I GENERI MODERNI (XII)
IL MUSICAL (E IL FILM CON MUSICHE)

Il Musical , come l’horror e il porno, è un genere “pre-narrativo”. In quanto tale è messa in scena di un “Numero”. Il Numero sviluppa in sé un’azione ed esprime un senso, ma diventa narrazione compiuta di una vicenda, solo se collegato ad altri Numeri. Il collegamento può a volte risultare convenzionale, o irrealistico, o pretestuoso, resta il fatto che la narrazione procede per frammenti, e dunque con una scansione diversa da quella unitaria e conseguente dei generi classici.
Come gli altri generi “estremi”, il Musical desta entusiasmo o ripulsa in sé, indipendentemente dal fatto che un certo film ci appaia brutto o bello. I generi estremi risultano a molti insopportabili come genere, non come singola opera. Generano rifiuti aprioristici.
Al Musical si rimproverano l’ingenuità e la semplicità delle trame, la loro insensatezza, i dialoghi di maniera, i personaggi stereotipati, un inclinare alla leggerezza e al divertimento che per molti è sinonimo di superficialità e di frivolezza, invece che di poesia e di grazia. C’è chi non riesce proprio a digerirne le convenzioni, prima fra tutte la disinvoltura con cui un personaggio si mette a cantare all’improvviso, come se fosse sempre seguito da un’orchestra in ogni istante della propria vita.
Noi qui non faremo ovviamente la Storia del Musical (molto più varia e ricca di quanto i suoi detrattori non vogliano ammettere) ma neppure possiamo limitarci al problema Come si sceneggia un Musical? senza esplorare almeno per accenni le caratteristiche di struttura dei principali e differenti tipi di Musical.

Radice comune a tutti è che nel Musical, la musica (accoppiata al canto e alla danza) è il centro della rappresentazione. Non ha più una funzione complementare alle immagini, in senso insieme espressivo e utilitaristico (cioè per aumentare la tensione, per sottolineare un’azione o un sentimento, per irrobustire un’emozione, o per appoggiare ritmicamente un dialogo). La musica non è più un linguaggio subordinato o vincolato al linguaggio delle immagini, anzi spesso sono le immagini che diventano subordinate alla musica, che la esprimono e commentano visivamente.
Il punto è che una canzone, un brano musicale che assume al ruolo di protagonista, o un’azione coreografica, hanno un tempo loro proprio che non è necessariamente tempo cinematografico, deve diventarlo. Da un lato ciò comporta narrativamente, nell’insieme, un tempo più lungo. Un Musical dura in genere di più di un film normale, proprio perché si trova a dover ospitare nella storia, frammenti che hanno una loro autonomia e una propria e non comprimibile durata. La canzone in particolare, tende anche per struttura a ripetersi (A-B-A-B) replicando passaggi musicali e parole, mentre nel racconto di un’azione, cosa fatta capo ha, e in un dialogo non si ripete mai quanto già detto, se non eccezionalmente, per cercare un effetto particolare. D’altro canto, il Numero stesso, nel contesto di una storia, tende a diventare narrativo e dunque a concentrare in sé, in un tempo più breve ciò che in un racconto normale possiamo raccontare in modo più disteso e per fasi successive. Questo risulterà più chiaro dall’esempio che segue, in riferimento al primo tipo di Musical che andremo ad esaminare, cioè quello integrale, in cui l’intero racconto del film è musicale, senza intermezzi parlati, né scene semplicemente recitate.

a) Il Musical integrale

Questo tipo di Musical è in genere la trasposizione sullo schermo di un’opera teatrale. Il racconto procede per Quadri (musicali, cantati e coreografici), che raccontano una storia per momenti esemplari. Non mancano certo i casi in cui è accaduto il contrario e cioè che un Musical integrale sia nato cinematografico e abbia avuto solo in seguito versioni teatrali. Ma la struttura non cambia. Ci sono, in generale, meno scene che in un film normale, ma queste scene sono più lunghe e più dense di accadimenti. Prendiamo per riferimento il musical Sette Spose per Sette Fratelli di Stanley Donen (1954) che ambienta nel west il mito del Ratto delle Sabine (vi consiglio di procurarvi l’edizione speciale in due Dvd della Warner e di studiarvela bene, inclusi i contributi speciali che documentano la realizzazione). Consideriamo la scena più celebrata, che già da sola racconta tutto il film. Vi si assiste alla costruzione di una casa di tronchi, rigidamente programmata in tempi brevi e con una ripartizione oculata dei ruoli e dei carichi di lavoro. Ma due gruppi rivali (i sette fratelli “campagnoli” contrapposti ai damerini di città) che si contendono le ragazze, passano rapidamente dalla competizione alla rissa. La scena dà vita a una serie di esibizioni acrobatiche, dove anche gli attrezzi di lavoro diventano attrezzi da spettacolo, cioè mutano radicalmente d’uso e non vengono più impiegati a fini pratici, ma estetici, potenziando le evoluzioni e i virtuosismi di una danza estremamente atletica. Sono dunque molti gli elementi narrativi inclusi nella scena, e non disposti lungo un arco temporale ordinato e realistico, ma sovrapposti e fusi insieme in una coreografia, cioè secondo una successione di “figure di ballo”. Un Numero che si compone di Numeri. Eppure tutto è straordinariamente unito e coerente. Più che da elementi disposti uno dopo l’altro, la narrazione si dispone a strati. La singola scena, nel suo insieme, è più lunga di un’abituale scena cinematografica, ma al contempo al suo interno racconta più cose perché le presenta in sintesi e in contemporanea e consente di dare evidenza a una pluralità di personaggi nella loro distinzione pur nella coralità e simultaneità di presenza scenica. E’ evidente che non si può scrivere questa scena senza una strettissima collaborazione con il coreografo. E’ lui, non lo sceneggiatore, ad “orchestrare” insieme narrazione e messa in scena. E’ sbagliato pensare che l’argomento della scena sia soltanto un pretesto per un balletto che di per sé ha poco a che fare con il contenuto del racconto, ed è altrettanto sbagliato pretendere che una coreografia debba inscenare una serie di situazioni decise a tavolino dallo scrittore. Al contrario, dev’essere il balletto stesso a sviluppare narrazione, proprio come accade per i grandi balletti teatrali. E’ da lì che si deve partire. Lo sceneggiatore non può ragionare come a volte accade nello scrivere una scena d’azione, e cioè: io mi limito a indicare cosa succede, il come succede verrà deciso nei dettagli da chi realizza il film. Non ci si può disinteressare della messa in scena operativa, perché è da quella che nasce racconto, non viceversa. Va aggiunto che questo genere di Musical, costoso, impegnativo, e cui sono indispensabili apporti professionali molto particolari (dal coreografo agli attori, ai costumisti, agli scenografi, al musicista che devono essere tutti a perfetta conoscenza delle esigenze proprie ad una scena in cui ci si esprime ballando) oggi non si fa quasi più. D’altro canto, buona parte della tradizione di questo genere di Musical si è trasferita nei video musicali, che sempre più marcatamente negli ultimi tempi hanno assunto le caratteristiche di Numeri coreografici e narrativi. Thriller di John Landis e Michael Jackson ha aperto una strada molto feconda in questo senso. E oggi persino nei piccoli filmati di YouTube la narrazione in Musical, anche con mezzi produttivi poverissimi, sia sta rivelando uno dei percorsi più seguiti. Abituarsi a raccontare un frammento autonomo, che fa racconto a sé, può essere sviante per un aspirante cineasta: la misura di un corto, come quella di uno spot pubblicitario, allontana dal format cinematografico, non sempre può essere (come invece viene spacciata) “un saggio” che prepara al film. E’ strutturalmente tutta un’altra cosa. La realizzazione di un Numero, ad esempio sceneggiando una canzone, invece è già esperienza cinematografica in senso pieno, se si aspira non al cinema in generale, ma al Musical che, come genere, si struttura appunto per frammenti che hanno una loro interna compiutezza.

b) Commedia Musicale

Questo viene da molti considerato come il Musical Classico, nato e pensato per il cinema. Il teatro c’è lo stesso, ma come oggetto, non solo come modo della narrazione. Si racconta una storia che di solito ha per protagonista un ballerino o un attore di varietà che sta preparando uno spettacolo. Raccontiamo la storia (in genere una commedia brillante a sfondo sentimentale) e sistemiamo nella storia alcuni Numeri che in parte sono Numeri dello spettacolo che viene messo in scena, in parte sono incorporati alla narrazione, cioè un dialogo può diventare duetto, un’azione può diventare danza, non sulla scena teatrale, ma nella “realtà”. Questo tipo di Musical si è imposto con Fred Astaire e Gene Kelly e oggi pare definitivamente tramontato anche per la carenza di questo genere di star: non attori che si mettono a ballare, ma ballerini in grado di recitare da attori protagonisti. Anche in questo tipo di film musicale, ciò che resta memorabile sono i singoli numeri, non certo la storia (semplicissima, quasi elementare) che si preoccupa soltanto di connettere e di lasciare spazio ai Numeri. I Numeri possono anche permettersi di non essere narrativi, nel senso che vengono presentati come frammenti di un’altra opera (non il film, ma la rappresentazione teatrale di cui il film racconta la messa in scena). La storia, dal canto suo, può garantirsi una maggiore autonomia e distendersi in una sequenza di eventi temporali più realistica. A patto di restare, stavolta sì, mero (ma gradevole) pretesto per inanellare una serie di Numeri.

c) Film d’ambiente musicale

Appartengono a questa categoria sia i film che raccontano la vita di famosi musicisti o ballerini (ad esempio L’altra faccia dell’amore di Ken Russell, 1971, su Tchaikovsy, o La grande Isadora, 1966, dello stesso regista/autore, su Isadora Duncan), sia i film che gravitano intorno all’ambiente dello spettacolo e del divertimento (come La Febbre del Sabato Sera del 1977, o Cabaret del 1972).
Qui si esce dai confini della Commedia Musicale, si può anche raccontare una storia dai forti connotati sociali e/o psicologici o un dramma (difficilmente una storia epica, in occidente, ma in Cina e in India è già più consueto, ricollegandosi a una tradizione antica, precedente al cinema).
Si tratta di film in cui il Numero musicale e/o di ballo hanno uno spazio e un ruolo assolutamente decisivi, però la storia raccontata dal film ha pari rilievo. Lo sceneggiatore dovrà essere molto attento nella distribuzione dei tempi narrativi: il racconto non può permettersi di apparire semplicemente pretestuoso e d’altra parte i Numeri non devono essere puramente esornativi e d’occasione, ma profondamente in sintonia con il senso complessivo del film. L’equilibrio delle due componenti è essenziale e comporta dunque una scrittura drammaturgica di assoluta coerenza.

d) Film con canzoni e/o con partitura

In film come il più volte citato Il Laureato, piuttosto che Easy Rider, costellati dall’inizio alla fine di brani musicali, non sono certo classificabili come Musical, però in essi la musica è molto di più di un commento, viene usata narrativamente, è parte inscindibile della messa in scena. Ciò vale anche per i film di Sergio Leone, dove la musica di Morricone non è mai mera colonna sonora di commento, ma assurge a co-protagonista. Le scene e il montaggio sembrano qui governate da una partitura musicale. Le immagini sembrano disporsi sulla musica, non viceversa, con un effetto di ribaltamento e di svolta nel racconto straordinariamente efficace, al punto che apparenti pause o digressioni narrative diventano invece potentemente espressive ed esemplari.
A questo proposito va ricordato che il cinema nasce muto (come ho già abbondantemente sottolineato) ma allo scorrere delle immagini silenziose, fin dalle origini veniva aggiunta, dal vivo, in sala, la musica. Il commento nasce così. Immagine e musica sono inseparabili fin dall’inizio del cinema e in linea teorica ciò che suonava il pianista in sala, era prescritto: c’era cioè una partitura assegnata, studiata proprio per quel film. (Nella realtà i pianisti di sala improvvisavano spesso, oppure suonavano brani di repertorio persino suggeriti dal pubblico, che non c’entravano nulla con il film).
Ricordo questo perché uno sceneggiatore, anche se non sta a lui occuparsi delle musiche, deve sempre preoccuparsi di lasciare delle scene alla musica evitando di inzeppare ogni singola scena di azioni e di dialoghi. Se lo fa, infatti, finisce per relegare la musica a mero commento e così toglie al film un possibile punto di forza espressiva. Spesso un certo genere di canzoni possono esprimere con tale intensità lo spirito di un’epoca, il momento psicologico attraversato dal protagonista, il senso stesso del racconto, che rinunciare a priori a questa possibilità espressiva è un autogol. Lo sceneggiatore non è chiamato ad indicare in sceneggiatura una certa canzone (se lo fa, è solo per fornire un riferimento), ma deve comunque sforzarsi di immaginare una musica, non di puro sottofondo, ma una musica che sappia esprimere racconto. Naturalmente va verificato che il regista sia d’accordo nell’assegnare alla musica un ruolo di rilievo. Ma una volta che siete certi di questo, esattamente come vi sforzate di immaginare quello che si dovrà vedere sulla schermo, dovrete, scrivendo, cercare di immaginare quello che si ascolterà. Senza questo genere di apertura mentale, si rischia di considerare soltanto il proprio ruolo di scrittore, si riempiono le singole scene di azioni e di dialoghi , prescindendo completamente dalla musica. In questo modo, la colonna musicale non sarà più una partitura, ma un riempitivo, cioè finirà per somigliare alle libere e casuali interpretazioni di un pianista di sala dei tempi del muto.
Lasciare spazio alla musica è cosa delicata e da non affrontare con faciloneria. E’ sbagliato (in linea di massima) usare la musica per coprire una pausa o un passaggio narrativo. E’ un ben misero espediente (anche se molto diffuso) usare una canzone come una parentesi infilata dentro una lunga chiacchierata radiofonica, o come un momento di rilassamento in attesa di passare a un'altra fase del racconto. Questo uso banale della musica lo si può osservare ad esempio nei film da regista di Alberto Sordi e in molti film di Gabriele Salvatores. Di solito c’è una trasferta in automobile da un posto all’altro: allora si mostra un totale panoramico, una cartolina paesaggistica, e gli si schiaffa sopra una bella canzone. Poi si ricomincia a raccontare. Ma la musica è linguaggio, non è un intervallo. Questo impiego del tutto strumentale della musica avvilisce sia il racconto (che di scene di puro passaggio può fare tranquillamente a meno) sia la musica stessa considerata colpevolmente come una colf. Del commento musicale uno sceneggiatore può tranquillamente fregarsene: sta al regista valutare se, ad esempio, una certa scena di tensione risulta più inquietante con una musica composta all’uopo, oppure nel più totale e assoluto silenzio. Lo sceneggiatore invece dovrebbe preoccuparsi di offrire occasioni al protagonismo della musica, cogliendone le potenzialità espressive. Perché sforzarsi di rendere uno stato emotivo dell’attore scrivendogli un testo fatto di pensieri e parole esplicite, quando si ha a disposizione, in cinema, l’espressività del suo volto e del suo atteggiamento, quella delle immagini, e quella della musica che di questi inesprimibili momenti sono il vero codice linguistico? Di questo codice si può anzi dire che la musica sia regina. Non c’è nulla di più astratto della musica eppure essa supera le barriere nazionali, di classe e di cultura, perché comunica direttamente con le nostre più intime emozioni e sa dunque farsi molto più concreta della parola o del gesto. Quando scrivete non dimenticatevi mai che oltre alle parti per gli attori, dovete pensare alla parte di quel attore invisibile che è la musica.

Come s’è visto, dunque, i diversi tipi di film musicale si definiscono a seconda del ruolo attribuito alla musica. Nel modello a) il primato è assoluto, negli altri si attenua progressivamente, guadagnando in compenso una crescente fusione agli altri elementi costitutivi del racconto. In questo percorso si finisce per sottrarre autonomia al Numero rendendolo sempre più coeso all’insieme. Il rapporto con il teatro, egualmente tende a sfiorire. I film del modello d) non hanno più nulla di teatrale. Sono ormai una forma del tutto originale nella quale il racconto per immagini e il racconto musicale sono un unico racconto, anche se le componenti conservano una loro autonomia, soprattutto sul versante della musica. Delle canzoni di Simon e Garfunkel come delle musiche di Morricone si può infatti godere indipendentemente dal film, mentre quelle stesse sequenze filmate, con altre musiche o senza musiche, assumerebbero un senso molto diverso. Nella fusione, quindi, la musica conserva protagonismo e autonomia. Viceversa in un film che usa la musica come commento, c’è anche molta “musica che non si sente” cioè una sorta di suono ambientale diffuso e di sfondo, che a giudizio del regista non deve distrarre dai contenuti espressivi della scena focalizzati su altri elementi della messa in scena. Dunque nello scrivere una sceneggiatura cercate sempre di capire bene quale ruolo attribuisca il regista alla musica e scrivete di conseguenza.
Purtroppo oggi di registi sensibili alla musica e capaci di usarla espressivamente ce ne sono pochissimi. Se dunque nel tipo di racconto che siete chiamati a sceneggiare pensate che la musica possa e debba avere un ruolo eminente, cercate di stimolare il regista a non considerarla come “l’ultima ruota dell’automobile” (cioè quella di scorta, che si tira fuori all’ultimo momento, quando purtroppo si è forato). Discutetene apertamente, quando vi trovate a valutare insieme lo script. E sappiate che quando un regista non ha opinioni definite in materia, e magari dice al musicista chiamato a comporre la colonna: “Metti la musica dappertutto, poi scelgo io dove tenerla e dove toglierla” in genere significa che il film è piuttosto approssimativo e il regista poco consapevole. Allo stesso tempo uno sceneggiatore che non si informa neppure di quale ruolo venga assegnato alla musica nel racconto, è altrettanto limitato. Che dunque siate uno sceneggiatore o un regista, la musica è anche un prezioso test che vi consente di capire: 1) a che tipo di film state lavorando; 2) con chi state collaborando.

30° Lezione di Gianfranco Manfredi