Regia: Martin Scorsese; Interpreti: Harvey Keitel, Robert De Niro, David Proval, Amy Robinson, Richard Romanus; Origine: USA; Anno: 1973; Durata: 110’
Charlie è un trentenne italoamericano diviso tra l’aspirazione a una scalata sociale offerta dallo zio mafioso e l’amicizia e l’attaccamento al suo gruppo di amici, in particolare a Johnny Boy, scapestrato e arrogante. Le situazioni in cui Johnny Boy trascina l’amico sono sempre più pericolose e la vita di Charlie è complicata anche dalla relazione con Teresa, cugina epilettica di Johnny, non ben vista dallo zio.
Schermo nero. Una voce di uomo pronuncia alcune parole: “You don’t make up for your sins in church. You do it in the streets. You do it at home. The rest is bullshit and you know it” (“Non rimedi ai tuoi peccati in chiesa. Li sconti per le strade. Li sconti a casa. Il resto sono stronzate, e lo sai.”). Non appena ha finito di parlare, nell’inquadratura appare un giovane che si sveglia di soprassalto, sollevandosi sugli avambracci. La stanza è semibuia, la luce proviene dalla finestra, filtrando dalle veneziane socchiuse. L’uomo si passa una mano sugli occhi (il sogno sembra averlo turbato), scosta le coperte e si alza dal letto. La mdp lo segue, senza staccare, mantenendolo quasi sempre in primo piano. Fa qualche passo e si guarda in uno specchio appeso al muro di fronte al letto. Sospira, si passa ancora la mano sul viso, sospira di nuovo. Poi, facendo il tragitto inverso, torna a letto. Si sentono rumori di automobili che passano, clacson, una sirena della polizia. Pochi movimenti, molta verosimiglianza e “naturalezza” della scena. Ma ecco che, mentre si sta coricando, tre veloci stacchi avvicinano sempre di più l’inquadratura, passando da un piano americano, a un piano medio, a un primo e un primissimo piano, mantenendo sempre la stessa angolatura e coordinando il primo e il terzo stacco con le battute iniziali di “Be my baby” delle Ronettes. La canzone prosegue, l’uomo si passa ancora le mani sugli occhi, si gira di lato e l’inquadratura (ma non il sonoro) cambia: iniziano i titoli di testa di Mean Streets.
Non succede niente in questa sequenza iniziale, c’è solo un ragazzo che si sveglia di soprassalto e si rimette a dormire. Proseguendo nella visione, capiamo che Scorsese ci dà qui dei suggerimenti su come guardare al protagonista, Charlie (Harvey Keitel, alla sua terza collaborazione con Scorsese), le cui notti sono evidentemente turbate da quello che si rivelerà essere un tormento interiore, un conflitto tra i dettami della religione e la sua vita quotidiana, tra la devozione agli amici del quartiere e la sua ambizione, e tutte le conseguenze che ne derivano. Perché, come Scorsese stesso ricorda nelle battute iniziali (la voce off dell’inizio è quella del regista), i peccati si scontano in strada (le mean streets del titolo) e a casa, non confessandosi in chiesa. Ma sono la naturalezza del risveglio di Charlie e, in contrapposizione, il “virtuosismo” di quei tre stacchi a fine scena montati sulle note della canzone delle Ronettes che proprio non ti aspetti, che mi spiazzano ogni volta e rendono la sequenza iniziale di Mean Streets la mia preferita.
L’uso della musica, una canzone che ha un forte contrasto rispetto all’atmosfera che già si respira nelle prime inquadrature del film, così tesa e quasi cupa, e la contravvenzione alla regola dei 30° del cinema “classico” (secondo cui due inquadrature di uno stesso oggetto devono differenziarsi di almeno 30 gradi l’una dall’altra, altrimenti si avvertirà uno “sbaglio” nel montaggio) catturano l’attenzione, fanno scattare quella curiosità che ti incolla alla sedia e ti costringe a continuare la visione. Niente di eclatante, piccoli particolari che costruiscono una certa atmosfera e sono la firma del regista: insomma, ciò che ti fa innamorare di un film.