Gli studiosi della cultura greca considerano l’Iliade di Omero come il primo testo scritto destinato al teatro. Trattandosi di un poema, è dunque evidente che siamo di fronte a una pura declamazione di un testo in scena, cioè a un teatro di parola, non a una vera e propria messa in scena. L'attore è unico, cui si alternano a volte il coro e/o degli intermezzi musicali. Il teatro nasce dunque in forma di monologo. Il che fa giustizia del luogo comune secondo cui il monologo, l'one man show, le letture dantesche o di altri classici, il cosiddetto teatro-canzone, siano forme teatrali innovative. E' vero l'esatto contrario: rappresentano l'anno zero del teatro. Non c'è scena, non c'è dialogo, non c'è molteplicità di attori, non c'è azione. La pura lettura/recitazione in scena non costituiscono un'autentica drammaturgia, ne sono al massimo l'infanzia.
Aristotele ricorda che fu Eschilo a portare a due il numero degli attori e dunque a inventare il dialogo. Successivamente, con Sofolcle, i personaggi diventarono tre e la scena più ricca. Le prime testimonianze di drammaturgia risalgono, secondo Aristotele, al VI sec. a.C. , prima non esistevano che spettacoli pre-narrativi di istrioni che venivano chiamati in modo diverso a seconda delle regioni in cui si esibivano: mimi, virtuosi, improvvisatori, burloni o dilettanti (nel senso che procuravano diletto). Si trattava di attori nomadi che intrattenevano il pubblico dei villaggi e dei borghi con lazzi e buffonagini, piccole scenette realistiche, azioni mimiche, caratterizzazioni burlesche di personaggi (l'atleta millantatore, lo spacciatore di intrugli miracolosi, il ladro di frutta, insomma "macchiette"). Le esibizioni buffonesche di Susarione ad Atene, non raccontavano una storia compiuta, erano rappresentazioni senza capo né coda.
Pulcinella viene da questa tradizione di commedia di piazza, senza strutture, senza narrazione in senso proprio, una successione di "numeri" e di "gag" come diremmo oggi, che ebbe una grande importanza nel fissare una serie di tipi (maschere) e di situazioni divertenti. Questo genere di teatro, con fini più di intrattenimento che artistico, sopravvisse, anche quando la drammaturgia teatrale vera e propria si era codificata da secoli. Non c'era un vero e proprio copione, ma una semplice traccia, un canovaccio a volte davvero minimo, come nella seguente scenetta che così Nicoletta Capozza nel suo Tutti i lazzi della Commedia dell'Arte (Dino Audino Editore, 2006) traduce in lingaggio moderno:
Pulcinella va a comprare un vaso da notte per il padrone. Coviello gli dice che mettendoselo in testa potrà conoscere i fatti di chiunque. Pulcinella mette la testa nel vaso da notte. Coviello fa lazzi, poi gli fa lo sgambetto e fugge. Pulcinella cade, fa lazzi ed esce di scena.
Il breve testo, come si vede, indica : (1) i personaggi in scena, (2) il percorso degli eventi dal principio alla fine e (3) le occasioni comiche. Dialoghi e lazzi (cioè gags) sono lasciati all'invenzione dei commedianti.
Commenta Nicoletta Capozza: "Il comico crea continuamente, non ha mai niente di già totalmente dato, la sua improvvisazione, benché fondata sulla perfetta conoscenza del tipo, è comunque messa in discussione ogni volta, perchè ogni volta diverse sono le modalità entro le quali si trova ad agire."
Questo modello è ancora attuale? Ne abbiamo già accennato nella lezione sul comico.
Vincenzo Cerami autore di parecchie sceneggiature per Benigni, ha diverse volte puntualizzato che il suo lavoro consiste principalmente nel fornire situazioni sulla base delle quali il comico possa scatenare la sua verve creativa. Ha detto anche che si tratta inoltre di fissare dei "binari" , dunque dei limiti, e su questo punto torneremo in seguito. Per il momento concludiamo che il lavoro dello sceneggiatore, come quello degli autori dei mini-soggetti e dei canovacci per le rappresentazioni della Commedia dell'Arte, è nel genere comico, da un lato di offrire delle opportunità stabilendo una situazione di base di per sé divertente, dall'altro di fissare dei limiti perchè l'improvvisazione non finisca totalmente fuori tracciato, non produca a sua volta situazioni che da gag diventino narrative, cioè sconfinino in derivazioni che poi richiederebbero ulteriori sviluppi e dunque non consentirebbero una "chiusura".
Esaminiamo ora la forma di un testo compiuto. Lo Ione di Euripide. Non mi soffermo sulla vicenda, piuttosto complessa, nè sullo stile che unisce tragedia e commedia fino alla parodia più dissacrante, accompagnandola con musiche e numeri di danza. In quest'ultima sezione del corso, infatti mi limiterò a considerare la pura forma del testo.
Il testo dello Ione elenca anzitutto i personaggi (soltanto i nomi, senza ulteriori indicazioni). Poi definisce la scena con una sintetica didascalia:
La scena in Delfi. In fondo, il tempio di Apollo, davanti al tempio un altare e varie stele. Il frontone del tempio è ornato di bassorilievi. Da un lato un boschetto di lauri.
Nel testo, in alternanza ai dialoghi e ai cori (prima, durante e dopo), compaiono succinte indicazioni utili alla messa in scena e alle azioni rappresentate.
Entra Ione seguito da alcuni ministri del tempio. Indossa belle vesti, porta sulla spalla un arco, e stringe una frasca d'alloro ornata di bende, che gli serve a spazzare l'adito sacro del tempio.
Ci sono, a inframezzare la recitazione verbale, notazioni volte a chiarire a chi sta parlando Ione (ai ministri) e alle sue azioni (Dà di mano alla frasca d'alloro; depone la frasca d'alloro, prende un'anfora d'oro e versa acqua sul pavimento; come colpito da un rumore improvviso, alza gli occhi verso il cielo; dà di mano all'arco e alle frecce).
Come potete vedere, si comincia a delineare la forma della Sceneggiatura:
1. Dove è ambientata la scena e come è strutturata.
2. Chi entra in scena (e in seguito chi ne esce).
3. Come è vestito il protagonista e di quali attrezzi è dotato.
4. Quali azioni essenziali compie il protagonista (a chi si rivolge, quali gesti compie, come usa gli oggetti che porta con sé).
Si precisano queste cose non soltanto per chiarezza narrativa (nei confronti del pubblico), ma anche per prescriverle ai reparti (scenografia, costumi, attrezzeria) e all'interprete (ciò che dice acquista maggior senso attraverso i gesti che compie e il suo atteggiamento). Si scrive ciò che deve esserci, non ciò che potrebbe esserci. Non si esclude affatto che la scena, i costumi, il movimento in scena, possano essere arricchite, ma si sottolinea ciò che è obbligato, per motivi di natura narrativa.
Noterete in particolare un dettaglio prezioso: se si mette qualcosa addosso o in mano a un personaggio non è per un vezzo gratuito, ma perchè la userà nel corso della scena. Il testo precisa come e quando.
Si tratta insomma di indicazioni vincolanti, ma sommarie. Si evita di scendere in dettagli minuti. Si dice che Ione ha belle vesti, ma non le si descrivono, per tipo, colore o altro, come si farebbe in un romanzo. Si dice che sparge acqua a terra, da un'anfora d'oro (il che comporta e spiega la sacralità del gesto) ma non si dice se lo fa di getto o un po' per volta, se lo fa prima di parlare o mentre parla, e non si dice quando deve finire e posare l'anfora (questo è intuibile e ovvio e non richiede d'essere puntualizzato). Dunque in parte si precisa e in parte si lascia alla libera interpretazione.
Inoltre non si scrive, perchè sarebbe superfluo, quanto è chiaramente intuibile.
Questo è un utile insegnamento anche a riguardo del lavoro letterario. In un romanzo può essere caratterizzante precisare dei gesti o delle azioni di un personaggio nel corso di un dialogo, ma questo non vuol dire che se prende in mano un bicchiere di vino e lo sorseggia mentre parla, poi si debba per forza specificare che a un certo punto lo posa. Se in seguito il personaggio ha le mani occupate da qualche altro oggetto, è di per sè evidente che avrà posato il bicchiere. Non accumulate indicazioni ovvie, lasciate spazio all'intuitività del lettore.
La moderna sceneggiatura cinematografica si fonda ancora su questa antica misura.
Nelle didascalie (cioè nelle descrizioni) si sottolineano le cose essenziali. Si prescrive soltanto ciò che è indispensabile e funzionale al racconto.
Nella commedia e nel teatro comico sono in genere più numerose le indicazioni rivolte all'attore. Aristofane, ad esempio, nella commedia Gli Acarnesi, indica in testa o in corso di dialogo: monologa tragicamente; con piglio oratorio; gridando; con voce e piglio da spaccamontagne; si stuzzica la gola con la penna; feroce. Insomma indica toni e intenzioni, suggerisce gesti significativi che caratterizzano quel certo personaggio in quel momento.
L'alternanza dei toni è fondamentale in una commedia. L'attore va aiutato a capire (la garanzia che capisca da solo non c'è) che una certa battuta va detta ironicamente, un'altra in tono irato, un'altra ancora sbraitando. Sono, come noterete, indicazioni di mutamenti improvvisi di tono e d'umore, cioé di eccessi. In una tragedia rincorrere gli eccessi è caratteristica degli attori cani, in commedia invece è fondamento della recitazione. Un attore drammatico (che rappresenta di solito, come ho segnalato nella relativa lezione, un personaggio "elevato") deve guardarsi dal diventare enfatico, un commediante (che rappresenta in genere un "uomo comune") deve invece guardarsi dall'apparire qualsiasi.
Le segnalazioni per l'attore dunque hanno lo scopo precipuo di fornirgli i "binari" di cui abbiamo parlato, cioé dei limiti entro cui muoversi, nella sua interpretazione. Il personaggio eroico deve contenersi, per non assumere caratteristiche da trombone che lo renderebbero retorico o addirittura ridicolo. Se dunque non precisiamo niente, vuol dire che non richiediamo di accentuare. Il personaggio comune caratteristico della commedia deve invece assecondare l'emotività, per non precipitare in un realismo triste e patetico. Sta all'attore trovare un equilibrio, la nostra segnalazione deve però essere precisa e inequivocabile. Sarebbe sbagliato scrivere: incazzato, ma non troppo.
O è incazzato o non lo è. Precisato che deve esserlo, starà all'attore cercare la misura giusta e più efficace.
Non scrivete mai quelle segnalazioni contraddittorie che sono tipiche della letteratura.
In letteratura, il lettore deve forgiarsi un'immagine mentale del personaggio.
Sottolinearne le contraddizioni può aiutare chi legge a non costruirsi un'immagine troppo unilaterale e definita che poi magari l'andamento della storia smentirebbe. Il personaggio di Harry Potter sulle pagine del romanzo è accortamente mantenuto abbastanza neutro, in modo che sia più semplice per i diversi lettori identificarsi con lui. In cinema si tratta invece di darne un'interpretazione che anzitutto è incarnata nel fisico dell'attore, ma che anche nell'andamento drammaturgico deve essere sempre coerente agli avvenimenti. Ciò che in un romanzo viene lasciato alla libera interpretazione del lettore, in cinema è consegnato all'interprete e al punto di vista di chi lo mette in scena e lo fa agire. Ne consegue che il lavoro dello scrittore di romanzi, è molto diverso dal lavoro dello sceneggiatore. Il primo scrive per sollecitare il lettore a formarsi una propria immagine del personaggio, degli ambienti e delle situazioni, il secondo contribuisce a definire questa immagine, cioè deve sceglierne/suggerirne una tra le tante possibili. Il rapporto non è , come in romanzo, tra autore e pubblico. In un copione, tra l'autore del testo e il pubblico, ci sono dei tramiti: l'attore che interpreta il personaggio e chi mette in scena il testo.
Noi non dobbiamo descrivere l'attore, ma il personaggio, nei suoi tratti essenziali, e aiutare l'attore a comprenderlo passo passo, attraverso piccole ma precise indicazioni sui suoi gesti (funzionali e/o espressivi) e i suoi toni (esplicitare il tono, chiarisce il senso della battuta e il registro dell'interpretazione). Là dove la battuta è inequivocabile, come il tono con cui deve essere pronunciata, non c'è bisogno di precisare nulla. Non fate i professorini, perchè otterreste solo di irritare l'attore vincolandolo alla vostra interpretazione soggettiva, che è puramente teorica, non fisica. Non dilungatevi in spiegazioni psicologiche e motivazionali, perchè si presterebbero a interpretazioni molteplici e invece di chiarire confonderebbero. La psicologia di un personaggio in un testo drammaturgico si deve capire da ciò che dice il personaggio, da come lo dice, e da ciò che il personaggio fa. L'attore va aiutato in corso di copione, non con delle complesse premesse dove spiegate il personaggio nei suoi tratti distintivi e nelle sue contraddizioni. Mettetelo in scena, il personaggio, e precisate quel che va precisato mentre lo fate agire.
Lo stesso vale per le indicazioni ai reparti e quelle di regia. Lo sceneggiatore rimarca l'indispensabile, ma deve guardarsi attentamente dal fornire indicazioni prescrittive sotto il profilo estetico, perchè questo lavoro non gli compete.
In conclusione: per assegnare dei limiti agli altri, dovete imparare a limitare voi stessi. In una buona sceneggiatura non si deve scrivere nulla di inutile, di puramente esornativo, nè tantomeno di controproducente, supponendo a torto che la messa in scena sia semplicemente un'esecuzione di una vostra idea puntigliosamente precisata fino allo sfinimento. Esagerare con le indicazioni porta a un unico risultato: verranno ignorate.

 

LEZIONE LXI
NASCITA E FONDAMENTI DEL COPIONE TEATRALE