A leggere tutto d’un fiato il libro (120 pagine per Mondadori) viene quasi voglia di farle una carezza, a questa donna che ha reso grande il cinema italiano, seppellendo involontariamente nella sua anima il dondolio giusto e gentile del quieto vivere. Se volete farvi un regalo in ricordo di Monica Vitti, a un anno esatto dalla sua scomparsa, per una volta scartate la possibilità di uno dei tanti bei film interpretati in quarant’anni di carriera e concedetevi il suo divertito e spumeggiante mémoire. Si tratta de Il letto è una rosa che Mondadori ripropone in una nuova edizione quasi trent’anni dopo la sua prima pubblicazione del 1995. Una composizione bizzarramente dadaista, gioiosamente arruffata, oniricamente felliniana, che la Vitti si autodipinge addosso lungo la prima infanzia, adolescenza, età adulta, sogno spesso rocambolesco e proiezione di sé oltre il reale, come fosse un personaggio alla Borges. “La mia vita, però, non la so raccontare, perché appena la guardo per farla diventare parole, si nasconde”, reitera il concetto più volte nel suo libro la protagonista de La ragazza con la pistola e Ninì Tirabusciò. Il letto è una rosa è tutto un inseguimento del ricordare, rapide e succinte tracce esistenziali che c’entrano poco con l’aneddotica professionale nel cinema. Così se la memoria, che sfugge, è “una truffa” (meglio “il ricordo”); e se la “smemoratella”, così i genitori chiamavano Monica piccina, invece sui set aveva “una memoria di ferro”, ecco che la ricostruzione di una vita non passa per forza dal passato, ma si inchina nella confusione creativa e psicologica del presente, il presente Vitti del 1995 che sembra ri-nascere in un pomeriggio di primavera dentro alla saletta della moviola, a Roma, in via Margutta. Nel ricostruire un’altra storia, quella del fantomatico film Pareti bianche e occhi azzurri, la Vitti, che montatrice non è mai stata, ma dentro le storie ha montato emozioni, significati, direzioni, si cimenta nell’impossibile lavoro da concludere e consegnare ad un produttore (francese ed incazzato per il ritardo). È qui che mente e desiderio cominciano a frullare. Tra statue che camminano, alberi che cambiano posizione, una chiacchierata con il cappotto appeso all’attaccapanni, un sogno con una donna che la prende a sberle perché non la sta facendo “ridere” e l’immagine di mamma riflessa in uno specchio che intima ordini prima di scomparire, l’attrice romana ricostruisce un sé sfuggito e sfuggente, utilizzando l’umorismo per suturare la perdita per strada dei dettagli. Ha sempre fame, Monica. Ha sempre avuto fame la protagonista del trittico L’avventura-La notte-L’eclisse: un “panino al prosciutto” quando scriveva soggetti e sceneggiature, “mele annurche” mentre era alla ricerca di aggettivi, almeno “due bignè e un cono gelato” dopo dieci minuti di inattività. Buffa e disperata, Monica che scrive “per aprire le porte chiuse, per portare una candela nella stanza buia, per trovare una lettera che mi racconti quello che è successo”; ma anche per non “suicidarsi” anche se con un pennino, piano piano, scavando potrebbe arrivare al cuore. La Vitti, come riproponendo il personaggio della maturità, quel prisma femminile carico di vivace sensualità e svampita comicità, balbetta, circumnaviga, ostenta il controllo della materia esistenziale e sceglie ancora una volta una captatio divertita e assertiva. Come quanto chiede rispetto per la (sua) pazzia (“quasi nessuno accetta volentieri la libertà di un pazzo. Il che è giusto nel caso di un pazzo aggressivo e violento; ma la libertà di un pazzo tranquillo e sereno, che non fa male a nessuno, a chi mai può far paura? Se non la si accetta, è tutta invidia”) o rievoca quel collega dell’Accademia che la invitò distratto ed altezzoso a salire in casa sua e lei prima titubante, poi convinta, infine lo lasciò con pantaloni e mutande calate optando per un altro impegno giù da basso. Buffa Monica che rivorrebbe il suo cane che “con gli occhi la rasserenava”, elogia gli uomini con la barba (“un viso pulito è anche un po’ banale”), sbeffeggia gli psicanalisti (“troppo facile, ascoltare e prendere i soldi. Venga a casa a risolvere i miei problemi, compreso quello dell’idraulico. Non faccia finta di essere un vero medico, non lo è, è uno con cui si parla, un confidente”) e che infine svela dolce e delicata la verità su quel “male ai capelli” in Deserto Rosso: “Che i capelli mi abbiano sempre fatto male, a me sembra molto naturale, cioè mi stupisco che non facciano male anche agli altri. È una parte del corpo, ha diritto al dolore. Ma intanto qualcuno ne ha approfittato per etichettarmi: “Le fanno male i capelli, poverina, che ci vuoi fare, è alienata”. Così a leggere tutto d’un fiato Il letto è una rosa (120 pagine) viene quasi voglia di farle una carezza, a questa donna che ha reso grande il cinema italiano, seppellendo involontariamente nella sua anima il dondolio giusto e gentile del quieto vivere.