Sabato, 26 novembre, all’apertura di Verso Sud, il festival di cinema italiano di Francoforte, la proiezione serale era dedicata all’ospite d’onore di quest’anno. Ogni edizione il festival decide di approfondire l’opera di un grande autore o autrice del nostro paese.
Questa volta si tratta di Cristina Comencini, regista tra le più apprezzate anche all’estero come testimonia la candidatura all’Oscar nel 2006 con il film la Bestia nel cuore e i cui film purtroppo in Germania sebbene sia conosciuta e riconosciuta, non sempre hanno trovato un distributore per le sale.
Abbiamo avuto il piacere di incontrarla poco prima della proiezione del suo film Latin Lover, uscito nel 2015.
Ai tavolini del Filmmuseum iniziamo un’intervista che si trasforma in una breve e rilassata conversazione. Le domande di rito sulla sua impressione riguardo a Francoforte e alla Germania sono una pratica sbrigata in fretta. Ci dice che a Francoforte è la prima volta ma è appena arrivata: “ho visto solo una grande e bella città, tutta natalizia”. In Germania invece non è la prima volta, è stata a Berlino che, si capisce, le piace molto: “Sono stata a Berlino per La bestia nel cuore, che ha anche vinto un premio, quindi diciamo che ho un buon rapporto col pubblico tedesco. Vorrei conoscerla di più, mi piace molto”.
La presenza nel cuore della Germania è occasione per discutere, se non della città, almeno della sua impressione sulle differenze “cinematografiche” con l’Italia. Ci dice che “il festival di Berlino è un festival molto impegnato. C’è una differenza forse a livello popolare. Ho la sensazione che ci sia una grande organizzazione molto buona per il cinema d’essay e per i festival, ma poi a livello popolare invece vada più il cinema americano. Noi invece abbiamo un cinema popolare, il nostro cinema è stato storicamente un cinema popolare anche se ha avuto un calo”. Ci fa notare così che questa è un’arte che ha bisogno di rinnovarsi continuamente, così se vogliamo trovare una ragione alla diminuzione degli spettatori di film italiani avanza l’ipotesi che poi ribadirà anche alla fine della proiezione, quando risponde alle domande del pubblico “io ho l’impressione che in Italia abbiamo fatto troppe commedie, le produzioni hanno visto che funzionavano e ne abbiamo fatte tantissime” e poi di nuovo sollecitata ammette il dubbio che “se in Germania il cinema francese riesce a venire distribuito e quello italiano no, non è perchè manca l’interesse ma forse perchè qualcuno sbaglia a promuovere i nostri film all’estero“.
Ci chiediamo se non sia anche un problema di regolamentazione. Altri, sempre nel contesto del festival del cinema italiano ci hanno esposto lamentele, non particolarmente originali, sull’inefficienza del sostegno delle istituzioni all’arte cinematografica e soprattutto alla sua diffusione. “Io sono contro le lamentele” taglia corto, “hanno appena passato una legge, da poco, che dovrebbe riordinare un po’ le cose, ora stiamo a vedere. Io sono contro il lamento, la mia filosofia è quella di capire cosa anche in noi cineasti non funziona”.
Poi il discorso verte abbastanza velocemente sul tema delle relazioni tra donne e uomini nella nostra società. “Al cinema le donne si sono avvicinate molto tardi, perché è un lavoro di comando, è sempre stato un lavoro maschile”.
Traccia poi un parallelo con la letteratura, l’altra sua grande passione. Cristina Comencini infatti è anche scrittrice, l’ultimo suo libro è Essere vivi e poi è anche autrice di teatro alcune di esse da lei stessa trasposte sul grande schermo. “In letteratura le donne hanno iniziato ad essere presenti già nell’Ottocento. Nel cinema dobbiamo ancora fare questo lavoro. D’altronde la storia delle donne è una storia millenaria. È una trasformazione epocale, è la prima volta nella storia.”
Il tema è affrontato nell’opera di Cristina Comencini, anche nel film proiettato quella sera stessa. La questione di genere però non è un semplice oggetto da spulciare, ma parlando con l’autrice, emerge in maniera chiara che si tratti di qualcosa di più. Come una cornice generale che permette e pervade il suo lavoro, non come semplice scelta: “Il cinema rispecchia la società e quando nella società le donne riprendono la scena, aumentano anche i film girati da donne. Ma non è che le donne debbano affrontare solo questioni ‘da donne’. Io penso che lo sguardo femminile sia su tutto”.
Ne ha anche per gli uomini, soggetti evaporati – come si sente dire a volte – un po’ come il Latin Lover del film, morto e idealizzato che da “fantasma” continua a condizionare le vite dei suoi amori e delle figlie tramite un’immagine di cui egli stesso è in parte imprigionato. Un film la cui lettura più volte, anche dopo la proiezione, la regista identifica e rimanda alla rappresentazione e all’omaggio al grande cinema italiano del passato, ma che si presta facilmente per essere letto come uno smascheramento della figura classica del latin lover.
“Io credo che siamo arrivati ad un punto in cui le donne non possono più andare avanti da sole. Siamo ad un punto in cui non c’è avanzamento se non con gli uomini. Gli uomini devono fare un lavoro su di sé che ancora non è cominciato. Gli uomini dicono che son solidali con le donne ma è come se non volessero vedersi”. L’idea è che le donne che sempre di più acquisiscono sicurezza e potere non solo impauriscono l’uomo ma ne scatenano la reazione.
Ma le cose stanno cambiando: “Avanza lentamente una cosa gigantesca e ci vuole del tempo. E non si torna indietro mai” ci dice. Riporta un ricordo di uno dei fratelli Taviani, “Una volta durante un dibattito uno dei fratelli Taviani mi disse: “Cristina la verità è che un po’ di sangue deve scorrere” cioè le cose cambiano ma non possono farlo morbidamente”. Ci vorrà del tempo.
Alessandro Grassi