Francesco Nuti attore regista sceneggiatore
Era il pomeriggio di Natale. L’anno, il 1994. Verso le cinque. Squilla il telefono di casa. Era il centralino del giornale per il quale lavoravo. “Le passo una chiamata”. “Oh! Giornalista!”. Era la voce di Francesco Nuti. “Non t’è piaciuto, i’ mi’ film?”. Il film era “OcchioPinocchio”: il film realizzato da Francesco Nuti fra mille difficoltà, girato negli Stati Uniti, con le spese lievitate oltre ogni previsione.
Non succede quasi mai, che un regista ti chiami a casa. Il pomeriggio di Natale, poi. “No, Francesco, ci sono delle cose belle, nel film, ma altre che…”. Rimanemmo a parlare mentre il tramonto si faceva crepuscolo, e il crepuscolo si faceva sera. “Ma io ce l’ho messa tutta, vedi, il film costa tanti soldi perché doveva essere bello, il più bello di tutti…”.
“Ma, Francesco, una domanda”. “Dimmi”. “Ma che ci fai il pomeriggio di Natale, a perdere tempo con uno come me, che ha scritto qualche parola sul tuo film?”. “È che io ci tengo, ci tengo troppo ai miei film”.
Il giornalista, quel pomeriggio di Natale, ebbe la sensazione di una persona tremendamente attaccata al suo lavoro, ma anche profondamente sola. Tanto da passare il pomeriggio di Natale al telefono con un (quasi) sconosciuto, perché non aveva amato del tutto il suo film.
Anni dopo, era l’estate del 1999. Si sta girando “Io amo Andrea”. Appuntamento per una intervista con Francesco. Arrivo nel luogo, uno spiazzo di terra non lontano da Siena: lì aspetto, in mezzo al nulla, come Cary Grant in “Intrigo internazionale” di Alfred Hitchcock. Poi, da lontano, arriva un elicottero. Come il piccolo aereoplanino nel film di Hitchcock, quello che spruzzava fertilizzanti. L’elicottero si ferma, dentro c’è Francesco Nuti. “Salta su, giornalista!”. In che senso, scusa? “Salta su! Sbrigati!”.
“Ma stiamo fermi, vero?”. Mentre lo dico, l’elicottero si alza. E comincia a sorvolare i bruni e gli ocra della Terra di Siena, la cittadina medievale di Monteriggioni. Sopra, solo Francesco ed io. Si parla del film che sta girando, e del quale sta facendo i sopralluoghi. “Ma dimmi! Chi t’ha mai portato in elicottero, a fare un’intervista?”.
Mi parlò dei suoi molti progetti, di tutti i film che aveva in mente e che non ha mai fatto. Era già il secondo tempo della sua carriera, quella carriera iniziata in modo bruciante, ma proseguita con tante battute di arresto, cadute e infiniti ritorni.
Mentre girava il film, era appena nata sua figlia Ginevra. Non resistette alla tentazione di filmarla, di farla apparire nel film. “Ha esordito nel cinema prima di me!”, mi disse. Era felice, e orgoglioso.
Era così, Francesco. Capace di gesti di generosità, sempre spiazzanti. Capace di cantare a Sanremo una canzone bellissima, “Sarà per te”, scritta da un cugino architetto, Riccardo Mariotto. Era il 1988, la canzone era dedicata ad un figlio o una figlia che ancora non erano nati. Avrebbe dovuto aspettare quell’estate calda di undici anni dopo, l’estate di “Io amo Andrea”, per trovare quella figlia a cui dare il suo amore. La canzone era bellissima.
Non era la prima volta che un attore si presentava in una grande manifestazione canora: basta pensare a Nino Manfredi e a “Tanto pe’ cantà”, a quel successo inatteso e travolgente, all’inizio degli anni ‘70. Ma Nuti non cantò una canzone ironica, Nuti quella volta non voleva far ridere, cantava con sentimento, con quella dolcezza e quel sentimento, quella delicatezza che ci sono anche nelle colonne sonore che il fratello, Giovanni Nuti, ha scritto per molti dei suoi film.
Non ebbe fortuna, quella volta. La canzone finì dodicesima. Ma l’anno dopo, sarà Mina a riprenderla, e a portarla al successo, ai primi posti delle classifiche. Eppure, a sentirla oggi, la voce nuda, disarmata di Francesco è quasi più bella.
Molti talenti. Molti talenti, aveva Francesco. E lo sapeva. Fin dall’inizio, fin dall’adolescenza, quando era la star dello spettacolo di rivista del Buzzi, ovvero l’Istituto tecnico industriale “Tullio Buzzi” di Prato. Da quell’istituto sarebbero dovuti uscire i tecnici, quelli che avrebbero mandato avanti i lanifici della operosa Prato. Ma Francesco aveva altre idee. E in quei primi spettacoli, che andavano in scena in un teatro importante come il Metastasio di Prato, Francesco capì di essere un fuoriclasse. “Io avrei voluto fare il ‘Buzzi’ solo per fare le riviste, gli spettacoli, solo per essere come Francesco”, ci disse Giovanni Veronesi.
Giovanni Veronesi. Colui che, più di tutti, è stato amico, fratello, complice, sostegno, punto di riferimento per Francesco Nuti. “Era il 1984. Io, poco più che ventenne, prendo il treno, vado a Roma e busso alla porta di Francesco Nuti. ‘Ciao, Francesco, mi chiamo Giovanni e voglio lavorare con te’. Lui mi liquida con: ‘Ma io ora non voglio lavorare, voglio fare un figlio’…”.
E lì il colpo di scena, che cambierà la vita di Giovanni Veronesi, e anche quella di Francesco Nuti. Giovanni torna in albergo, deluso. Poi ci pensa e gioca la sua scommessa: “Tu, Francesco, vuoi un figlio, sì: ma non lo vuoi per davvero, lo vuoi in un film! E io ti scrivo un soggetto per un film in cui tu hai un figlio…”. L’indomani, suona di nuovo alla porta di Nuti. E ha in mano le paginette di un soggetto, quello di “Tutta colpa del Paradiso”. In cui Francesco ha un figlio.
francesco nuti stregati regista sceneggiatore attoreDa quel momento, saranno inseparabili. Per un periodo, Giovanni abiterà a casa di Francesco: faranno merenda insieme, come ragazzini, e come ragazzini scriveranno film “recitando” i personaggi, man mano che nascevano. Sono gli anni di “Stregati” con Ornella Muti, di “Caruso Pascoski (di padre polacco)”, di “Willy Signori e vengo da lontano”, di “Donne con le gonne”. Fuori dai cinema dove si proiettano i suoi film ci sono file chilometriche.
Dopo gli anni dei successi, viene l’anno di quella telefonata a Natale, di quel film che non riesce a farsi amare dal pubblico, “OcchioPinocchio”. È il 1994: da allora Francesco inizia a soffrire di depressione. Gli sono vicini Giovanni Veronesi e l’attore Novello Novelli. Ma non riusciranno a salvarlo dal suo peggior nemico: se stesso.
Nel settembre 2006, il giorno che divide la sua vita in un prima e un dopo. Cade in casa, batte la testa violentemente. Entra in coma, viene operato d’urgenza. Seguirà una lunga, difficoltosa riabilitazione: mesi nell’ospedale Versilia di Lido di Camaiore. Giovanni Veronesi lo va a trovare quasi ogni giorno. Francesco non abbandonerà più la sedia a rotelle. Farà fatica a parlare. Ma in una lettera, letta dal fratello Giovanni Nuti, afferma la sua voglia di continuare a vivere.
Nel 2014 i suoi amici toscani organizzano una grande festa, per il suo cinquantanovesimo compleanno, al Mandela Forum di Firenze. Ci sono Marco Masini, Giorgio Panariello, Leonardo Pieraccioni, Carlo Conti, c’è la figlia Ginevra. Ci sono, per Francesco, momenti di commozione indicibile.
In fondo, più ancora che la comicità, è stata quella della tenerezza, della commozione la sua cifra. La sua figura magra, i suoi riccioli, la sua giacchetta di velluto a costine troppo larga, il suo girovagare nei primi film – nelle strade di Prato in “Madonna che silenzio c’è stasera” del 1982, una Prato notturna e disadorna, mai tanto valorizzata dal cinema – fanno correre il pensiero a colui che forse era uno dei modelli inconsapevoli della sua figura: Charlie Chaplin. Tutti e due soli, tutti e due con una sorta di sgualcita eleganza, tutti e due alla ricerca continua dell’amore, e impegnati a sfuggire alle trappole della vita.
Era il grande cinema americano il modello di Francesco Nuti, anche in un film come “Casablanca Casablanca”, dove Francesco incontra Giuliana de Sio in un locale di Casablanca che si chiama, guarda un po’, Rick’s Bar.
Non è stato il nostro Humphrey Bogart, forse non è stato neanche il nostro Chaplin. Ma è stato il nostro Francesco Nuti, struggente e vero come noi, infantile e a tratti prepotente, ferito e solitario, romantico e sbruffone, coraggioso e spesso sconfitto. E noi lo amiamo così.

Articolo di Giovanni Bogani da Facebook

 

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