milano, 1999, Il castoro cinema.

Filmografia

“ Nostra Signora dei Turchi” 1968;
“Capricci” 1969;
“Don Giovanni” 1970;
“Salomè” 1972;
“Amleto di meno” 1973.

Interventi televisivi

Maurizio Costanzo Show “Uno contro tutti” 27 Giugno 1994;
Maurizio Costanzo Show “A dispetto di tutti” 23 Ottobre 1995.


INTERVISTA di Cesare Balbo de L'ESPRESSO

Il regista de "Il Mestiere delle Armi" impegnato nelle riprese del nuovo lavoro, "Cento Chiodi", girato tra Bologna, gli argini del Po e il mantovano. L'intervista esclusiva di Cesare Balbo

\"Sul
L\'accoglienza sul set di San Giacomo Po (in provincia di Mantova) dove Ermanno Olmi sta girando il suo nuovo lavoro Cento chiodi , richiama un altro film del maestro \"Lunga vita alla Signora!\". Seduti a tavola col maestro e col protagonista Raz Degan, (centrato sulla sedia in posizione yoga con barba da asceta) per dialogare, in forma conviviale, su come liberarsi dai cliché.
Sono proprio gli stereotipi a ricorrere nel film, giunto ormai al giro di boa delle previste otto settimane di riprese. Olmi continua a interrogarsi e a farci riflettere su come trovare senso di questi tempi, agitati da diffusa incertezza. Poiché è poco incline a far uso di un copione chiuso, glissiamo sulla trama tuttora in progress, come il titolo. Il film in uscita agli inizi del prossimo anno, ha per protagonista un giovane professore che si \"schioda\" dallo status sociale e approda in riva al Po dove intreccia intese e rapporti con abitanti del posto, tra cui la Zelinda (Bendandi), da pronunciarsi con zeta sibilante, come divertito scandisce il regista.

E\' vero che come altri grandi registi preferisce lavorare con un copione aperto, scritto giorno per giorno quasi in tempo reale?
Per me l\'ideale sarebbe ritornare alla creatività della commedia dell\'arte, all\'uso del canovaccio che cambiava a seconda delle circostanze e delle situazioni che si determinavano sul palcoscenico, anche in rapporto all\'umore degli attori e del pubblico. Le battute da recitare si trovano e provano solo qualche istante prima di girare una scena. Le volte che dico stop mi spiace di aver fermato definitivamente e immobilizzato un istante di vita in un fotogramma. Il film tradisce sempre la vita che come l\'acqua è sempre in movimento. Tuttavia un\'idea su come andrà a finire dovrei già averla.

Nel \'90 ha girato il documentario \"Lungo il fiume\" che raccontava approfonditamente la trasformazione del Po. C\'è qualche elemento di continuità tra Cento Chiodi e il precedente lavoro?
Esiste eccome. A livello simbolico varcare gli argini, che un fiume ha rispetto al mare, equivale a varcare una linea di confine e andare verso uno sbocco. Insomma è come andare incontro al mare della vita. Ma per lasciarsi dietro la zavorra bisogna prima individuare quel che non va\".

E i chiodi del titolo alludono alla possibilità di fissare quel che non va?
Certo perché aiuta a immobilizzare qualcosa che ti impedisce di vivere e ti boicotta. I chiodi servono al protagonista per inchiodare e neutralizzare il passato. Una sorta di opposizione e ribellione a ciò che ti è ostile.

Che cosa spinge il professore del film interpretato da Degan ad appendere al chiodo un ruolo e una a parte di se\' che non sente più suoi?
Non è qualcosa di preciso, è un inappagamento indefinito , un malessere inafferrabile. Se a Tien An Men i giovani individuavano nei carri armati ostili il nemico da sconfiggere, Raz non sa qual è il nemico, sa solo che per rinascere deve rompere gli argini.

Maestro come è avvenuta la scelta di Degan come protagonista del film?
Devo dire che per farlo non mi sono fatto condizionare, è necessario respingere i condizionamenti che non sono mai una scusante, da un certa immagine mediatica precostituita: cambiare parere è spesso una conquista soprattutto per se stessi. Così quando si è presentato al provino sono andato oltre un certo cliché, ed ho notato un altro Degan dallo sguardo profondo, di chi guarda perché è consapevole di esistere. Inoltre Raz era adatto al ruolo principale perché prima del film ha fatto lo stesso percorso di formazione del protagonista , maturando la consapevolezza della ricerca nonostante le insidie della notorietà e del successo.

Il \"professorino\" (come lo definisce Degan) che dalla città va a vivere in un rudere in riva al fiume ricorda un altro suo film-documentario \"Il tempo si è fermato\"(1959) dove si racconta lo stile di vita silenzioso di un vecchio guardiano di una diga d\'alta montagna. E\' dunque più importante stare a contatto con la natura che con i libri?
La saggezza della natura deriva dalla sua presenza e dal sentirla vicina senza che si dia delle arie. Mai come adesso l\'uomo deve tornare a interloquire con la natura ma con la consapevolezza dell\'uomo di oggi, non certo con un approccio ingenuo. Tuttavia nell\'età della tecnica è importane fare della scienza un uso più consapevole, che si ottiene solo quando la conoscenza capisce il valore della vita. Devo dire che sono disincantato e disilluso sulla funzione dei libri perché nonostante tutto non ci hanno preservato ed evitato di commettere certi sbagli. Compie un gesto di liberazione il professore, prima di andar via dalla città, conficcando chiodi nei libri della sua biblioteca.

Dopo i suoi ultimi film storici lei torna a muoversi nella contemporaneità tra le vicende della quotidianità. Che differenza c\'è a fare un film sull\'oggi senza la mediazione e la distanza del passato?
Ne \"Il Mestiere delle armi\" c\'era una evocazione del passato per una denuncia sempre attuale sulla minaccia degli strumenti bellici. Si può dire che il sedicesimo secolo italiano del condottiero Joanni de\' Medici, colpito a morte da un colpo di bombarda di grande gittata, evocativamente bussava al presente. Il diciottesimo secolo cinese di \"Cantando dietro ai paraventi\" è un passato divenuto leggenda attraverso la parabola della vedova Ching, che, al comando di un flotta corsara, si ribella all\'imperatore. Con \"Cento chiodi\" il presente bussa al presente per rammentarci di scegliere da che parte stare. E\' una scelta morale che coincide col giudizio che oggi diamo di noi stessi.
 
 

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Università degli Studi di Salerno 

Facoltà di Lettere eFilosofia
Corso di Laurea in Scienze della Comunicazione

 Tesi di Laurea in Sociologia dei processi culturali

 “La demolizione dell’immagine nel cinema di Carmelo Bene”

Candidata Concetta Brunetti
Relatore  prof. Luigi Frezza
/ Correlatore prof. Alfonso Amendola

                         Anno accademico 2004/2005


Indice
 
                 “Introduzione”                                          
 
Cap.1      “Alla sorgente del Bene”                                     
      §1.1   “Bene e l’avanguardia cinematografica”             
      §1.2  “La negazione nella cinematografia dada e surrealista”                                                
      §1.3  “Oltre il surrealismo: Artaud cineasta”        
      §1.4  “E’ la volta di Bene”                                     

Cap.2      “La cecità dell’ immagine: Nostra Signora dei    Turchi”                                                              
      §2.1  “Biografia o storia?”                                     
      §2.2  “La demolizione dell’impianto narrativo”             
      §2.3  “Ed ora la pellicola”                                     

Cap.3      “Don Giovanni”                                          
      §3.1   “Don Giovanni: milletré occasioni mancate”      
      §3.2   “L’amplificazione distrugge il senso ”         

Cap.4       “Attraverso il cristallo”                               
       §4.1  “L’immagine cristallo”                                
       §4.2  “Il cerimoniale del corpo”                           

   “Conclusioni”                                             
  Appendice  “Antologia di fotogrammi”                          
   “Bibliografia”   

da:
http://www.espressonline.it/eol/free/jsp/detail.jsp?m1s=null&m2s=c&idCategory=4797&idContent=986801