IlCorto.eu

Incontri ed Interviste

Intervista a SILVIA FESSIA di Francesca De Sanctis

Come mai hai scelto di fare una tesi di laurea su Silvio Soldini?  L'idea principale era di fare qualcosa sul cinema italiano contemporaneo. Avevo pensato a diversi autori, per esempio a Martone, ma in quel momento Soldini era il regista che mi interessava di più. Avevo visto da poco "Le acrobate" del '97 e mi era piaciuto molto. Inoltre, su Martone c'era già una tesi in corso. Poi nel '98 ho incontrato Soldini a Bellaria, gli ho parlato della mia idea di fare una tesi sul suo cinema e mi ha risposto: "Ma non hai nient'altro di meglio da fare?".

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INTERVISTA esclusiva a ACHILLE ZAINO di Michelangelo Gregori

Quando sento parlare di nuovi progetti cinematografici mi si innalzano le antenne e vado subito a constatare. E questa volta ho fatto veramente bene. Ho visto un mediometraggio girato da due giovani che merita veramente di essere visionato. Un'opera che è stata concepita con lo spirito puro del cinema e che è stata portata avanti grazie allo spirito di sacrificio (ed all'aiuto del digitale) contro uno strapotere visivo fatto solo di soldi (che magari non guastano) e attori “famosi”. Per questo voglio far spostare la vostra attenzione su PHANTOM IL RITORNO, intervistando uno dei due registi che ne è anche il protagonista, Achille Zaino…

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L'importanza nel Cinema di un regista come Steven Spielberg

Steven Spielberg registaSteven Spielberg è senza dubbio uno dei registi più influenti e riconosciuti del cinema mondiale. La sua carriera, che abbraccia oltre cinque decenni, è segnata da una serie di film che non solo hanno ottenuto un enorme successo commerciale ma hanno anche lasciato un'impronta indelebile sulla cultura popolare e sull'industria cinematografica. Spielberg è noto per la sua abilità nel raccontare storie, la sua versatilità come regista, e per aver introdotto o perfezionato numerose tecniche cinematografiche.

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Davide Marengo e Michele Ieri, autori di cortometraggi

Un bagno pubblico abbastanza degradato, una donna paranoica per l'igiene, una mosca, compongono una mistura che si rivela esplosiva. La difficoltà nel distinguere la realtà dalla finzione, le aspettative di aspiranti ballerine, mimi, attori, i loro provini che divengono momento di esternazione dei propri problemi esistenziali. Stiamo parlando di due film, entrambi di registi campani: Shit di Davide Marengo e Provini di Michele Ieri. Sono due film di 7'30" e 10', due cortometraggi. Entrambi molto giovani, gli autori si avvicinano al mondo dello spettacolo. Michele Ieri comincia al liceo «per gioco con alcuni spettacoli teatrali», poi finisce per collaborare come dialoghista di opere radiofoniche. Nei primissimi anni '80 mette in scena la sua prima commedia teatrale, Rosa pallido, prima dello scioglimento del suo gruppo. Passeggiata nei campi flegrei e Cuma, città morta? segnano, in super 8, il suo ingresso nel cinema nell'81 e gli danno modo di «cercare la pellicola, la luce» ed «eseguire esercitazioni sul tema». Poi una lunga pausa di cui approfitta per studiarlo, il cinema, perché ha «bisogno di leggere tutto con voracità», fino ad Amici, il suo primo lungometraggio (`93) e Provini, cortometraggio prodotto nel '96.
Anche Davide Marengo comincia presto. A 16 anni frequenta i set cinematografici, lavorando come assistente alla regia o assistente alla produzione, fino a film come Ninfa plebea della Wertmiiller. Approfitta di queste situazioni per «portare una telecamera e realizzare backstage». Così è stato per Marianna Ucria come per Uomo d'acqua dolce: insomma, «è un pretesto per stare sul set». Entrambi amano Kubrick, che pongono al «vertice perché esprime l'essenza del mezzo cinematografico» come sostiene Marengo. Per quanto riguarda il cinema italiano, c'è senz'altro Pasolini per ieri, «ma si conosce poco» e poi Totò, le cui storie reputa «molto gradevoli, a volte più di certo cinema d'autore». E dei contemporanei napoletani che cosa ne pensano? «Francesco Rosi è rigoroso», piace a Michele Ieri perché riesce a «definire un certo periodo degli anni Settanta» mentre quasi per niente Squitieri, considerando «il suo modo di fare cinema ideologicamente grossolano». E i più giovani come Manone, Corsicato, Incerti? «Bisogna riportare la gente al cinema. Si crede spesso di essere portatori di verità. Al cinema bisogna portare la gente», sapendo «raccontare le cose», sostiene Ieri a proposito dei nuovi autori, che peraltro non disdegna. Marengo, invece, sostiene che per quanto
riguarda i nuovi autori italiani, quello dei «napoletani è l'unico gruppo emergente come identità cinematografica», anche se lui preferisce un «cinema più grottesco e surreale», dopo tanti grossi nomi che però vanno letti nella loro individualità. Marengo giudica «Martone un autore interessante, ma non è il suo cinema quello da me preferito, perché il realismo puro condiziona una visione della realtà ed è difficile da portare al cinema fedelmente. Una storia surrealista ti permette di mettere in luce cose in cui credi veramente. Corsicato con Libera è riuscito un po' a raccontare con ironia la realtà complessa: Libera prende in giro l'iconografia classica della napoletanità». Molti sono coloro che distinguono il termine film dal corto, attribuendo a quest'ultimo un ruolo di secondo piano e non riconoscendogli invece un linguaggio proprio. Che cosa pensano i due registi? Secondo Davide Marengo «il corto ha un linguaggio diverso. La storia è raccontata in breve tempo e ti impedisce di approfondire la psicologia dei personaggi; è un'esercitazione cinematografica che, però, stimola a raccontare una storia in pochi minuti e in cui la superficialità del racconto viene sostituita dalle tecniche cinematografiche» che via via vengono scelte. Michele Ieri sostiene che «un corto è più libero» di un lungo, forse proprio perché «ha meno mercato, e anche più facile; però i problemi da affrontare nel raccontare una storia in dieci minuti sono diversi dal lungometraggio». E ancora Ieri predilige «un'opera sporca, fatta con pochi mezzi, più che un'opera che strizzi l'occhio al grande film», rincorrendo i costi da sostenere per utilizzare certi movimenti di macchina con una certa fotografia. Quanto c'è del loro background culturale nei film realizzati, quanto incide essere nati in Campania? Michele Ieri risponde con il suo lungo Amici, la storia di quattro compagni che concepiscono l'amicizia come un alibi per non stare soli: «Volevo raccontare una Napoli non protagonista e dire alla gente che c'è una borghesia come nelle altre città». Marengo invece vive a Roma dall'età di cinque anni, ma, avendo genitori napoletani e i parenti nel capoluogo campano, rimane particolarmente legato a Napoli. Ma veniamo a Shit. Il cortometraggio, che Davide Marengo produce insieme a Tommaso Ragnesco, che si occupa degli effetti speciali, trae spunto «da una vignetta di Andrea Ricci» e un po' perché è piaciuta la vignetta, un po' per la voglia di provarsi, i due decidono di realizzarlo. Shit rappresenta l'ossessione, sintetizzata nella mania dell'igiene e nella «mosca che vola nel bagno, che viene alla luce e che esplode quando raggiunge il limite di non sopportazione». Dai disegni sulle pareti e dal modo in cui la protagonista si rapporta con loro, «affiora la sua perversione, la sua morbosità». Diversa è la storia di Provini. Nelle intenzioni di Michele Ieri c'era e c'è quella di «creare un premio e organizzare una sorta di concorso di sceneggiatura per le scuole da cui realizzare un corto da presentare, insieme ad altri cortometraggi fatti dai giovani, in una grande festa del cinema: un cinema di ragazzi fatto dai ragazzi stessi. Parlando con i giovani, si apprende come il cinema eserciti una irresistibile magia e la loro non è una città con situazioni felliniane. come nel finale di Provini. Tutto ciò, per Ieri, a seguito delle sue esperienze a contatto con gli studenti delle scuole. Scopre che, per partecipare a quei corti «si presenta una serie di persone che ti racconta il quotidiano». Ed ecco «la storia di questa gente e quella del falso meccanico-attore vero». E in queste storie la realtà e la finzione si mescolano e si confondono, come il mondo dello spettacolo: dov'è il confine tra il vero e il falso? «Nel cinema stare davanti la macchina da presa è duro, ma davanti allo schermo si sogna».
Qualcuno ventila la proposta di vincolare la durata dei corti per omologarli nel mercato internazionale, obbligando gli autori a un minutaggio a uso e consumo delle televisioni, facendo perdere al prodotto culturale cortometraggio la caratteristica di prototipo, cioè di prodotto a sé stante che distingue il film, per inserirlo in un contesto completamente diverso. Che cosa ne pensano i due registi? Per Marengo la proposta mira a poter «commercializzare il film. Non vuole essere tanto una limitazione per legge, quanto dare la possibilità alle persone di investire». È avvertibile inequivocabilmente che i due registi da noi avvicinati siano fautori di un cinema giovane, permeato dalla voglia di uscire dagli stereotipi. In certe situazioni la sopravvivenza materiale, ma anche esistenziale, continua a essere il nodo principale. Nelle storie, a cui siamo abituati, ricorre un'unica immagine di Napoli e del Sud, ma, come dice Michele Ieri, anche se «il racconto è sempre parziale», l'organizzazione delinquenziale presente ormai nel nostro immaginario, «nasce da rapporti di comunicazione difficili». Questo significa guardare oltre e aprire nuovi orizzonti: «Sento il bisogno di uscire dal quotidiano», diceva ancora Michele Ieri, «e preferisco più fare cose brutte che inutili». Così va avanti il nuovo cinema e nei progetti di Davide Marengo ci sono ben due nuovi cortometraggi.

Shit di Davide Marengo

Tony Gilroy: Linee guida per scrivere una sceneggiatura originale

Gilroy ammette che, nonostante sia uno sceneggiatore in attività, le linee guida che offre sono quelle che anche lui ha bisogno di ricordare a se stesso, sottolineando il fatto che anche gli sceneggiatori nominati all'Oscar lottano tanto quanto gli sceneggiatori alle prime armi. Abbiamo ricavato sette linee guida da questo eccellente discorso e dalla sessione di domande e risposte - che possono essere visualizzate sotto questa analisi - e aggiunto alcune ulteriori elaborazioni sui punti che ha sottolineato così bene.

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Il 95% della scrittura è finalizzata alla risoluzione dei Problemi

Billy Ray, sceneggiatore di Captain Phillips  e The Hunger Games, è stato intervistato lo scorso anno. Tra le altre parole di saggezza che aveva riguardo alla sceneggiatura c'era questa citazione

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Intervista al regista MARIO COSENTINO

Intervista di Mario Cosentino, sceneggiatore e regista del cortometraggio "Capolinea" vincitore del Concorso "ilCORTO.it 2004"

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Christian De Sica: “Il POLITICALLY CORRECT è una stronzata"

de sica 1 1097841«Non se ne può più di personaggi negativi e vincenti». In vena di ricordi Christian De Sica liquida, a sorpresa, la sua ampia galleria di personaggi sboccati, maleducati, insopportabili: «Se facessi oggi un film come quelli con Aurelio De Laurentiis produttore, mi arresterebbero». 

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Intervista alla Casting Director Laura Muccino

Lunedì 10 Luglio 2023, Roma, presso il Black Lodge project, splendida e suggestiva location, che fonde in una magica alchimia, musica, fotografia e cinema, abbiamo avuto il piacere di incontrare ed intervistare, Laura Muccino, sorella del celebre regista Gabriele, oggi figura importante e di prim’ordine come Casting director italiana. (con video)

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Ata Mojabi regista iraniano sceneggiatore e regista di molti cortometraggi

Il cortometraggio italo-iraniano “Psychicken” (2023) del regista Ata Mojabi è un corto surreale e muto fantasy che mostra la crudeltà del destino dando una lezione di vita a un vagabondo. Racconta la storia di un ladro che commette un crimine orribile durante una rapina e poi scappa, ma si accorge che qualcuno lo sta inseguendo.

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STENO nome d´arte di Stefano Vanzina

Il 13 marzo 1988 moriva a settantatrè anni Steno, nome d´arte che Stefano Vanzina aveva scelto iniziando la sua carriera di umorista al Marc´Aurelio, autentica fucina (il giornalismo satirico con la radio e il teatro leggero) di innumerevoli futuri talenti del cinema italiano del dopoguerra.

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Giuseppe Rotunno: "Capii soltanto allora che cosa volesse dire regia"

Giuseppe Rotunno direttore fotografia Iniziai a lavorare in Senso dopo una breve esperienza con Visconti come operatore alla macchina in un episodio con la Magnani — Anna — del film Noi donne. Il rapporto cominciò mettendo subito in chiaro certi aspetti del nostro carattere. Si girava al Teatro Sistina ed io arrivai tardi sul posto di lavoro. Avevo viaggiato tutta la notte proveniente da Venezia, dove stavo girando un documentario sul Carpaccio e dove Aldó [Aldo Graziati] mi aveva chiamato con urgenza, essendo egli stesso sollecitato all'ultimo momento da Visconti per terminare le riprese di quell'episodio.

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Alfio D'Agata i suoi lavori

“Aria. Elaborazione di una violenza”: il cortometraggio di Barbara Sirotti

Aria. Elaborazione di una violenza Cortometraggio ViolenzaL’anteprima è avvenuta presso lo Spazio Roma Lazio Film Commission, moderatore il giornalista Marco Bonardelli, che, salutando il pubblico e presentando i relatori, ha mandato in visione un contributo di Luca Ward, assente giustificato: “Era una mattina di qualche mese fa, squilla il telefono, un numero che non conosco, la voce di una donna, che subito mi dice: sono Barbara, ho bisogno di te. Mi racconta la sua storia, agghiacciante, confesso che mi sono spaventato, ma un uomo degno di questo nome non può tirarsi indietro, ecco perché ho aderito subito al progetto di Barbara… grazie Barbara per avermi coinvolto”.

“Aria – commenta Marco Bonardelli – è un racconto di una violenza inaudita, che ha segnato il corpo e l’anima di Barbara, ma che per fortuna non si è concluso tragicamente come tante altre volte… io non le ho mai chiesto di raccontarmi la sua storia, per sentirla per la prima volta assieme a voi, ma una frase mi è rimasta impressa, quando mi ha detto di “poter affrontare tutto, niente è troppo, niente mi fa paura”, ci ho visto quella rabbia positiva per una rinascita per ritrovare se stessi; la ringrazio di farsi testimone di un problema così terribile”.

Il viso di Barbara è dolcissimo e la voce, pacata e affascinante, viene accolta dalla sala gremita, con grande attenzione, quasi in apnea: “…quella della violenza è una piaga sociale e dobbiamo combatterla tutti, io mi sono ritrovata con una storia da raccontare; avrei preferito come attrice raccontare un film, una commedia, invece sono qui con la mia storia vera, traumatica, che ho ancora sulla mia pelle, ma che mi ha dato una forza incredibile; se sono qui è perché devo raccontarla, io voglio raccontarla; sono una sopravvissuta di un atto indicibile, inaspettato da parte di una persona di cui mi fidavo, il mio ex compagno ed ho rischiato di morire, per questo ho intitolato ‘Aria’, perché mi mancava l’aria davvero. Ringrazio la Fidapa di Sabaudia, perché ha creduto subito nel mio progetto, che ha avuto più di 60 premi, addirittura un premio anche in Iran. Durante la pandemia le chiamate di soccorso delle donne alle forze dell’ordine sono aumentate del 79%, quindi mi sono detta, la violenza non riguarda solo me, devo fare qualcosa che duri più del solo 25 novembre, allorquando c’è un improvviso risveglio delle testate giornalistiche”.

Marco Bonardelli, nel precisare che il manipolatore affettivo è colui che dalla gentilezza passa all’aggressione sia verbale che fisica, introduce l’aspetto psicologico tramite la dottoressa Sabrina Melpignano: “…sono una psicoterapeuta e mi occupo di persone affette da stress postraumatico; sono socia della Fidapa di Sabaudia, che si occupa anche della violenza sulle donne; lo scopo che ci proponiamo come associazione è quello di sensibilizzare i giovani; abbiamo coinvolto i rappresentanti delle forze dell’ordine perché siamo convinte dell’importanza della prevenzione; la donna che viene dalla psicoterapeuta lo fa inconsciamente o perché viene accompagnata da qualche familiare, questi disturbi della psiche li definiamo amnesie dissociative, che servono per salvaguardare la donna, permettendole la sopravvivenza, ma che è anche un meccanismo inadeguato perché la distacca dalla realtà e non le fa più sentire le emozioni, non la fa sentire più viva; la vita di chi subisce una violenza è completamente dissociata; ci vuole tanta pazienza e tanto amore da parte della psicoterapeuta per rimarginare quella ferita profondissima”.

L’avvocato penalista, Monica Nassisi, ha tenuto a sottolineare: “…l’arte, il cinema, la musica sono straordinari strumenti di comunicazione, catturando l’attenzione di chi può essere distratto; mi occupo di donne e bambini vittime di violenze di ogni genere; il 25 novembre è una grande occasione per occuparci di violenza sulle donne, ma gli altri 364 giorni cosa succede? Normalmente quando una donna va a denunciare i maltrattamenti, viene rimandata a casa…non ci sono case per accogliere le donne prima della denuncia; in Polizia ci sono persone preparate, ma è sempre difficile convincere le vittime a denunciare…quando vedi il dolore di un padre che si sente colpevole per non aver adeguatamente protetto la propria figlia, capisci che a essere coinvolte non sono soltanto le donne, ma riguarda tutti, ci sono tanti uomini che hanno dedicato la propria vita a contrastare la violenza”.

Barbara Sirotti ha già preparato un sequel di “Aria” ed è “Libera”, dove la voce del violentatore è quella di Alex Poli: “…l’attore deve fare di tutto, anche la parte del cattivo, non posso tollerare la violenza sulle donne, sono onorato di aver partecipato a questo progetto”. Altri doppiatori di “Libera” sono Francesco Pannofino e Benedetta Degli Innocenti, che ha ammesso di aver interpretato la parte terribile di chi va a giustificare il violentatore con la classica frase: “in qualche modo te la sei andata a cercare, qualcosa avrai detto o fatto; devo ammettere che sono soprattutto le donne a pensarla così; sono onorata anch’io di aver dato il mio contributo, perché la violenza di genere riguarda tutti”.

“Libera” è il cortometraggio che racconta della difficile “rinascita” di Barbara, vissuta durante il lockdown: “…siamo in zona rossa, il medico può riceverla solo on line…avrei voluto tornare indietro e cancellare quel ricordo…vedo ancora lo sguardo della morte …ho dovuto attraversare il deserto per arrivare alla liberazione…ho dovuto uccidere me stessa, la Barbara precedente…vai avanti mi dicevano tutti…con una fatica inenarrabile”.

Il racconto di Barbara ha lasciato in tutto il pubblico una profonda amarezza, sgomenti di tanta indifferenza, eppure è proprio il volto radioso da romagnola a darci la speranza per un futuro migliore, senza incomprensioni e violenze di ogni genere.

Un grazie particolare a Marco Bonardelli per aver condotto la conferenza stampa con delicatezza e rara maestria.

Articolo di Henos Palmisano per sezione cultura di abitarearoma.it

Donatella Mascia: il mio "corto" tra vizi capitali, gatti e invenzioni

Aveva un nonno inventore e col pallino per la meccanica. Lei, da ingegnere, ama la tecnologia, ma ha scoperto che la sua grande passione è la scrittura e intanto sogna di scrivere sceneggiati per la tv. Da qui nascono le storie di Donatella Mascia, in cui il nonno, ma anche gli animali, sono protagonisti di avventure gialle e romanzi storici, prevalentemente per ragazzi. Ha vinto numerosi premi e riconoscimenti – finalista nel concorso Giovane Holden, secondo classificato al Premio Letterario Città di Recco 2016, finalista al Premio Acquistoria 2016 e altri ancora – fino ad arrivare all’ultimo, il premio “Racconti per corti” con il suo “Vizio capitale”, che diventerà un cortometraggio.

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Come hai scoperto che scrivere è la tua passione?

Ho iniziato, appunto nel 2013, decidendo di scrivendo del fratello di mio padre, che a quindici anni è scappato nelle Camice Nere: ho voluto così raccontare dei perdenti che ci credevano, e questo è stato pubblicato anche dal Secolo XIX, dandomi soddisfazione e iniziando a scrivere romanzi e racconti.

Il ricordo dei familiari e la passione per la tecnologia sono un fil rouge dei tuoi romanzi?

Sì, infatti il primo romanzo, “Magnifica Vis(i)one”, rappresenta l’incontro tra la nuova tecnica, la meccanica, e la realtà contadina del 1920, che in Piemonte e ha avuto come tramite i miei nonni da giovani. Le sorelle Gaslino, infatti, incontrano i fratelli Caffarena, facendo capire come la mancanza di rapporti fosse dovuta alla mancanza di comunicazione, che poi è stata superata poi col treno e i mezzi di trasporto propri: infatti mio nonno, che amante della meccanica e un inventore, aveva la moto e raggiungeva il Piemonte così. Al primo contatto con mia nonna non si capivano nemmeno, perché parlavano uno genovese e l’altra piemontese. Si capisce l’isolamento all’epoca dovuto al Passo del Turchino. E poi la meccanica che arriva nella tradizione contadina, quindi il trattore, e tutto ruota intorno a un tesoro, e al Castello di Visone, che è il paese di mia nonna. Nel paese, l’uomo amante della meccanica e dell’invenzione cerca il tesoro della leggenda e inventa una macchina per trovare i metalli senza avere energia elettrica. Il tesoro bisogna vedere se è proprio quello che si cercava o se è metaforico, e in tutto questo contesto il deus ex machina è il parroco. La ricerca del tesoro è una scusa per raccontare abitudini contadine di allora, che non erano molto cambiate negli anni Cinquanta rispetto al 1920.

L’invenzione ricorre anche nel secondo romanzo storico?

Sì, finalista ad Acquistoria 2016, “Lo spione di Piazza Leopardi” si svolge negli anni Trenta a Genova, appunto in Piazza Leopardi, ed è un giallo che parla di falsari, scritto con una certa ironia. Il richiamo alla tecnica nel romanzo è dato dal sistema di registrazione della voce, servito a una delle prime indagini ambientali dell’epoca, e naturalmente è fatto dall’inventore, quello del primo romanzo, che se la costruisce. Poi ci sono le indagini, le storie di denaro falso e una velata storia d’amore. Ma i miei libri sono per ragazzi.

Anche in “Quel gran signore del gatto Aldo” ci sono giallo e tecnologia.

Sì, Gatto Aldo si svolge ai giorni nostri, e racconta di un gatto raccolto da una pianista in pensione, Eugenia, cui è molto grato, perché salvato da morte certa, e quindi per ringraziarla le porta un dono al giorno, finché le porta uno strano oggetto. Sarà Oscar, il ragazzo cui dà lezioni di pianoforte, a capire che si tratta di una pennetta usb. Da qui, guardandone il contenuto, si sviluppa il giallo. Questo libro ha vinto il Primo Premio dell’Antico Borgo e ha ricevuto una bella recensione al Premio Italo Calvino. Il 14 luglio lo presenterò a Viareggio.

E ora “Vizio capitale” diventerà un cortometraggio.

Sì, nell’ambito di “Racconti nella Rete” ho vinto la sezione “Racconti per corti 2018” e il cortometraggio sarà realizzato dalla Scuola di Cinema Immagina di Lucca. È un racconto, ma dal momento che i miei racconti hanno sempre molto dialogo, è facile trasformare “Vizio capitale” in una sceneggiatura. Sarà proiettato a Lucca in occasione della XXIV edizione del festival LuccAutori in programma dal 21 settembre al 7 ottobre 2018.

Possiamo rivelare la trama di “Vizio capitale”?

In una piccola chiesa di campagna è quasi l’ora del desinare, ma Giuseppina, una vecchia contadina, decide di mettersi a posto la coscienza, perché ha commesso un grave peccato. Quale migliore occasione di una confessione per lavarsi l’anima? Don Giacomo, schiacciato dentro il confessionale non vede l’ora di uscirne, visto che il suo stomaco reclama, e pensa di cavarsela rapidamente. Ma non sarà così. Un grande dilemma si abbatte sui due personaggi. Saranno capaci di risolverlo?

Cosa rappresenta per te vedere un tuo racconto trasformato in video?

Il mio sogno è scrivere sceneggiati per la tv, quindi per me è molto importante e avrò la possibilità di seguire le riprese a Lucca. Ho cercato anche i bandi della Rai, ma richiedono soggetti molto brevi, o essere affiancati da un regista, che conosca e indichi tutta la parte tecnica. Mi dispiace aver iniziato ora, senza aver fatto una scuola, perché che ora è tardi.

Hai altre opere nel cassetto?

Ho scritto una commedia, che ha vinto un premio, e nel cassetto ho una serie di racconti, che farò uscire, e che hanno gli animali come denominatore comune: animali che trionfano sempre, come in “Un tesoro di cane”, “Il risveglio” e “Laurea ad honorem”, finalisti del Premio Letterario Mario Soldati. Infine sto scrivendo un altro romanzo, “Ricostruzioni”, sullo scandalo negli anni Sessanta della Pedemontana; anche qui ci sono un’indagine e al centro un cane lupo, Uto, sempre presente, un po’ come il Gatto Aldo.

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dall'articolo da lavocedigenova.it

QUENTIN TARANTINO: “Ero un piccolo etologo che osservava gli adulti nel loro habitat naturale”

QUENTIN TARANTINO da piccolo al cinema filmAll’epoca i miei giovani genitori andavano spesso al cinema e di solito mi portavano con loro. Avrebbero potuto piazzarmi da qualche parte (mia nonna Dorothy era quasi sempre disponibile), ma invece mi portavano con loro. Un motivo era perché sapevo tenere la bocca chiusa.
Di giorno mi era consentito essere un bambino normale che faceva domande stupide ed era infantile, noioso ed egoista come di solito sono i bambini. Ma se la sera mi portavano al ristorante, in un pianobar dove suonava Curt, in un locale notturno (cosa che ogni tanto succedeva) o al cinema – a volte addirittura con un’altra coppia – sapevo che erano cose da grandi. E se volevo partecipare alle cose da grandi, era meglio che non rompessi troppo i coglioni.

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Vi presento il mio MONET – Parla lo sceneggiatore GIORGIO D’INTRONO

Claude Monet Quando Claude Monet dipingeva – cioè quasi sempre – a nessuno era permesso interromperlo. Perfino il suo barbiere gli girava attorno con cautela, lasciandogli tra un colpo di forbici e l’altro lo spazio per muoversi, pennello in mano, nell’atelier en plein air di Giverny.
A raccontarcelo è Giorgio D’Introno, sceneggiatore di Le Ninfee di Monet. Un incantesimo di acqua e luce, che vedremo al cinema con la regia di Giovanni Troilo. Un rapporto quasi intimo ormai, quello tra Monet e D’Introno, scaturito da due anni di assidua “frequentazione”: da un episodio della serie Sky “Capolavori perduti”, cui Giorgio ha collaborato in veste di autore, fino al film targato Ballandi Art e Nexo Digital che, in un flusso di immagini cangianti, ci porta al cuore dell’arte di Monet attraverso la storia di un capolavoro unico, la Grand Décoration.
 
“Quando scopri l’uomo oltre l’opera, ti sembra di guardare per la prima volta la sua arte. Hai la sensazione surreale di essere lì al suo fianco”, spiega D’Introno: “Leggendo tutto quello che è stato detto su Monet, quanto lui stesso scriveva o lasciava trasparire nelle sue lettere, soffermandomi sulle relazioni che intesseva, ho scoperto un uomo dalla vita interessante, degna di un romanzo. Durante le riprese a Giverny ci sembrava quasi di essere i suoi vicini, liberi di entrare in casa e vedere che cosa stesse facendo. Questo ci ha dato uno straordinario senso di intimità, tanto più che Monet era molto restio a far entrare degli sconosciuti nel suo spazio privato”.

Che cosa ti ha colpito dell’uomo Monet?
“Sicuramente la grandissima determinazione di un uomo che non si è mai arreso di fronte agli insuccessi, alla vecchiaia, ai problemi di vista, alla guerra o ai lutti familiari. Proprio quando tutto sembrava perduto, ha trovato il modo di abbracciare quanto gli stava accadendo e avviare quella che forse è la più grande opera della sua vita, sicuramente una delle più grandiose della storia dell’arte di quel periodo. Una forza d’animo sconfinata che sarei felice di poter ritrovare alla sua età”.
 
Claude Monet 1Che tipo di taglio avete adottato per raccontare il padre dell’Impressionismo?
“Abbiamo scelto di concentrarci sulla figura artistica di Monet e su quello che aveva intorno, dalla temperie culturale al clima politico e sociale dell’epoca, tralasciando consapevolmente il gossip che può circondare un artista.
Ma per parlarne abbiamo usato un taglio speciale: l’amicizia con Georges Clemenceau, un uomo politico decisamente in vista, primo ministro e ministro della guerra francese negli anni caldi del primo Novecento. Conosciamo l’uomo Monet attraverso questa grandissima amicizia, per poi immergerci nell’impresa della Grand Décoration e nelle sue motivazioni”.
 
Quali sono gli aspetti più interessanti dell’amicizia tra Claude Monet e Georges Clemenceau?
“In primo luogo il fatto che non parlassero mai di politica. Pare che Monet non abbia mai votato in vita sua o che lo abbia fatto una sola volta. Frequentava l’uomo più potente di Francia, ma era un artista e la politica non gli interessava.
Clemenceau dal canto suo è stato il più grande sostenitore di Monet: è stato lui a voler portare la Grand Décoration al Musée de l’Orangerie, facendone non solo un monumento alla vittoria, ma anche un omaggio all’amico. Ha dedicato un libro alle Ninfee e ha continuato ad andare ad ammirarle anche quando le sale dell’Orangerie sono rimaste deserte e quest’opera magnifica abbandonata all’incuria.
Mi ha sorpreso l’umanità, la semplicità quotidiana con cui due uomini così in vista vivevano la loro amicizia. Clemenceau, per esempio, era uno dei pochi che potevano irrompere in casa di Monet in qualsiasi momento, spesso arrivando a gran velocità a bordo della sua automobile. I due avevano diverse passioni in comune, dal giardinaggio alle stampe giapponesi. Mi viene quasi da dire che Clemenceau fosse un Monet mancato, tanto simili al di là della politica erano i loro interessi”.
 
film Claude Monet Woman with a ParasolMonet è passato alla storia come il maestro dell’arte dell’istante. Come sei riuscito a trasformare il suo universo lirico in un racconto cinematografico?
“Trovo che l’immagine in movimento sia forse il modo migliore per raccontare Monet: in fondo è proprio quello che lui cercava di fare. Stiamo parlando del periodo in cui il cinema muove i primi passi, la fotografia evolve e inizia a sperimentare: l’immagine fissa è già quasi superata quando Monet decide di catturare i suoi istanti fugaci su tele che cambiano davanti a tuoi occhi, in base al tuo punto di vista e a seconda della luce.
L’impressione è che lui stesse cercando di coinvolgere lo spettatore in un’esperienza nuova, di mettere la pittura in rapporto con il tempo e con il movimento, ma non solo: la Grand Décoration è un’installazione immersiva ante litteram, quasi un esperimento di realtà virtuale o di realtà aumentata. Per accorgersene basta fermarsi davanti alle tele e lasciare che il tempo e la luce facciano la magia di trasportarti accanto all’artista sul lago delle ninfee. Come è successo a noi durante le riprese, quando abbiamo avuto il privilegio di contemplare i dipinti dell’Orangerie in totale solitudine. E con il nostro film proviamo a restituire agli spettatori proprio questa possibilità”.
 
A proposito di fotografia, la luce e il colore hanno un ruolo da protagonisti nel film... Che cosa puoi dirci del contributo della fotografa fiamminga Sanne De Wilde?
“Non è un caso che tra le persone intervistate durante le riprese ci sia una fotografa che ha realizzato una ricerca molto particolare: un progetto dedicato agli abitanti di un’isola del Pacifico che soffrono di acromatompsia, cioè totale assenza di percezione del colore.  Sanne è stato il link che cercavamo per parlare dei problemi di vista che in vecchiaia hanno alterato le percezioni di Monet, ma anche per collegarci al mondo della fotografia: gli impressionisti scomponevano lo spettro della luce in elementi più semplici, che è proprio quello che fa la fotografia”.
 
A un certo punto, la storia irrompe nell’incanto di Giverny con la violenza della Grande Guerra: Monet decide di fare delle Ninfee un monumento alla vittoria e alla pace…
“La guerra entra fisicamente in casa di Monet con le urla dei feriti del vicino ospedale da campo, mentre il villaggio di Giverny si svuota e il bellissimo giardino dell’artista va in malora perché anche i giardinieri sono spariti.
Tutta la Francia si mobilita, molti artisti sono impegnati sul campo di battaglia e Guirand de Scèvola inventa il camouflage militare sulla base della scomposizione impressionista del colore. Monet decide di dare il proprio contributo con la pittura, di opporre resistenza con l’arte a quelli che lui chiama i ‘barbari’ perché oltre alla popolazione francese minacciano icone di cultura come la cattedrale di Reims. In barba a tutte le difficoltà che gli si presentano, porta avanti con incredibile fermezza l’impresa della Grand Décoration, il lascito più importante che possa fare alla nazione. I salici piangenti e i ponti giapponesi insanguinati che dipinge in questo periodo portano i segni del suo disprezzo per la guerra”.
 
Quali sono state le fonti determinanti per questo progetto?
“Provo un sentimento di gratitudine immensa verso Ross King, autore di un’opera - Il mistero delle Ninfee. Monet e la nascita della pittura moderna - che ho letto prima di ricevere l’invito a collaborare a questo film. Un libro che poi mi ha aperto molte strade, eccezionale per la profondità e il modo di raccontare, ma anche inattaccabile dal punto di vista delle fonti. Nel mio lavoro la ricerca è spesso la parte più onerosa. Oltre che una fonte di ispirazione e una piacevole lettura, il libro di Ross King mi ha fornito una preziosa bibliografia, grazie alla quale, per esempio, ho potuto attingere all’opera di Daniel Wildenstein (Il trionfo dell’Impressionismo, n.d.r.), al corpus delle lettere di Monet e agli scritti di Clemenceau”.
 
Quali sono state le scoperte più intriganti in fase di ricerca?
“L’aspetto umano e terreno dell’autore di meraviglie così evanescenti da sembrare ultraterrene: i suoi vizi, i suoi capricci, la quotidianità. Una dimensione colorita che nel film abbiamo tralasciato per questioni di taglio e che tuttavia mi ha avvicinato moltissimo a Monet.
Per esempio ho appreso che era un fumatore accanito e che non lasciava mai spegnere una sigaretta prima di averne accesa un’altra. Mi sono chiesto come riuscisse ad avere tante sigarette anche in tempo di guerra e ho scoperto che a questo scopo Monet era capace di muovere attraverso fili invisibili personaggi anche molto potenti.
Come ho accennato, poi, l’artista non faceva entrare nessuno nel suo giardino al di fuori di pochi selezionatissimi ospiti e il suo attaccamento alla pittura era tale che tutto il resto della vita poteva solo scorrerle attorno rispettosamente: un’indicazione valida anche per il barbiere, a cui tra l’altro Monet aveva tassativamente proibito di toccare la sua barba”.
 
E sul set, com’è andata?
“Ho avuto la fortuna di essere sempre sul set e di girare il film insieme a Giovanni Troilo e a quelli che chiamo i nostri contributors: Ross King, Elisa Lasowki, Sanne De Wilde, Claire Hélène Marron. Giovanni è una persona che riesce sempre a sorprendermi: ha una visione molto personale degli argomenti che affronta. Dalla scrittura fino all’ultimo giorno delle riprese, abbiamo vissuto insieme un viaggio che mi ha arricchito moltissimo.
Uno degli aspetti più esaltanti è stato attraversare la Francia seguendo il corso della Senna, una sorta di spina dorsale della vita di Monet: un fiume che lo ha ossessionato fin da ragazzino e che lui si è portato dentro per sempre, fino a sentirsi in diritto di deviare un suo affluente per portarlo nel proprio giardino. Cercare di capire cosa lo avesse così ossessionato è stata una sfida interessante.
Ma l’impresa più difficile è stata seguire Monet nel suo sforzo di mostrare come il mondo cambi con la luce a ogni ora del giorno: ‘raggiungere l’irraggiungibile’ e ‘afferrare l’inafferrabile’ si è rivelato alquanto faticoso nelle lunghe giornate estive del Nord della Francia, dove il sole sorge alle 4.30 del mattino e tramonta del tutto dopo le 23. E pensare che per Monet questa era la norma, anche sotto la pioggia o con la neve”.
 
Dal tuo punto di vista, quali emozioni o messaggi possono comunicare al pubblico attuale l’arte e la storia di Monet?
“Probabilmente non c’è una risposta univoca. In un museo tu ti fermi mezz’ora davanti a un dipinto e gli altri passano oltre. Il segreto è tutto lì, nella maniera di fruire l’arte che è diversa per ciascuno di noi.
Con Le Ninfee di Monet. Un incantesimo di acqua e luce abbiamo cercato di offrire uno spettacolo per gli occhi, un godimento visivo concentrato in 90 minuti, che consenta a chi guarda il film di scoprire o riscoprire Monet e di innamorarsene. Sono estremamente felice e soddisfatto di quello che gli spettatori potranno vedere in sala, è davvero uno spettacolo strabiliante, una nuova lente per guardare Monet attraverso il cinema. C’è tanta bellezza in questo film: in buona parte è grazie Monet, il resto è merito di Giovanni Troilo”.
 
Articolo di  FRANCESCA GREGO per arte.it del 19/11/2018

Nel backstage di “MICHELANGELO INFINITO”. Parla la sceneggiatrice SARA MOSETTI

film MICHELANGELO INFINITO..... Prima di lasciarci travolgere dall’impeto di un genio in versione cinematografica, scopriamo con la sceneggiatrice Sara Mosetti i segreti di una produzione ambiziosa, che promette interessanti sorprese.
“Michelangelo infinito" è stato descritto come un punto d’arrivo nel dialogo tra il cinema e l’arte, che trova compimento in un “film di autorevole finzione”. Quali sono le novità di questo progetto?
Se ripercorriamo la storia del cinema d’arte di Sky, vediamo che è iniziata con documentari molto rigorosi, privi di elementi narrativi. Poi in “Raffaello – Il Principe delle Arti” abbiamo visto in scena attori muti e in “Caravaggio – L’Anima e il Sangue” abbiamo potuto ascoltare la voce intima dell’artista, il cui flusso era però interrotto dal commento dei critici.
Qui abbiamo provato a tenere voci e punti di vista differenti tutti dentro il racconto, senza mai uscire dal tempo di Michelangelo, e contemporaneamente a conservare l’autorevolezza di un documentario, grazie alla consulenza scientifica rigorosa dello storico dell’arte Vincenzo Farinella che ha garantito sulla veridicità storico-critica dei contenuti.
 
Quali sono gli aspetti della figura di Michelangelo Buonarroti che più hanno attratto la tua attenzione di donna e di sceneggiatrice?
Michelangelo mi ha colpita perché è un personaggio molto moderno, forse il primo artista nel senso attuale del termine: è tormentato, le sue energie sono interamente assorbite dall’attività creativa, ha una vita povera di relazioni ed è anche invidioso dei colleghi. Lui stesso racconta nelle sue lettere che ha problemi con il denaro e si dispera perché il suo talento non viene riconosciuto. Sono sentimenti molto vicini a quelli che prova oggi un creativo, come sono anch’io, e mi sembra che con Michelangelo compaiano per la prima volta nella storia.
 
Che effetto fa portare al cinema un gigante dell’arte? Che emozioni ti ha dato rapportarti a una figura così intensa?
Quando Cosetta Lagani (la direttrice creativa di “Michelangelo infinito" n.d.r.) mi ha telefonato per propormi questo lavoro, ho provato un terrore cieco: provengo dal mondo del cinema e della fiction televisiva e non mi mai ero mai occupata né di arte né di documentari. Però conoscevo gli altri meravigliosi lavori di Cosetta e la proposta mi ha subito galvanizzata. Anche se in modo nuovo, si trattava di costruire una storia, che è quello che ho sempre fatto.
La parte più interessante è stata entrare in relazione con il Michelangelo che pian piano prendeva forma nella mia immaginazione mentre andavo avanti nella lettura delle fonti, entrare in sintonia con lui come con una persona che avessi realmente incontrato. E anche tornare a studiare a quarant’anni è stato molto stimolante.
 
Quali sono le fonti su cui poggia la narrazione di “Michelangelo Infinito”?
Prima di tutto i racconti dei biografi contemporanei dell’artista, Giorgio Vasari e Ascanio Condivi. Abbiamo preso in esame le Vite di Vasari nelle due edizioni del 1550 e del 1564, tra le quali a fare la differenza è una cruciale revisione che riguarda proprio Michelangelo: nell’anno della morte del maestro, lo scrittore va orgoglioso dell’amicizia con colui che è già riconosciuto unanimemente come un genio.
Rispetto a Vasari, Condivi offre una versione alternativa di molti fatti: secondo alcuni scrive sotto dettatura dello stesso Michelangelo, che desidera correggere le verità riportate dal suo primo biografo.
E poi ci sono gli scritti autografi dell’artista: le lettere, conservate nell’Archivio Buonarroti, e le Rime. Uno spaccato dell’intimità e del quotidiano di Michelangelo, come spiega lui stesso a Vasari inviandogli i suoi componimenti: ‘Messer Giorgio, io vi mando due sonetti e benché sia cosa sciocca il fo perché veggiate ond’io tengo i miei pensieri’.
Tra le letture di autori contemporanei, invece, mi ha molto colpita Vita di Michelangelo del Premio Nobel per la Letteratura Romain Rolland: un romanzo dalla struttura meravigliosa, che sviluppa in forma di libro il nostro concetto di “autorevole finzione” e fa appassionare il lettore al personaggio come sanno fare i grandi scrittori.

Un universo composito e ricco di spunti. Come hai fatto a trasformarlo in una storia per il cinema?
La struttura del film ruota intorno a due “limbi”, due realtà sospese nel tempo in cui prendono forma il racconto di Vasari e quello di Michelangelo, ambientato nelle cave del marmo di Carrara: un orizzonte già ben definito da Cosetta Lagani e dal regista Emanuele Imbucci quando ho iniziato a lavorare alla sceneggiatura.
Da parte mia sono partita dallo studio delle opere ed è stata una scoperta. Oltre ad approfondirne la conoscenza ho dovuto mettere a punto un linguaggio nuovo, più caldo rispetto a quello dei critici ma autorevole e preciso, in una sfida per me assolutamente inedita.
Poi mi sono spostata in una dimensione che mi era più congeniale, quella del Michelangelo uomo, e ho iniziato a immaginarlo come personaggio. Tra le informazioni reperite nelle mie letture ho scelto quelle che ne esprimevano meglio l’umanità e i sentimenti.
Infine ho cercato in tutti i modi di mantenermi fedele alle fonti originali a partire dalla lingua: con leggeri interventi di italianizzazione, anche una prosa apparentemente poco fruibile come quella di Vasari è diventata scorrevole e facilmente comprensibile, pur conservando atmosfera ed espressività.
 
Mostrare, raccontare, coinvolgere: è stato difficile tenere insieme le molteplici dimensioni di quest’opera?
L’equilibrio è venuto da sé, come in una partitura musicale: ci si lascia guidare dall‘armonia. Nel film trovano spazio momenti emotivi, narrativi, momenti di alleggerimento… Ma il cuore di “Michelangelo Infinito” è nella descrizione delle opere e nello sguardo sui capolavori originali, che grazie a riprese in ultra definizione diventano visibili come se le di osservasse dal vivo e a distanza ravvicinata.

dall'Intervista di FRANCESCA GREGO per arte.it

Claude Lelouch: La vita è la più grande sceneggiatrice

Lelouch regista 2Ben 47 film all’attivo, due premi Oscar “nello zaino” (come dice lui) tre nuovi lungometraggi in preparazione. A 81 anni suonati Claude Lelouch, presidente di giuria al Festival di Montecarlo by Ezio Greggio, in gran forma, se la ride come un bambino. E con la semplicità di chi ama la vita («Amo tutto della vita: il freddo e il caldo, il mare e la montagna») si presta al “gioco” dell’ennesima intervista della giornata, tra una proiezione e l’altra, con un sorriso bonario.
Maestro, lei che è sempre dietro la macchina da presa, come si trova nel ruolo di presidente di giuria?
È il mio secondo mestiere: sono esperto di presidenze. Adoro vedere in anteprima i film degli altri che non sempre arrivano nelle sale francesi. Per questo quando me lo propongono, se non ho impegni già presi, dico sempre di sì.
Dopo tanti anni e tantissimi film, cosa rappresenta per lei il cinema oggi?
È la mia distrazione preferita: in pratica sono in vacanza da sessant’anni.
Domenica si assegnano gli Oscar: che ricordi ha della sua notte di gloria (nel 1966 vinse due statuette con “Un uomo, una donna”, ndr.)?
Lelouch registaAvevo 27 anni e non ho capito cosa stava succedendo. Arrivato a Los Angeles, dopo aver rifiutato il tour in Usa perché impegnato a girare, il fattorino che si occupò di portare le mie valigie in camera mi disse: «Stasera lei avrà ben due Oscar.  Ho portato il tè al Comitato, e ho sentito che avete vinto». Il tipo ha avuto una bella mancia… Così al momento della premiazione, avevo 5 nomination, ebbi la conferma. La serata di festa fu memorabile in compagnia di Steve McQueen e altre star del cinema. Alle 2 sono partito per Saigon dove giravo un film corale, con altri registi, sulla guerra del Vietnam. A Saigon salii sulla portaerei che ospitava undici amache per dormire: fu allora che tirai fuori le due statuette dallo zaino e la vista dei premi mi fece guadagnare la stanza d’onore del comandante.
Le capita di rivedere i suoi film?
Solo nei festival quando fanno qualche retrospettiva…
Lei ha sempre raccontato l’amore nel suo cinema. Perché?
Penso sia il soggetto principale dell’umanità. Mi sono sempre chiesto come mai ci si batta tanto per finire a letto insieme e, poi, si combatta altrettanto per uscire da quel letto. Tutto si fa per essere amati: è la storia del mondo.
Lelouch adora?
Le storie d’amore e le donne. Io faccio i film per loro che mi hanno insegnato tutto. Alle donne devo quel che sono oggi.
Come definirebbe le donne? Cosa rappresentano per lei?
Sono semplicemente degli uomini riusciti bene. Vede, io ho difficoltà ad avere amici uomini, non m’ispirano fiducia. Mentre, ogni tanto, posso avere fiducia in una donna.
Perché non si fida degli uomini?
Sono imbroglioni patentati, giocatori di poker camuffi…Sì, anche io sono un uomo e ne ho tutti i difetti. E, sì, anche le donne a volte giocano sporco, ma quando amano si danno completamente senza riserve.
Cos’è un film per lei?
Un reportage sul genere umano, un racconto sulla bellezza e sugli orrori di cui siamo capaci. È la vita la più grande sceneggiatrice: ma non è citata nei titoli di coda.
Nell’era del web, come vede il futuro del cinema?
Io credo solo nella sala e nel grande schermo: non potrei mai concepire i miei film altrove. Sono cresciuto nei cinema.
Lelouch regista 3La vita secondo Claude Lelouch?
Una corsa a ostacoli dove ogni volta c’è una “merda” da superare e se non combattiamo non abbiamo diritto alla felicità.
Progetti prossimi venturi?
Ho tre film in cantiere: uno, in particolare, l’ho iniziato 60 anni fa e spero di terminarlo presto. È un po’ il giornale della mia vita: ho avuto grandi amori con 5 donne e 7 figli ne ho da raccontare…
Fuori i titoli!
“I più begli anni della mia vita”, “La virtù dell’imponderabile”, “Oui et No” (le parole più usate dall’umanità).
Per fare un buon film occorre cosa?
La sincerità: parlare di ciò che si conosce è la prima regola. D’altronde con sette miliardi di persone al mondo abbiamo altrettanti scenari possibili e ben sette miliardi di sceneggiature. Ognuno ha almeno una vita da raccontare e ciascuno è protagonista della propria con sette miliardi di comparse intorno a sé.
 
Intervista di ORIETTA CICCHINELLI per metronews.it del 01-03-2018

Martín Desalvo adatta liberamente un racconto di Horacio Quiroga in "Figlia"

Girato a Misiones, il film racconta il rapporto teso tra una ragazza e suo padre dopo la misteriosa morte di sua madre. "Mi interessa fare un film che mescoli il fantastico e il drammatico, in modo che ci faccia pensare e ci metta alla prova come persone", dice il regista.

Come nasce la storia del legame familiare in questo particolare contesto?
FIGLIA di Martín DesalvoNel 2016 con Francisco Kosterlitz eravamo in pieno studio per sviluppare la sceneggiatura di El silencio del cazador  (2019) nella provincia di Misiones. A quel tempo si sapeva che l'INCAA avrebbe lanciato un bando per film a basso budget e il produttore ci ha chiesto se avevamo qualcosa da presentare. Ero interessato a lavorare di nuovo con il genere, poiché la mia esperienza con The Day ha portato l'oscurità (2013) è stato molto positivo. Con Francisco abbiamo iniziato a valutare le possibilità e tra i riferimenti testuali che avevamo abbiamo trovato il racconto di Quiroga “El hijo”. Il racconto ha quella meravigliosa capacità di Quiroga di trasmettere emozioni da una situazione fantastica che è il germe da cui mi piace partire quando lavoro con il genere. Così abbiamo deciso di fare un adattamento, abbastanza gratuito tra l'altro, e abbiamo iniziato a scrivere. Nella storia di Quiroga il protagonista è un ragazzo di circa 12 anni e ci sono solo il padre e il figlio. Ci è sembrato più interessante che sia un adolescente proprio per il conflitto di età, che è dove si è più concentrati sulla ricerca della propria identità e sul destino della propria vita. L'idea che fosse una giovane donna invece che un ragazzo è venuta a Mora Recalde e questo ha reso la sceneggiatura un colpo di scena ancora più interessante. Mettendo una donna in quel mondo scarno e tetro, ha reso più complesso l'atteggiamento di Juana nei confronti della vita in quel mondo solitario e isolato. E poi sorge la domanda ovvia; Cosa è successo alla madre, dov'è adesso? Quella figura importante, indispensabile per una famiglia, ci ha portato a immaginare i possibili scenari. E da questa assenza si comincia a costruire il conflitto familiare. La madre appare solo in una vecchia foto e non se ne parla mai. Sembra che ci sia una sorta di tabù sulla sua morte. E questo è precisamente l'innesco iniziale del conflitto interno di Juana. È a partire da questa domanda che il protagonista mobilita tutto il suo mondo e rivoluziona quel nucleo familiare. Ha reso più complesso l'atteggiamento di Juana nei confronti della vita in quel mondo solitario e isolato. E poi sorge la domanda ovvia; Cosa è successo alla madre, dov'è adesso? Quella figura importante, indispensabile per una famiglia, ci ha portato a immaginare i possibili scenari. E da questa assenza si comincia a costruire il conflitto familiare. La madre appare solo in una vecchia foto e non se ne parla mai. Sembra che ci sia una sorta di tabù sulla sua morte. E questo è precisamente l'innesco iniziale del conflitto interno di Juana. È a partire da questa domanda che il protagonista mobilita tutto il suo mondo e rivoluziona quel nucleo familiare. Ha reso più complesso l'atteggiamento di Juana nei confronti della vita in quel mondo solitario e isolato. E poi sorge la domanda ovvia; Cosa è successo alla madre, dov'è adesso? Quella figura importante, indispensabile per una famiglia, ci ha portato a immaginare i possibili scenari. E da questa assenza si comincia a costruire il conflitto familiare. La madre appare solo in una vecchia foto e non se ne parla mai. Sembra che ci sia una sorta di tabù sulla sua morte. E questo è precisamente l'innesco iniziale del conflitto interno di Juana. È a partire da questa domanda che il protagonista mobilita tutto il suo mondo e rivoluziona quel nucleo familiare. essenziale per una famiglia ci ha portato a immaginare i possibili scenari. E da questa assenza si comincia a costruire il conflitto familiare. La madre appare solo in una vecchia foto e non se ne parla mai. Sembra che ci sia una sorta di tabù sulla sua morte. E questo è precisamente l'innesco iniziale del conflitto interno di Juana. È a partire da questa domanda che il protagonista mobilita tutto il suo mondo e rivoluziona quel nucleo familiare. essenziale per una famiglia ci ha portato a immaginare i possibili scenari. E da questa assenza si comincia a costruire il conflitto familiare. La madre appare solo in una vecchia foto e non se ne parla mai. Sembra che ci sia una sorta di tabù sulla sua morte. E questo è precisamente l'innesco iniziale del conflitto interno di Juana. È a partire da questa domanda che il protagonista mobilita tutto il suo mondo e rivoluziona quel nucleo familiare.    

La descrizione della routine del luogo è molto genuina, quasi documentaristica, immagino che abbia richiesto molte ricerche preliminari.
Sì, la verità è che c'è molto lavoro investigativo, soprattutto da parte di Francisco che, oltre a indagare per El silencio del cazadorSviluppo anche diversi capitoli di documentari nell'area. Quando abbiamo iniziato con l'adattamento della storia, ci siamo trovati anche noi con la necessità di dare corpo a quella famiglia. di cosa vivono? A cosa servono e come funzionano o la mancanza di lavoro li modifica? Quindi farli lavorare con la produzione artigianale di carbone ci ha dato un doppio significato. Un senso pratico in cui questa dura vita di sussistenza nella zona viene raccontata in modo quasi documentaristico e anche un'importante possibilità metaforica. Carbone come elemento magico metaforico; È molto comune nella zona "leggere" il carbone. Il forno, il fuoco e le sue possibilità estetiche quando si tratta di generare immagini è anche qualcosa di molto interessante e unico da vedere in un film.

Ci parli della selezione degli attori
I tre attori principali hanno caratteristiche diverse e sono stati scelti per motivi diversi. Avevo lavorato con Jazmin in una serie che ho diretto Malicia ed è stato un suggerimento di Mora quando stavo pensando a un possibile cast. Aveva lavorato con Bruno in Il silenzio del cacciatore e ho pensato che potesse essere perfetto per il ruolo. E lavoro con Mora da cinque film e lei ha sempre una capacità di consegna, generosità e versatilità quando si tratta di comporre i suoi personaggi che la voglio sempre nella mia squadra. Ma se dovessi definire un'unica qualità che li racchiude tutti e tre, direi che tutti e tre sono ottimi attori. Il loro livello di impegno, il modo in cui mettono corpo e anima nel loro lavoro e il modo in cui riescono a trasmettere verità ed emozione nelle loro composizioni sono un fattore comune che li ha resi il cuore emotivo del film. 

La giungla acquista un'importanza particolare nella trama, come hai scelto la location?
La provincia di Misiones ha quel particolare magnetismo della terra rossa e l'esuberanza della giungla. È anche una delle particolarità che rendono così speciale il lavoro di Quiroga. Quando eravamo lì a fare ricerche per la creazione della sceneggiatura, abbiamo visitato la sua casa e poi abbiamo immaginato e compreso la vera dimensione di come doveva essere vivere nel mezzo della giungla in quel momento. È qui che si apprezza davvero la meravigliosa complessità del “monte” (come lo chiamano i locali). Addentrandosi nella giungla è impossibile non sentire l'energia vitale che emana da quel luogo e quanto sia difficile vivere in quell'ambiente. È anche notevole come una visione spirituale di quella giungla sia radicata nella cosmogonia del luogo, che è piena di miti e leggende pagane che sono una parte essenziale della vita e delle credenze del luogo. 

Il film inizia con la forma di un dramma familiare per diventare un thriller, hai pensato alla struttura del genere o è stata la storia a segnare la storia?
Sono consapevole di questo incrocio di generi e mi sembra che sia un bellissimo veicolo per contrabbandare emozioni in modo efficace, intrattenendo lo spettatore e allo stesso tempo facendolo riflettere. Mi interessa fare un cinema che mescoli il fantastico e il drammatico, in modo che ci faccia riflettere e ci interroghi come persone. Mi piace correre il rischio di mescolare i generi, anche se questo di solito è visto come un problema quando si definisce un film. Ma mi sembra più importante essere onesto con il proprio lavoro piuttosto che cercare di inserirsi nel mercato.

C'è un lavoro sensoriale di sperimentazione adolescenziale che si trasferisce alla sperimentazione formale, con montaggi e immagini surreali, quali sono state le linee guida per la post produzione in tal senso?
Questo è un aspetto che era delineato nella sceneggiatura ma che non ha avuto uno sviluppo concreto. Infatti, quando abbiamo iniziato le riprese a Misiones per mancanza di tempo, si è deciso di ridurre al minimo quella risorsa e si è girato molto poco. Poi, in fase di montaggio, non c'era modo di chiudere la storia senza quelle immagini, che sono frammenti di ricordi distorti dal tempo, che appaiono a Juana nella sua mente. Ricordo che dissi a Tambornino (il montatore) tutto ciò che credevo si potesse contare con queste immagini che non esistevano e che sentivamo che senza questo materiale il film non si poteva contare. Quindi abbiamo deciso di generare quel materiale, filmando le scene che ora sono nel montaggio finale e che si sono rivelate fondamentali per la comprensione.

Intervista di Emiliano Basile per escribiendocine.com

 

Una sfida, un sogno e un viaggio di Matías Desiderio attraverso "Car 24"

Matías Desiderio film cortometraggiPrimi passi del suo esordio. L'attore, regista e sceneggiatore ha parlato del film che lo vede davanti e dietro la macchina da presa. “Car 24 è il risultato di tutto quello che ho imparato durante la mia carriera”, ha sottolineato. Pablo in Palermo Hollywood (2004) è stato uno dei suoi primi e popolari personaggi sul grande schermo, mentre Nicolás in The Last Zombie (2022) è stato uno dei più recenti. Nel corso degli anni, Matías Desiderio ha interpretato molteplici ruoli attraverso diversi formati audiovisivi. Tuttavia, Car 24 ha un significato speciale, poiché, oltre ad essere il suo primo film da regista, è un progetto a cui ha partecipato anche come attore protagonista, produttore e co-sceneggiatore. Dialogando con EscribiendoCine , ha raccontato i dettagli della sua esperienza arricchente.

Car 24 nasce come cortometraggio e finisce per diventare un lungometraggio: cosa ha motivato l'estensione del racconto audiovisivo?
In realtà, venivo da un provino in cui ero stato molto vicino ad afferrare un personaggio. Mi sono trovato in un bar con un amico che fa il regista (Salvatore di Costanzo), gli ho detto un po' scoraggiato che volevo davvero girare in inglese e non mi era stato dato quel ruolo, e lui mi ha chiesto: ' Ho un'idea che mi piace molto per un cortometraggio'. Si trattava di due sicari molto diversi e sconosciuti che dovevano uccidere qualcuno, erano chiusi in un'auto per qualche motivo e non potevano andarsene finché il bersaglio non fosse uscito, era in ritardo, il che ha generato una specie di bomba a tempo, oltre nel caldo soffocante della California.

Ho pensato che fosse un'idea fantastica e ho proposto di farne un lungometraggio. Mi ha guardato, ha riso, e da quella notte ho cominciato a scrivere, e sono stato così, come un ossessivo, per tre mesi, dentro un appartamento a Los Angeles. Così è nata Car 24 ! Successivamente, abbiamo portato la sceneggiatura -che abbiamo co-scritto con Salvatore- a diversi produttori, pensando che forse non fosse successo niente, ma sono iniziate le prime conquiste, come l'ottenimento di finanziamenti.

Per me è stata una sfida tremenda, visto che fino a quel momento avevo diretto solo pochi videoclip e cortometraggi. Anche se avevamo una sceneggiatura, a volte era in qualche modo sperimentale.
Com'è stato il processo di ripresa?

Abbiamo girato il film nel corso di un mese. L'abbiamo girato in un posto molto pericoloso a Los Angeles: di giorno è un luogo di fabbriche e uffici, e di notte c'è molta prostituzione e spaccio di droga agli angoli. Ho sentito che dal momento che la storia si svolge lì, dovrebbe essere lì, e vediamo molti personaggi marginali nel film. Stavo facendo casting con persone reali e cercavo quelli che pulsavano che, in certi personaggi, potevano essere buoni. Per 15 giorni abbiamo girato le scene dell'auto, e poiché il film ha dei flashback e va in luoghi diversi, quelle sequenze sono state per le altre due settimane, più a Hollywood.

In una recente intervista a EscribiendoCine, in cui hai parlato del progetto, hai detto che non avresti ricoperto tutti quei ruoli contemporaneamente (recitazione, regia, sceneggiatura e produzione), ma hai consigliato di viverlo qualche volta perché è una grande scuola, cosa lezioni impari? hai preso?
Come regista, penso di dare molta importanza all'intuizione degli attori, ascoltando ciò che provano all'interno della scena, dando loro indicazioni, ma anche lasciandoli essere. D'altra parte, dai importanza a tutte le aree tecniche. Devi sapere quando lasciare andare il tuo ego e capire che qualcuno che ti è accanto può darti una soluzione a una scena, e quindi essere migliore di quello che stai vedendo. Si tratta di flessibilità alla ricerca dell'eccellenza, cercando di catturare una verità e trasmetterla. È successo qualcosa di collettivo, che ci ha fatto credere tutti nel progetto e spingere energicamente nella stessa direzione. Quanto ottenuto in Car 24 ha contribuito a raggiungere un risultato di cui sono orgoglioso.

Non esiste scuola migliore del campo. E salvo il giudizio se il film è buono o meno, per me è stata una grande scuola in cui ho imparato molto. Inoltre sono sempre stato molto curioso. Lavoro come attore da 20 anni e ho partecipato a molti set, quindi ho prestato attenzione a tutto ciò che c'è dentro, e questo mi ha dato un'idea delle varie aree all'interno di un film. Credo che Car 24 sia il risultato di tutto ciò che ho imparato durante la mia carriera, non solo come attore, ma anche guardando lavorare registi e altri ambiti. Ed è un sogno che si avvera, ho lottato molto per questo film, ci ho creduto molto fin dall'inizio. È stato un continuo convincere, e ho avuto la fortuna di incontrare persone che lo hanno fatto e che mi hanno accompagnato.

Prima della sua prima per il grande pubblico, il lungometraggio ha iniziato un percorso di festival...
Sì, l'abbiamo inviato a tre festival e ne abbiamo concordato uno, che è l'Arpa International Film Festival (Arpa IFF), che si tiene da 25 anni. Lì siamo stati nominati per "Miglior film", "Miglior regista" e "Miglior sceneggiatura". Quindi, siamo andati alla presentazione a Los Angeles, e abbiamo avuto la fortuna di incontrare alcuni noti personaggi di Hollywood, alcuni di loro dicevano 'Ho visto il film e l'ho adorato.' Abbiamo vinto il premio del pubblico che, secondo me, è uno dei più importanti. È stata davvero una carezza, una coccola che mi ha fatto capire che valeva la pena fare questo film, e che il mio impegno e quello di tutti i miei colleghi non era stato vano. Siamo saliti tutti sul palco ed è stata una serata meravigliosa. Per quanto riguarda la premiere, fortunatamente il film ha già una distribuzione.

Intervista di Matias E. Gonzalez per escribiendocine.com

 

La regista Kyndra Kennedy e i suoi consigli per i cineasti indecisi

Musicbed: Perché hai partecipato alla Musicbed Challenge 2020?

Kyndra Kennedy Cortometraggio cortoKyndra Kennedy: Il film che ho presentato per Musicbed Challenge era piuttosto personale. Il 2020 è stato un anno senza precedenti e stimolante, con tanta incertezza, emozioni accese e titoli polarizzanti. Musicbed Challenge è arrivata in un momento in cui avevo bisogno di uno sbocco creativo per ciò che stavo provando e osservando. Questa sfida mi ha permesso di creare un breve pezzo in cui sono stato in grado di esprimermi senza che nessuno mi interrompesse, tentasse di zittirmi o tentasse di invalidare la mia prospettiva. 

L'importanza del messaggio del film ha eclissato tutte le ambizioni di carriera che potevo avere in quel momento. Sono entrato perché avevo qualcosa da dire che potesse offrire un'idea di come si sentono le persone nella mia comunità. Musicbed Challenge mi ha dato uno sbocco e un motivo per fare un film che contava per me.

Qual è il vantaggio di partecipare a concorsi di cortometraggi?

Penso che sia un bene per la tua anima creativa creare qualcosa e pubblicarlo. 

Dal punto di vista sociale, penso che sia importante mostrare il tuo lavoro su una piattaforma con altri creativi in ​​modo da poter entrare in contatto con una comunità più ampia di registi. Ho incontrato e connesso a così tante persone dopo aver presentato un film in Musicbed Challenge. 

Dal punto di vista professionale, penso che sia un bene per la tua crescita vedere il tuo film guardato in modo critico. Ottenere feedback e incoraggiamento è positivo per la crescita. 

Alcuni feedback dei giudici sono stati davvero interessanti da ascoltare, così come critiche costruttive, che sostanzialmente dicevano "less is more" e che avrei potuto accorciare il mio film e avere un impatto ancora maggiore. E per un altro festival cinematografico, ho presentato una versione di 3 minuti dello stesso film e ho finito per vincere un premio. 

Penso che quello che scoprirai è che anche il giudice più critico ti mostrerà ancora un po' di amore e rispetto. Siamo tutti creativi. Conosciamo tutte le sfide del cinema, quindi vedremo cosa stai facendo senza farti vergognare, ma incoraggiandoti a continuare a creare e sfidare te stesso. 

Quali opportunità ti ha aperto vincere la Musicbed Challenge?

La vittoria mi ha davvero aiutato a far conoscere il mio nome, essendo presente in articoli e diversi blog e post online, incluso Forbes , il che è stato davvero fantastico. La vittoria mi ha messo sul radar di alcuni futuri clienti di produzioni cinematografiche, così come di altri cineasti che volevano collaborare con me. Ha anche creato una piattaforma per me per continuare a diffondere il messaggio del film e un punto di partenza per avere una conversazione difficile ma necessaria per aprire le menti potenzialmente e portare consapevolezza ai problemi nella mia comunità. 

In che modo vincere la Musicbed Challenge ha influito sulla tua carriera?

La vittoria mi ha dato fiducia come regista. È stata la convalida del potere della mia voce e l'uso del film per amplificare la mia voce e quella degli altri. Prima che arrivassero i risultati, mi sentivo già orgoglioso del mio film, e quell'orgoglio per il prodotto finale, e la sensazione di realizzazione nel vederlo fino in fondo, era di per sé una vittoria. 

Non devi vincere per beneficiare della competizione. C'è così tanto che puoi fare con un progetto completato. Avrò per sempre questo film per mostrare ciò che io e il mio team possiamo fare come cineasti. Senza la sfida, questo film potrebbe ancora essere un'idea nella mia testa che procrastino e non finirò mai per realizzare. 

Questo film non solo ha avuto un impatto sulla mia carriera, ma ha anche cambiato la mia vita. Ho incontrato nuove persone con cui collaborare e mi ha aperto le porte. Ho trovato la mia voce e realizzato il mio potere artistico. Ha davvero consolidato il mio perché. Voglio fare film che contano, film di cui posso stare a guardare e di cui essere orgoglioso. 

Cosa ti ha aiutato a scegliere la canzone giusta per il tuo lavoro?

L' app Musicbed è così facile da usare. È davvero un processo semplice e senza soluzione di continuità, sia che tu sappia esattamente di quale tipo di canzone hai bisogno (tempo, genere, stato d'animo) o che tu voglia solo cercare ispirazione. 

Quando cercavo una canzone, avevo già scritto la mia voce fuori campo e conoscevo lo stato d'animo, il genere e il tempo che stavo cercando. È stato uno di quei momenti in cui "lo so quando lo sento". quindi ho appena passato in rassegna le diverse canzoni di ogni categoria, recitando alcune righe per vedere se si adattava. Sono stato in grado di salvare i brani in una cartella di progetto finché non ho trovato quello giusto. Finì per essere una soluzione perfetta: tempo di esecuzione e tutto il resto. 

Cosa diresti a qualcuno sul recinto riguardo alla partecipazione a Musicbed Challenge?

Se sei indeciso, di solito è la paura o il dubbio a trattenerti. Per alleviare quella paura e incertezza, ti ricordo che non hai bisogno di un budget enorme o di troupe e attrezzature. Puoi fare un film con il tuo telefono! Diventa creativo, raccogli le tue risorse e fallo. Sia che tu abbia già un'idea che possa adattarsi alle linee guida della sfida o che tu crei qualcosa da zero, questa è una grande opportunità per vedere la tua idea fino in fondo e avere un film finito da aggiungere al tuo portfolio. 

Sfida te stesso e fallo per divertimento, non si tratta solo di vincere. Musicbed è un'ottima piattaforma per i cineasti per entrare in contatto con altri cineasti e vedere altri lavori che potrebbero ispirare il loro prossimo progetto. 

Ti sei mai sentito bloccato dal punto di vista creativo? In tal caso, come trovi i modi per sbloccarti?

Tutto il tempo. Dipende davvero da quale fase del processo creativo sono bloccato. Se sono bloccato a creare storie o personaggi di dialogo, posso guardare altri film o leggere sceneggiature e libri sul cinema e la regia. Il nerd in me si entusiasma nell'usare ciò che ho imparato. 

Quello che trovo è che di solito si riduce allo scopo o al tema più grande. Cosa sto cercando di dire e di conoscere davvero il mio perché . Devo riconnettermi con il motivo per cui voglio raccontare questa storia. Qual è lo scopo del film. Qual è lo scopo di questo personaggio o scena o linea di dialogo. Quindi posso eseguire il reverse engineering da lì. 

Altri modi per sbloccarsi sarebbero ispirarsi. A volte devi andare più in profondità, a volte devi uscire, letteralmente e figurativamente. Ottieni un'altra prospettiva. Forse ciò di cui hai bisogno sono degli occhi nuovi, qualcuno da cui puoi far rimbalzare le tue idee. Oppure può essere semplice come guardare altri film per trarre ispirazione da altri registi. 

Cosa c'è dopo per te?

Ho alcuni documentari in varie fasi di produzione. Compreso uno sulla riforma della giustizia giovanile e il lavoro di advocacy a Los Angeles, e una serie di docu che esplora la storia della ricchezza dei neri in America. Oltre a produrre e dirigere progetti originali, sto anche espandendo la mia società di produzione. Il mio obiettivo è acquisire finanziamenti per lo sviluppo di contenuti al fine di assumere creativi e personale per creare contenuti originali. Ciò alla fine fornirà opportunità ai creativi indipendenti e ai narratori sottorappresentati di creare contenuti da prendere in considerazione dalle principali reti e studi cinematografici / televisivi.

da musicbed.com

I mestieri del Cinema: Luciano Muratori, un artista del suono

Luciano Muratori fonicoPier Paolo Pasolini, Alberto Lattuada, Steno, Luigi Zampa, Carroll Ballard, Lina Wertmuller, Franco Zeffirelli, Klaus Kinski, Francis Ford Coppola, Michele Placido, Anthony Minghella: solo alcuni nomi della lunga lista di registi con i quali ha lavorato Luciano Muratori, fonico di presa diretta, un vero e proprio artigiano del cinema. Quella di Muratori è la storia di una famiglia praticamente nata e cresciuta a Cinecittà, dove prima della guerra i nonni gestivano la mensa, e dove poi papà Primiano, anche lui tecnico del suono, ha lavorato per tutta la vita.
Abbiamo incontrato Luciano a Roma nel quartiere Quadraro dove vive da sempre, per parlare insieme a lui del suo mestiere e delle sue esperienze: «Quello di tecnico del suono è un mestiere come tanti altri, nello specifico il termine con il quale si indica la mia professione è fonico di presa diretta cinematografica. A differenza delle altre tipologie di questo mestiere, quello della presa diretta cinematografica non è cambiato molto con il passare degli anni, questo perché a differenza degli altri fonda le sue radici negli anni 1930 (con la sincronizzazione del cinema) e ha sempre richiesto grande specializzazione fin dall’inizio, arrivando ai giorni nostri con gli stessi sistemi e protocolli tecnici di una volta, che non sono mai cambiati nemmeno con l’avvento del digitale».
Per seguire gli aggiornamenti e per rappresentare la categoria è nata nel 1986 l’Associazione Italiana Tecnici del Suono, di cui Luciano Muratori è stato alla guida per otto anni: «l’associazione esiste ancora e si è ampliata, sono entrati nuovi fonici, e continua la sua rappresentanza di questa categoria, anche se al giorno d’oggi rappresenta soltanto il 40 per cento dei fonici Italiani”.
A proposito di alcuni grandi registi con i quali Muratori ha collaborato, il fonico ci ha parlato di Pasolini, Coppola e Minghella: «Pasolini (conosciuto nel 1971 per il film “I racconti di Canterbury”) era una persona di estrema gentillezza e rispetto per chiunque, “dava del lei anche ai cani”, come disse una volta Ninetto Davoli. In tre mesi di faticose riprese in Inghilterra non l’ho mai visto nervoso o arrabbiato. Tra l’altro voleva girare il film senza fonici, poiché per sua esperienza lo riteneva inutile, ma alla fine per questione di regole sindacali io e mio padre fummo chiamati a lavorare sul set: a film montato Pasolini ci fece i complimenti per quel sonoro. Per quanto riguarda Coppola e Minghella mi sono sembrati simili, essendo tutti e due di origine italiana: quando venivano a girare in Italia prendevano troupe italiane invece che portarle dall’America. Ambedue dei grandi maestri, credo che lavorando in mezzo a noi si sentissero più italiani che americani. Ci terrei a citare l’organizzatore, lo stesso per tutti e tre i film che ho fatto con questi grandi registi: Alessandro Von Norman, per noi semplicemente Sandy, che non è più fra noi ma è stato uno dei più grandi organizzatori del cinema italiano e non solo, una di quelle figure professionali alle quali il
cinema americano vi si affidava come un punto di riferimento».
Per concludere, una riflessione sul cinema italiano di oggi e su Cinecittà: «Il Cinema Italiano attuale a differenza delle altre nazioni si è troppo plasmato alle necessità della TV; inoltre da noi non si è mai fatta una legge antitrust sulla distibuzione e questo significa che oggi le sale sono proprietà di pochi soggetti privati e pubblici: questo penalizza i produttori indipendenti, che non trovando distribuzione hanno cambiato mestiere.
Come tutte le cose anche il cinema cambia, l’importante è carpirne le buone prospettive e scartare quelle fallimentari, però per far questo ci vuole grande competenza e non è certo materia della politica. Riguardo a Cinecittà, oggi in questi stabilimenti c’è un tentativo di rilancio, tramite l’EIG con a capo Luigi Abete, che con un contratto del 1997 acquisì la gestione degli studios, ma non gli stabilimenti che rimangono pubblici e sotto tutela del MIBAC.
Solo un 20% della gestione è ancora in mano pubblica tramite l’ente Cinecittà Luce. Il brutto di questa vicenda è che solo apparentemente vuol passare come un rilancio per il cinema ma in realtà il piano prevede licenziamenti dei lavoratori interni, la costruzione di un nuovo teatro e di un albergo, un parcheggio per migliaia di posti auto e altro ancora. La domanda è d’obbligo: “Ma voi sapete come si gira un film?”. Da qui tutte le dimostranze e gli scioperi che la scorsa estate hanno visto i lavoratori di Cinecittà, gente di cultura, registi, autori, arrivare al presidio fuori lo stabilimento per dimostrare il loro disappunto. Non so come andrà a finire questa storia ma più volte ho spiegato loro che Cinecittà è conosciuta in tutto il mondo come l’ingresso del Cinema Italiano e se qualcuno la distuggerà dovrà prendersi le responsabilità nei confronti di chi verrà dopo di loro, e non credo che saranno encomiati sui libri del Cinema e della nostra cultura Cinematografica».

di Alessio Trerotoli per DiariCineClub n.3

Giovani ed emofilia. Intervista ad Alessandro Guida regista del corto "I miei supereroi"

I miei supereroi cortometraggioNel cortometraggio di Alessandro Guida si parla di emofilia attraverso le vicende di quattro giovanissimi in un camping estivo seguiti da due educatori. Grazie al riferimento ad alcuni dei supereroi i due ragazzi cercheranno di far capire ai più piccoli cosa significa essere come loro.

Alessandro Guida è il giovane e promettente regista del cortometraggio I miei supereroi, prodotto da MP Film, in collaborazione con Medusa. Nato dal concorso A fianco del coraggio, il corto affronta un tema importante, quello dell’emofilia. Una malattia rara, ma ancora esistente vista attraverso gli occhi di quattro bambini e due educatori. Alessandro Guida ci invita (e invita anche i protagonisti stessi e tutti coloro che soffrono di questa malattia) a guardare il mondo da un’altra prospettiva. Grazie a degli ottimi dialoghi e a delle buonissime interpretazioni anche da parte dei più giovani, Alessandro Guida presenta il suo corto con uno stile particolare, rivolto soprattutto ai giovani, ma non solo.

Com’è nata l’idea di parlare di un argomento del genere, fra l’altro tratto da una storia vera, come appare al termine del cortometraggio?

Il corto in realtà nasce da un concorso A fianco del coraggio, al quale partecipano tanti racconti dedicati a volontari maschi che aiutano le persone che hanno malattie o patologie. In questo caso il racconto che aveva vinto era un racconto di Alessandro Marchello, dal titolo Il tuffo. La storia racconta di un gruppo di ragazzi che frequentano un campeggio in estate senza genitori e scoprono di avere l’emofilia. Si tratta di una malattia abbastanza rara, ma che esiste ancora e si ha fin dalla nascita. Ci sono due tipi di emofilia: A e B. In entrambi i casi, in parole semplici, non si producono abbastanza piastrine e quindi bisogna stare molto attenti perché qualsiasi tipo di urto o di ferita è molto più grave, non potendosi rimarginare. E quindi anche giocare e fare attività fisica come tutti è generalmente più rischioso. Però oggi, attraverso l’evoluzione della medicina, ci sono farmaci che permettono di essere più tranquilli. Una di queste cure è l’infusione, cioè i ragazzi ricevono trasfusioni di plasma. E la cosa bella è che in questi campeggi imparano a farsi queste trasfusioni anche da soli. Nel cortometraggio, però, non c’è questo aspetto. Perché il tirante sono i due giovani educatori che seguono i ragazzini. Sono un ragazzo di vent’anni, interpretato da Guglielmo Poggi (Il tuttofare – qui per l’intervista al regista Valerio Attanasio) e una ragazza coetanea interpretata da Neva Leoni. Loro seguono questi ragazzini ed hanno due filosofie di pensiero diverse: la ragazza è più preoccupata e tende a far fare loro attività poco rischiose, invece lui è un ragazzo che pensa che questi ragazzini debbano affrontare la vita con coraggio, facendo attenzione, ma senza essere “spaventati da tutto”.

Il salto finale che si ferma alla fine dà un segnale di speranza sia per chi soffre di questa malattia che per tutti coloro che guardano il corto e si rapportano con questa malattia.

La metafora è proprio quella con i supereroi che hanno superpoteri, ma anche debolezze. Il potere che li contraddistingue, però, è il coraggio. Quando l’educatore li porta a fare un tuffo gli dice che ha paura anche lui di qualcosa (di quello che c’è sott’acqua). La morale è, però, che, facendo attenzione, ognuno può affrontare ogni cosa. Il cortometraggio si conclude con questo loro tuffo con l’immagine che si blocca. E il film, in generale, ha due scopi: il primo è sensibilizzare sul tema che non è conosciuto soprattutto dai coetanei; il secondo è raccontare che esistono anche realtà come questo campeggio dove i bambini possono avere una vacanza simile ai loro coetanei.

Anche lo stile è particolare. Sembra quasi un’avventura.

Si può dire che il cortometraggio ha uno stile poetico e d’avventura, tipo Stranger things e non è didattico né noioso. Lo spettatore viene condotto e solo alla fine scopre qual è il motivo, come un segreto che viene svelato poco alla volta. E la vicenda è tratta, appunto, da un racconto di Alessandro Marchello che è proprio la sua storia: lui è un educatore in questi camping creati da lui stesso. Perché lui, a sua volta, che adesso, a 50 anni, fa l’educatore è stato un bambino emofiliaco e lo è ancora e ha creato questi camping avendo vissuto in prima persona l’esperienza. Mentre la sceneggiatura è di Marco Borromei, anche sceneggiatore di Skam Italia. Quindi partivamo da un bel racconto, poi Marco ha scritto i dialoghi, molto intelligenti, ed è riuscito a creare un corto così breve con profonde emozioni. E poi anche gli attori sono stati molto bravi. Con i grandi avevo già lavorato ed erano molto affiatati. In particolare il personaggio di Guglielmo Poggi è bello perché rappresenta un educatore che è un po’ un Robin Williams di Patch Adams. Va contro la figura del tipico educatore perché gli piace scherzare e porsi alla pari.

Un aspetto che mi ha colpito è che non c’è mai una spiegazione della malattia che viene solo accennata e nominata, rimanendo in superficie. Mi è piaciuta particolarmente questa scelta perché secondo me spinge inevitabilmente lo spettatore a documentarsi (anche io stessa sono andata a cercare informazioni al termine della visione).

È un po’ la sfida che abbiamo lanciato e ci siamo voluti dare, insieme a Marco Borromei. Ci siamo detti che dovevamo emozionare con questo corto e appena finisce chi sarà colpito andrà in prima persona a documentarsi. Quindi in base a quello che hai fatto vuol dire che siamo riusciti nel nostro intento.

Come mai l’idea dei supereroi? Dal momento che il corto si basa su un racconto, l’idea dei supereroi è nata dall’autore o magari c’è stato qualche episodio derivante dai ragazzini che ti ha fatto pensare di inserire questo elemento nella vicenda?

No, nel racconto non c’erano. Si faceva riferimento solo a ragazzi coraggiosi e il titolo era infatti Il tuffo, in relazione a una serie di prove di coraggio che dovevano affrontare i ragazzi e l’ultima prevedeva proprio un tuffo. L’idea, sia mia che dello sceneggiatore era diffonderlo il più possibile nelle scuole per avvicinare i coetanei perché spesso c’è tanto imbarazzo nel dire di avere questa malattia. Avremmo dovuto portarlo nelle scuole, ma a causa dell’emergenza covid non è stato possibile. La scelta dei supereroi è legata al fatto che si tratta di figure riconoscibili per un pubblico giovane.

E invece c’è un legame, secondo te, con il tuo corto precedente Pupone, nel quale per raccontare la storia di Sasha ti sei fatto ispirare da Francesco Totti? In questo hai preso spunto dagli X-Men, Wolverine e appunto dei supereroi. Credi che l’impatto di una storia, più o meno drammatica, possa essere diverso e magari maggiore se accostato ad elementi come questi, ormai facenti parte dell’immaginario collettivo?

Il corto è girato in un modo particolare, ispirandoci un po’, come detto prima, alla serie tv Stranger Things, anche se è un prodotto completamente diverso sotto tanti aspetti. Noi però ci siamo ispirati soprattutto a quel tipo di sfide: raccontare una storia attraverso l’avventura. Abbiamo girato a largo di Castel Gandolfo, in una cornice molto bella, in una location pazzesca. E volevamo creare un clima di avventura. Contemporaneamente è girato con uno stile che permettere di essere di facile lettura sia per i giovani, ma anche per i più grandi. Ad esempio il dialogo tra i due educatori apparirà più chiaro ai genitori perché ci siamo ispirati alle classiche situazioni tra genitori, dove ci sono, a volte, idee diverse su come educare il proprio figlio. Questo tipo di dialogo mi sono accorto che ha colpito molto gli adulti.

I ragazzini protagonisti, che mi dicevi hanno alle spalle molta esperienza, sono stati molto bravi. Com’è stato lavorare con loro?

Per un progetto così breve abbiamo avuto la fortuna di fare tanti provini, più di 150. E abbiamo avuto a disposizione tre/quattro incontri per fare delle prove, appena scelti i bambini. Loro erano bravissimi. Io, poi, lascio molta libertà agli attori, soprattutto a quelli grandi, di improvvisare. Anche loro li ho spinti a farsi guidare dalla scena perché così risultano più spontanei e naturali. Alla fine si sono trovati bene perché era un’esperienza diversa, più matura. Fino a quel momento erano abituati a ripetere, mentre qui si sono fatti guidare. Christian Monaldi recita anche nella serie Sara e Marti; Alessio Di Domenicantonio, il più piccolo, è stato Lucignolo in Pinocchio . Alla fine è stato divertente e ha permesso loro di legare molto. Hanno anche creato un gruppo whatsapp.

Anche l’altro tuo cortometraggio Pupone era nato da una storia vera? Era nato con la stessa modalità?

Quella era una storia vera raccontata da un educatore di una casa famiglia. L’età dei protagonisti è diversa. Il protagonista di Pupone è un ragazzo che diventa diciottenne e che deve lasciare la casa famiglia per diventare adulto. La vera domanda che poneva è “crescere vuol dire andare via?”. Lì si racconta cosa succede nelle case famiglia dove il ragazzo cresce e a 18 anni è veramente pronto ad andare fuori e lasciare quelli che sono diventati i suoi genitori (gli educatori), i suoi fratelli che sono i ragazzi con i quali ha condiviso l’appartamento e instaurato un legame. Anche lì, come in questo corto, ci sono i supereroi come elemento per poter accattivare il pubblico giovane. C’era il parallelismo con il capitano della Roma Francesco Totti, idolo del protagonista, che una volta sopraggiunti limiti di età ha dovuto lasciare il campo da gioco. Questo parallelismo, secondo me è stato molto riconosciuto ed è stato anche l’elemento che ha reso Pupone così visto e apprezzato. Ancora oggi stiamo partecipando a molti festival con questo corto. E sono molto contento di questo perché si tratta di un lavoro che pone un tema che in Italia è molto sentito.

dall'Intervista di Veronica Ranocchi per taxidrivers.it

La poesia di Tonino Guerra

Lunedì, 8 marzo
Scappo da un mondo che si allontana da me. I giovani sono pieni di cose meccaniche che li servono. Leggo che il maggior numero di invenzioni mai attivate al mondo sono concentrate tutte nella nostra epoca. Tutto si trasforma in modo diverso, anche i pensieri. Ed allora è bello ritrovare le cose povere che ci hanno fatto crescere e godere. Vedo l'immensità dei cambiamenti che arriveranno per mettere in disparte i nostri passi ancora prudenti.

Giovedì, 18 marzo
Più invecchio e più ho bisogno di paesaggi abitati da gente che si accontenta di vivere una vita elementare. L'altro ieri ho rivisto alla televisione la storia di un ragazzo mongolo che imparava a fare amicizia con le aquile. La mia infanzia era con la fionda contro le lucertole lungo un fosso di campagna.

da "Trenta giorni con Tonino Guerra", Memorie, impressioni e poesie in forma di appunti del mese in cui lo scrittore ha compiuto novant'anni, scritte da Tonino Guerra per il Corriere della Sera di Domenica 9 Maggio 2010

Ti accorgi di un grande Sceneggiatore quando nel suo racconto ci sono immagini che ti fanno esplodere uno stupore che va oltre la storia e ti portano dentro domande senza risposta.

Cortometraggi PRIMI PASSI con TONINO GUERRA a Pennabilli

 

Intervista a Nicolas Philibert, Orso d’oro per Sur l’Adamant

Quando ci incontriamo con Nicolas Philibert l’Orso d’oro è ancora una aspettativa. Sur l’Adamant, che lo ha vinto in uno dei migliori palmarès di ogni festival degli ultimi anni con la giuria presieduta da Kristen Stewart, era appena passato in concorso, quasi verso la fine: un delicato ritratto di una realtà di cura psichiatrica in un barcone sulla Senna, lungo il Quai de Repèe, che fa riferimento al Polo Psichiatrico del centro di Parigi. Lì pazienti e curanti si incontrano ogni giorno e vivono insieme una dimensione di scoperta attraverso la relazione umana, la cultura, la musica, i libri, i film.

Una sfida, nata diversi anni fa da un progetto curato dalla psicologa e psichiatra Linda De Zitter che aveva messo insieme architetti, pazienti e curanti perché questo sogno divenisse realtà. «Conoscevo l’Adamant da tempo, poi mi è capitato di andarci, mi hanno invitato a alcuni workshop mostrando i miei film» racconta il regista.

Da cosa sei partito per filmare la vita sull’Adamant? Non è la prima volta che ti confronti con una istituzione psichiatrica, «La Moindre des choses» parlava della clinica di La Borde.

Mi interessava l’idea della cura che non può essere ridotta all’amministrazione quotidiana di visite, medicine e così via, e che invece dovrebbe mettere al centro della sua pratica la relazione umana, la singolarità di ciascuno. La psichiatria mi ha sempre interessato, è uno spazio che inquieta e al tempo stesso pone delle sfide, che fa pensare a noi stessi e ai nostri limiti. È uno specchio che ci dice molto sulla nostra vita. Purtroppo negli ultimi venticinque anni nel settore pubblico ha subito un decadimento dovuto ai tagli di budget, a promesse disattese, a situazioni che pian piano hanno demotivato chi vi lavora. L’Adamant è un luogo di resistenza rispetto a questo, ogni paziente ha un suo peso specifico, perché la psichiatria non è una scienza esatta. C’è chi pensa sia giusto riempire i pazienti di medicine per normalizzarli, e chi invece prova altre strade. Lì appunto non si cerca di «normalizzare» i pazienti ma si lavora su come ciascuno è, considerandolo nella sua unicità. Alcuni di loro sono ospedalizzati, altri no, ma al di là delle situazioni sull’Adamant trovano un’umanità che in altri casi è preclusa. Quella realtà ci dimostra anche che tutte le istituzioni, oltre alla sanità anche la scuola e la famiglia, devono essere curate.

In che senso?

Si deve evitare la routine, la burocrazia, la ripetizione che uccidono il desiderio necessario a praticare qualsiasi forma di cura. Ci vuole invenzione, passione, non ci si può affidare a gesti meccanici, stanchi, di chi non è coinvolto in quello che fa e perciò non riesce a coinvolgere neppure chi cura. Non si tratta solo di professionalità, ci possono essere stagisti di primo livello che hanno capacità meravigliose di curare, di attenzione, più di tanti iper-specialisti. Nella realtà dell’Adamant questa energia, questa invenzione costante sono vive; e non significa confondere lo statuto professionale né le funzioni di curante e curato ma è rilanciare questa relazione all’interno di una dimensione collettiva dove la cura è anche un scambio, curare fa bene a chi lo fa, permette di scoprire delle cose insieme. Sull’Adamant non ci sono etichette: chi cura non è identificato da una divisa o da un distintivo.

Come ti sei avvicinato alle persone? Ci sono alcune figure che tornano più spesso mentre il paesaggio intorno, e gli abiti, suggeriscono un movimento che ha attraversato diverse stagioni.

In realtà ho lasciato passare un po’ di tempo tra una ripresa e l’altra per prendermi una distanza e per non stare troppo addosso alla gente. Volevo far respirare le persone che filmavo, non prenderle in ostaggio. Se qualcuno si avvicinava e parlava un po’ con me allora filmavo, li seguivo, poi li perdevo. Ci sono molte questioni che ci si pone filmando un disagio, una malattia, come fare per non utilizzare un potere della macchina da presa, come porsi in modo da non «sfruttarli». Ho cercato di essere il più aperto possibile alle suggestioni intorno, anche perché credo, e ancora di più oggi, che il cinema sia una dialettica tra ciò che vedo o che penso io come regista e quello che si aspetta lo spettatore. Mi piace lasciare spazio, creare dei fuoricampo mentre adesso si cerca di spiegare ogni dettaglio dicendo al pubblico cosa deve pensare, che deve vedere. Questa idea di mostrare tutto, di rendere tutto visibile e evidente appartiene molto del nostro tempo, basta guardare i social network: la gente mette quello che mangia a cena, dove va in vacanza, ogni istante. Fa vedere tutto per non dire niente.

Articolo di Cristina Piccino  per ilmanifesto.it

 

Tonino Guerra racconta il suo rapporto con il cinema

Nell'intervista Tonino Guerra racconta il suo rapporto con il cinema e ricorda i grandi personaggi che ha incontrato, a partire da Federico Fellini. 

da lacompagniadellibro.tv

SYDNEY SIBILIA dai CORTI a SMETTO QUANDO VOGLIO! Intervista con Dario Moccia

Conosciamo un giovane regista che si è fatto strada nel cinema grazie ai primi Cortometraggi per approdare ai lavori di grande successo, tra cui l'amatissimo Smetto quando voglio!

Paragrafi dell'Intervista:

00:00 Momento appunti

02:00 L'ombra della chiave inglese

05:30 Prime influenze

07:40 Pellicola

13:00 La palestra degli spot

17:25 Matteo Rovere

21:45 Smetto quando voglio

27:52 L'incredibile storia dell'isola delle rose

31:32 Streaming e sala

37:10 Mixed by Erry

 

 

Intervista al regista americano John Singleton

John Singleton è un ragazzo prodigio del cinema nero americano. E' l'autore di uno dei film che hanno segnato lo scorso decennio: Boyz'n the hood, raccontava per la prima volta sullo schermo, con impressionante realismo, l'ordinaria criminalità della Downtown di Los Angeles. Grazie a quel primo film, John Singleton è stato il più giovane regista che abbia mai ricevuto una nomination all'Oscar. La statuetta non l'ha vinta, ma per uno che ha la pelle nera il Premio Oscar è quasi un traguardo impossibile. John Singleton, del resto, è una specie di piccolo leader dei neri americani, e questo spiega perché ha firmato il remake di Shaft, vecchia bandiera del black cinema. Ma nonostante ciò, Singleton è un regista di scuola europea, che ha studiato Vittorio De Sica e François Truffaut, i suoi maestri preferiti insieme a Akira Kurosawa. Abbiamo incontrato John Singleton a Los Angeles nei luoghi di Boyz'n the hood, a Downtown, dove si trova il suo ufficio, proprio nel momento in cui esce in Italia il suo nuovo film Baby Boy.

John, il protagonista del tuo ultimo film, “Baby Boy”, è così mammone che sembra un italiano.

Ho sentito dire che in Italia ci sono molti uomini legati alle loro famiglie, alle loro madri. Quelli che voi chiamate “mammoni” in America vengono chiamati, appunto, “baby boys”.

E' molto diffuso il mammone nelle famiglie nere americane?

Abbastanza. In molte famiglie ci sono ragazzi che si sentono a loro agio solo con la madre. In questo film ho raccontato la storia di un ragazzo che si trova a metà strada tra l'uomo e il bambino. Il suo amore per la madre gli impedisce di crescere, di andarsene ed è alimentato dalla paura di essere ucciso per la strada.

Non credo che questo personaggio sia autobiografico, giusto?

Infatti non lo è. Io me ne sono andato di casa a 17 anni.

Quando eri ragazzino hai conosciuto qualcuno che assomigliava al tuo personaggio?

Sono cresciuto in mezzo a persone come Jody, il ragazzo di Baby Boy. Questo film è una specie di seguito di Boyz'n the hood ed è ambientato nello stesso posto, il ghetto di Los Angeles. E' un quartiere bellissimo, ma è una specie di Far West, sulle strade la gente si spara.

Ma immagino che in quel ghetto ci fosse di tutto, anche i ricchi...

Esattamente. Il film è iperrealistico. Il periodo è quello del dopoguerra, dell'avvento della televisione, quando le telecamere iniziavano ad essere più piccole e più leggere. E si girava nelle strade, si usavano attori che non erano attori ma persone comuni. Anch'io nel mio film ho fatto la stessa cosa. Ho utilizzato persone che non erano attori per conferire un maggiore realismo al film, come facevano De Sica e Rossellini...

Il tuo film ricorda il primo Spike Lee, “Lola Darling”.

Sì, sono d'accordo. Forse perché è un film centrale. In America abbiamo bisogno di film centrali. In questo film ho davvero cercato di creare una centralità totale. E' un film sull'amore e sul sesso, con scene esplicite, con bellissimi attori di colore. I film americani sono troppo tranquilli, troppo politically correct, non c'è quasi mai niente di stimolante.

E' come se avessero addosso un preservativo.

Esatto. C'è un preservativo sul cinema americano. E io l'ho voluto togliere.

Da tanto il cinema americano non riesce più ad essere sensuale...

Perché c'è molta più violenza che sesso. I registi europei fanno film sulle emozioni mentre quelli americani fanno film basati sugli effetti.

John, tu sei uno dei pochi membri di colore dell'Academy Award. Sei stato il più giovane regista ad ottenere una nomination. Ma non hai vinto l'Oscar. I neri non riescono quasi mai a vincere.

Succede ogni morte di papa, ma mai dire. Voglio dire, l'Academy è composta da 5000 persone. Si potrebbero mettere tutti su un palcoscenico se si volesse. Insomma, è solo un'Academy.

E quanti sono i membri di colore?

Non saprei, credo meno di 300.

Ecco perché non vincete mai, ecco perché Denzel Washington non ha mai vinto.

Denzel Washington aveva avuto una nomination per Hurricane. La sua interpretazione era fenomenale.

Come è possibile cambiare la situazione?

Penso che sia necessario stabilire un rispetto reciproco tra gli artisti, indipendentemente dal fatto che siano bianchi o di colore. E' questo che deve cambiare. E' una questione politica. Gli studios di Hollywood spendono un sacco di soldi per poter vincere un Oscar. E' come durante una campagna elettorale. Si spendono molti soldi per convincere la gente che quello è il candidato giusto. Purtroppo, anche l'Academy Award è diventata così.

Non credi che oggi non sia più utile fare del cinema nero, solo con i neri, solo per i neri?

Non faccio rientrare i miei film in nessun genere. I miei film parlano la lingua del cinema.

Perché non hai mai scelto attori bianchi?

Non so. Non si è mai presentata l'occasione. Dipende dai film che voglio fare. A volte voglio fare un film sull'Africa, altre volte voglio fare un film su New York oppure su Roma. Dipende solo da questo.

Se dovessi scegliere solo attori bianchi quali sceglieresti?

Non saprei. Mi piacerebbe dare un film con Robert De Niro, che è un mio amico. Me ce ne sono altri con cui vorrei fare un film. Penso che Edward Norton sia un bravo attore. E anche Giancarlo Giannini. L'ho visto in Hannibal. E' bravissimo.

Quand'è che hai deciso di diventare un regista?

Avevo soltanto 9 anni. Avevo visto Guerre Stellari. Credo di averlo visto almeno 10 volte. E più guardavo il film, più pensavo a come era stato fatto, come era stato costruito. Avevo cominciato a capire che un film doveva essere diretto, scritto, doveva essere curato, fotografato, e gli attori dovevano essere guidati. La persona che metteva insieme tutti questi elementi si chiamava regista. E così mi dissi: “Ecco cosa voglio fare. Voglio fare il regista”.

So che ti piace molto il cinema europeo. Chi è il tuo regista preferito?

François Truffaut. Mi piace Bernardo Bertolucci, ma François Truffaut lo adoro perché la sua vita rispecchia la mia. Il cinema mi ha strappato alla delinquenza. Ho scoperto che a François Truffaut è successa la stessa cosa. Allora ha iniziato a considerare il suo lavoro sotto questo aspetto, e mi sono completamente identificato nel personaggio dei suoi primi film, Antoine Doinel, il protagonista dei Quattrocento Colpi.

Nel tuo ufficio ci sono anche manifesti di Akira Kurosawa, di Sergio Leone...

Mio padre aveva l'abitudine di andare a Downtown per vedere i film non americani. Era un appassionato di cinema. Gli piaceva descrivermi il modo in cui Toshiro Mifune sferrava i calci. Io gli chiedevo: “E chi è Toshiro Mifune?”. Quando frequentavo la scuola di cinema, ho visto Toshiro Mifune in Sanjuro di Kurosawa e ho capito che quello era l'uomo di cui parlava sempre mio padre. Sempre alla scuola di cinema, ho scoperto che Sergio Leone è stato influenzato da Kurosawa. E' stata una bella avventura per me crescere con i film e con il cinema. Sono uscito dalla scuola a 22 anni e sono subito entrato nel mondo del lavoro. Mi sono diplomato nel maggio del 1990 e a giugno stavo già lavorando a Boyz'n the hood.

Come hai fatto?

Avevo sentito dire che Steven Spielberg aveva girato il suo primo film all'età di 26 anni e volevo fare come lui. Anzi prima di lui. E così, ho girato il mio primo film a 22 anni.

Sei un regista dalla personalità molto riconoscibile. Me ne sono accorto vedendo “Shaft”.

Shaft è il mio film pop-corn. Mi ha divertito molto farlo.

In Italia “Boyz'n the hood” si intitolava “Strade violente”. Sono cambiate quelle strade negli ultimi anni?

Sono cambiate, ma penso che cambieranno molto di più con la nuova generazione. I ragazzi neri hanno sempre meno paura. Era la paura a spingerli a fare le cose che facevano.

Intervista di David Grieco – L'UNITA' – 12/11/2001

Intervista a Matteo Rovere sul cortometraggio "Homo Homini Lupus"

Ci può parlare del suo lavoro "Homo Homini Lupus"?
Matteo Rovere: Il cortometraggio "Homo Homini Lupus" è la storia delle ultime ore di vita di un Partigiano, ed è basato su vicende reali accadute nell'Aprile 1943 all'interno delle campagne del Lazio. La sceneggiatura unisce due piani: il primo, estremamente realista e duro, racconta queste ultime ore. Il secondo, soggettivo ed interiore, racconta il percorso emotivo del protagonista durante lo svolgersi di questi drammatici avvenimenti. Il fine del film è quello di portare lo spettatore "all'interno" della vicenda stessa, per meglio comunicare il messaggio che il sacrificio di quest'uomo ha significato.
Come mai ha scelto di descrivere le ultime ore di un partigiano? Da cosa ha tratto il soggetto e come ha elaborato la sceneggiatura?
Matteo Rovere: Il cortometraggio nasce da un vero e proprio "colpo di fulmine": la lettura della lettera di un Partigiano, Paolo Braccini. L'uomo, il giorno prima di essere fucilato, scrive una lettera alla propria figlia, che però non conoscerà mai (la moglie è ancora incinta). Sono parole struggenti, cariche di vita in modo assoluto, sebbene così consapevoli e vicine alla morte. Ho sentito davvero l'animo umano, intimo e reale, nascosto dietro la Storia universale, che in quelle poche parole si fondeva in modo inscindibile con la storia di un individuo: qualcosa di molto lontano dalle nozioni apprese sui libri. Questo sentimento ha fatto nascere in me l'esigenza di proporre il cortometraggio.

Come mai il titolo del film è "Homo Homini Lupus"?
Matteo Rovere: L'homo homini lupus di Hobbes in questo contesto sintetizza la guerra come espressione della natura ferina, dell'istinto umano violento e bestiale. Il protagonista, sopraffatto, torturato e circondato da un mondo tragico e inumano, fino alla fine non sa di poter volare più in alto dell'homo homini lupus. È un personaggio che cresce, che muore libero perché ha saputo trovare questa libertà dentro se stesso, nel significato che riesce ad attribuire alla sua vita, correndo in uno spazio dove nemmeno le torture riescono ad arrivare.
Come è avvenuta la scelta di Filippo Timi per il ruolo di Angelo Pietrostefani?
Sono un grande appassionato del lavoro e del percorso di Filippo Timi: ho quindi cercato Filippo attraverso la sua agenzia, Officine Artistiche, proponendogli il progetto, e rimanendo molto felice del suo entusiasmo a partecipare. E' un attore di talento e grandissima energia: questo breve film trova in lui un deciso punto di forza.
"Homo Homini Lupus" ha vinto diversi premi. Cosa crede colpisca di più nello spettatore del suo lavoro?
Matteo Rovere: Forse la capacità del film di trasportare lo spettatore in una realtà lontana nel tempo, che attraverso una resa estremamente realistica, viene riportata alla luce come presente, facendoci immedesimare nella vicenda raccontata.

Ci può parlare un po' della Ascent Film, la casa di produzione del film?
La Ascent Film (www.ascentfilm.com) è la casa di produzione fondata da Andrea Paris. Si tratta di una realtà produttiva in grande crescita, che può contare su un know how dinamico e attento ai giovani e alla qualità dei progetti proposti. E' il tipo di struttura che, in Italia, spero possa trovare sempre più spazio: ne abbiamo davvero bisogno.
Come considera il panorama cinematografico italiano del momento?
Matteo Rovere: Il cinema italiano mi sembra in crescita dal punto di vista dei risultati al botteghino, ma non mi pare di poter affermare lo stesso per quanto riguarda la qualità. E' vero che esistono diversi tipi di "cinema", ed è giusto che sia così, ma le produzioni e i finanziatori devono trovare il coraggio e la spinta per investire i buoni risultati ottenuti anche in nuovi film di qualità vera, che possano fornire un'alternativa reale alla televisione, e non un'emulazione, pallida sia dal punto di vista formale che contenutistico. Il pubblico secondo me deve essere stimolato, non sottovalutato.
Come crede si possa migliorare la distribuzione delle pellicole italiane in sala?
Matteo Rovere: Forme "di protezione" da parte dello stato, simili a quelle presenti in Francia, potrebbero essere un buon inizio. Il cinema francese va da Ozon a I Fiumi di Porpora, da Audiard a Besson, ovvero da un cinema di intrattenimento quasi hollywoodiano a un cinema intellettuale ed elitario: come mai riescono a convivere bene queste anime così diverse? E' la dimostrazione che aiutare l'espansione del settore sarebbe solo un fatto positivo; esistono vastissime fette di pubblico che ancora non prendono in considerazione il cinema italiano: la colpa è nostra, dobbiamo riconquistarle.
 
Intervista di Simone Pinchiorri  per cinemaitaliano.info  del 07/05/2007
 
 

Intervista all’autore, regista e sceneggiatore Valerio Vestoso

Classe 1987, Valerio Vestoso nasce a Benevento, la sua corsa verso il traguardo, parte già bene, nel 2009, scrive “Erennio Decimo Lavativo”, commedia teatrale per la regia di Ugo Gregoretti, per poi approdare al cortometraggio con “Tacco 12”, mockumentary sull’ossessione per il ballo di gruppo che ottiene più di 40 riconoscimenti in tutta Europa. La sua carriera continua con altri cortometraggi, direzioni di numerosi branded content e commercial tv.

Come  riesce oggi uno sceneggiatore o un regista a realizzare il suo sogno?

Adesso fare un film è molto complicato. Non c’è più un produttore che mette i soldi suoi, nessuno rischia più su un nuovo talento. Questo porta ad un appiattimento dei contenuti. Il cortometraggio per un aspirante regista non è più un trampolino, ma diventa un buon biglietto da visita, ma non è propedeutico a un film, come era un tempo. La strada è quella di trovare qualcuno che abbraccia con te l’idea di un film. È tosta, è tostissima, ma spero di farcela.  Un’ottima esperienza professionale per me è stata lavorare con, The Jackal.  Ho girato molti spot con loro, palestra fondamentale, sono stati il mio, Centro Sperimentale.

Oltre al cinema, sei anche autore televisivo, di uno dei programmi più folli e riusciti degli ultimi anni, “Una pezza di Lundini”. Come è nata l’idea di questo format?

L’idea nasce da Giovanni Benincasa e Valerio Lundini, nel periodo pandemico iniziale. Emanuela Fanelli mi ha coinvolto, mi ha fatto vedere una puntata zero e ho pensato: “È una follia totale.” C’erano dei tempi televisivi che non erano tempi televisivi, cose assurde, un modo di rapportarsi all’ospite diverso, disinteressato, l’opposto di quello che è oggi la televisione. Tutto questo mi ha attirato, ma penso che alletterebbe qualsiasi autore. Abbiamo la fortuna di poter scrivere idee e di sperimentarle, per un autore, per uno sceneggiatore è il massimo.

Come è iniziata la tua carriera?

Io vengo dal cortometraggio, dopo tre lavori abbastanza fortunati, l’ultimo è Le buone maniere, che è stato in selezione ad Alice nella città (sezione autonoma e parallela della Festa del Cinema di Roma dedicata alle nuove generazioni) sta girando un bel po’, e ha vinto l’edizione 2021 di Cortinametraggio, ho girato un documentario, Essere Gigione su un personaggio molto strano, si chiama appunto Gigione ed è il re delle feste di piazza italiane.  Una persona assurda che nelle sue canzoni mescola sacro e profano. Ha molto seguito, nonostante sia senza una casa discografica. Con il suo stile, riesce a cogliere l’espressione un po’ folk e popolare del pubblico di provincia. Ci sono molte persone che lo seguono e quasi lo hanno divinizzato come una sorta di Dio del folk. Questo mi ha stuzzicato, l’ho seguito per due anni, siamo andati in giro per le piazze. Anche questo documentario ha avuto abbastanza successo. Lavorandoci ho scoperto come Gigione, nel mondo della provincia, orfano di punti di riferimento, politici, culturali, religiosi, ha riempito questo vuoto. Ho cercato di dare a questa storia un taglio più profondo e meno folkloristico concentrandomi soprattutto con il rapporto che ha con i suoi fans.

...... dall'intervista di  Elena Cirioni  per banquo.it

 

Intervista a Daniele Ciprì, tra cortometraggio e lungometraggio

Tu sei stato direttore della fotografia e regista di lungometraggi e cortometraggi. Qual è la specificità, se c’è, del lavoro su un cortometraggio?

Per me sono due cose identiche come forma di lavoro e di passione. Come forma di libertà, invece, ne hai di più con il cortometraggio. Io il cortometraggio lo faccio come autore, ne ho girati diversi, ne ho fatti tanti con le scuole e, da giovane, con Franco Maresco. Sono dei momenti in cui un regista è più libero, può studiare una forma nuova per raccontare o mettere in scena una storia che non è adatta a un lungo. È un’occasione in cui sei più indipendente, in cui hai meno responsabilità rispetto a un lungometraggio, anche perché hai meno budget. Quindi non è solo una questione di durata. Questa libertà ti consente di sperimentare. Nei miei cortometraggi credo sia ancora più evidente la mia passione per il cinema e la sperimentazione di forme di racconto attraverso questo specifico linguaggio.

Io indirizzo sempre i giovani autori che vogliono raccontare storie attraverso il cortometraggio a fare più sperimentazione. Con il lungometraggio si è più vincolati, devi raccontare una storia che possa intrattenere il pubblico, convincere un produttore e un distributore. Hai un altro tipo di percorso rispetto al corto, che è più libero e anche più internazionale. Non a caso i cortometraggi italiani vengono visti in tutto il mondo, girano tantissimi festival (i nostri lungometraggi, invece, fanno decisamente più fatica). Negli ultimi anni, poi, si stanno moltiplicando festival di corti e cresce l’attenzione verso questa forma d’arte.

L’audacia e un senso fortissimo della visione non è mai mancata nel tuo lavoro. Quanta ne vedi nel cinema italiano in generale e nei corti di questi giovani autori in particolare?

Nell’edizione di quest’anno di Corto Dorico ne ho vista un po’ meno, negli anni precedenti c’era molta più visionarietà, anche raccontando la realtà. Quasi come un rimprovero, dico agli autori che c’è troppa attenzione alla realtà, ma nessuna visione del concetto del proprio mondo immaginario; non trasportano, insomma, la realtà nel loro mondo immaginario. Questo è il rischio che il cinema (non solo breve) può avere come tipo di caduta, nel senso che non deve essere solo il cinema del reale quello che deve dare forza alla narrazione ed esserne oggetto. La realtà la puoi raccontare seguendo il tuo mondo interiore, è una cosa che ci hanno insegnato Federico Fellini, Pier Paolo Pasolini, François Truffaut, che tu prendi la realtà e la trasferisci, la trasformi nel tuo immaginario. Questo è il tipo di lavoro che io faccio sia nel lungo che nel corto. Quel tipo di atteggiamento che ti permette anche di capire e raccontare te stesso, il tuo mondo, esorcizzare nell’arte i tuoi fantasmi. È questa la mia visione ed è questo che cerco anche nel cinema degli altri.

Quali sono stati i modelli che hanno illuminato la tua visione del cinema?

Io ho visto tanto cinema sin da ragazzo. Carl Theodor Dreyer mi ha assolutamente catturato. Ingmar Bergman, John Ford, Orson Wells, tutte queste diverse sfaccettature del cinema, ma anche registi meno riconosciuti dal canone, quelli del cosiddetto B Movie, autori come Mario Bava, anche quelli mi hanno affascinato e fatto appassionare al cinema. Mi hanno indotto a capire che poteva essere un modo per raccontare storie, trasfigurare i propri sentimenti e paure. Il cinema è una forma d’arte che mi appartiene. Posso dire che mi ha colpito proprio il cinema del passato. Io non ho molti riferimenti contemporanei, arrivo a Stanley Kubrick, ai giorni nostri fino a David Lynch. Dopodiché, quando faccio un film, parlo sempre di cinema con me stesso. Mi dico: questa la faccio alla Orson Wells, quest’altra alla John Ford, quest’altra ancora alla Roman Polanski. Ho questo continuo dialogo con me stesso sul set, che mi appassiona a quello che faccio e m’innamora sempre di più del cinema, in un continuo confronto.

Quanto può incidere un direttore della fotografia su un film?

Io, come direttore della fotografia, quando non sto facendo un mio film, dico sempre che sono colui che coglie l’immaginario altrui. Sono al servizio di una storia, proponendo anche altre possibilità, il mio mondo creativo, ma sempre in maniera vicaria, perché poi il regista deve essere libero, anche di sbagliare, soprattutto se giovane. Quindi, da direttore della fotografia, cerco di dare forma alle visioni degli altri. Quando faccio un mio film, invece, litigo con me stesso, perché faccio contemporaneamente il regista e il direttore della fotografia e cerco di capire come poter raccontare una storia. Parto sempre da un input che mi viene dalla realtà, dopodiché scrivo la sceneggiatura insieme ai miei collaboratori, che mettono ordine alle mie idee e mi aiutano a realizzarle.

Hai lavorato con grandi maestri come Marco Bellocchio. Quanto s’impara da un regista così?

Tantissimo. Fui felicissimo quando Marco Bellocchio mi chiamò, ero al settimo cielo. Era un autore che avevo sempre ammirato. Mi propose una sfida difficile come direttore della fotografia di Vincere. Una collaborazione che lasciò molto soddisfatto anche lui, tanto che mi confermò per i film successivi. Una collaborazione che non è finita, c’è un grandissimo rapporto di stima e amicizia tra noi due, anche se lui vorrebbe che mi concentrassi di più a fare i miei film. Il suo parere conta sempre molto, che faccia un mio film o di altri, per me è un punto di riferimento. Nel tempo ho stretto anche altre collaborazioni, rapporti importanti e pieni di soddisfazioni con Roberta Torre, Claudio Giovannesi e altri. Passo da un regista all’altro in maniera serena, mi piace fare esperienze diverse, conoscere altri mondi narrativi e modi di raccontare storie attraverso il cinema. Mi muovo senza problemi dalla commedia al dramma, attraversando generi diversi. E poi mi dedico anche al teatro, come regista o disegnatore delle luci. La mia è una passione che si completa affrontando i più diversi campi della rappresentazione artistica.

Quanto è stimolante, invece, lavorare con giovani registi e crescere con loro?

Per me è importante, quando si avvia un rapporto lavorativo, artistico, che ci sia un feeling. Ed è meraviglioso veder crescere un giovane regista, anche indipendentemente dall’approccio che volevi dare tu. Poi magari si fanno i film per i fatti loro, ma è giusto e va bene così, ne sono felice. Però è importante per loro avere una guida, che funziona quando si crea una sintonia, una magia che nasce quando l’incontro si fonda su una comune passione, sia da parte del più giovane che da parte del “maestro”, anche se io non voglio mai essere chiamato così. E poi, devo dirti la verità, a me una collaborazione con un giovane regista stimola, mi fa continuare ad amare questo mestiere, rinfocola la mia passione per quest’arte e mi dà continuamente la possibilità di rimettermi in gioco, di rinnovarmi. Poi può anche capitare di rimanere delusi, ma mi è successo raramente, perché scelgo sempre con grande cura le persone con cui lavorare. Quando accade, però, quella persona non la voglio vedere più, non ci voglio più collaborare, è come se mi avesse dato un autentico dolore.

Quali sono i film a cui hai lavorato a cui sei più legato?

Ai miei in maniera particolare. Tutti quelli che ho fatto con Franco Maresco, perché è stato il primo percorso, il più lungo e duraturo, all’interno di questo mestiere. Da Cinico Tv ai film è stato un  lavoro di libertà, abbiamo fatto quello che volevamo, indipendenti poiché ci autoproducevamo. E poi tanti altri film anche non miei, prima parlavamo di Vincere, per esempio. Tutti i film con Marco Bellocchio sono nel mio mondo, una cosa bellissima e, devo dirti, aggiungo anche tutti quelli con Roberta Torre, una regista che mi ha dato la possibilità, allora, quando ero a Palermo, di sperimentare. Abbiamo fatto Tano da morire, Sud Side Stori, Angela, Mare nero. Film che mi hanno dato la possibilità di dare un’immagine più moderna al mio universo visivo e, quindi, prepararmi anche ad altro. Ho fatto tutti i generi cinematografici possibili con Roberta Torre e di questo devo ringraziarla, della possibilità che mi ha dato di esplorare.

........... dall'articolo di  Davide Magnisi per taxidrivers.it

 

Intervista a Ingmar Bergman

In rarissime occasioni Ingmar Bergman si è lasciato intervistare: la sua autobiografia “Lanterna magica” lascia propendere per un desiderio di solitudine piuttosto che un difetto di comunicazione. Riportiamo le più significative dichiarazioni rilasciate nelle poche interviste concesse.

Cosa significa essere un regista cinematografico? Un regista cinematografico è una persona che ha il tempo di pensare solo ai suoi problemi. Non è una definizione mia, ma sembra piuttosto esatta. Parlando di ciò di cui consiste si può dire che sia la trasformazione di idee, sogni o speranze in immagini che trasmettano efficacemente agli spettatori queste visioni, questi sentimenti. Questo viene prima del prodotto finale, quale che sia, merce od opera d'arte.

Cos'è la luce? La luce è il mio sguardo, i miei ricordi.

La luce ha un ruolo da protagonista nei suoi film. Stendere la luce su un volto umano è un infinito mistero espressivo, un piacere, una preghiera. Prima di girare Luci d'inverno sono restato dall'alba al tramonto con Sven Nykvist a fotografare i passaggi della luce e a discuterne, a cercare di comprendere come trasformare quella luce in un film. In Sven ho trovato un fratello, qualcuno innamorato della luce come lo sono io.

Qual è l'impostazione del montaggio? Il montaggio nasce prima di iniziare a girare: il ritmo che avrà un mio film viene deciso con la sceneggiatura, quando poi uso la cinepresa non v'è alcuna improvvisazione. Il cinema è illusione, e per funzionare ritengo che tutto debba essere progettato fin nei minimi dettagli.

Come funziona quest'illusione? Bisogna far differenza tra illusione e trucco: lo spettatore ha coscienza della finzione, quando va a vedere un film mette da parte l'intelletto per fare spazio all'illusione.

Qual è il suo rapporto col pubblico? Vi sono due lati di questo rapporto che devono sempre esser tenuti presenti: da una parte ci sono io, che mi impongo sempre di agire in armonia con la mia coscienza -intendo quella artistica-; dall'altra c'è il pubblico, che venendo a vedere un mio film ha il diritto di pretendere di trovarvi delle emozioni, ed io ho il dovere di dargliele.

Parliamo di cinema in relazione alla televisione ed al teatro. Sono sempre rimasto affascinato dalla televisione: ha un'eccezionale possibilità di comunicazione e di penetrazione, un'immediatezza, un potere di trasmissione, un livello drammatico che nessun film è in grado di far proprio; il cinema non può stimolare l'immaginazione quanto la televisione. Inoltre, avendo lavorato molto per la televisione, ho constatato che tutto ciò che ho realizzato per il piccolo schermo è puntualmente stato accolto anche dal grande. Per quanto riguarda il teatro v'è una differenza sostanziale nel modo di lavorare: durante le prove si ha il tempo per sviluppare un rapporto di intimità con gli attori, cosa che nel cinema, sul set, non è possibile.

Quali messaggi possono giungere attraverso il cinema o il teatro? Non c'è modo di cambiare il mondo, né io ho questa voglia: quello che faccio, come chiunque, lo faccio prima di tutto per me stesso. Ma da questo lavoro, alla fine, la gente può ricevere un'emozione, uno shock; questo è importante, ed a questo mi limito.

Altri registi? Ammiro molto Fellini; per anni ci siamo scritti, e quando finalmente ci siamo conosciuti ho avuto l'impressione di incontrare un fratello, qualcuno che avesse, artisticamente, il mio stesso sangue.

Stoccolma, 20 luglio 2004: Ho deciso che è finita, ne ho abbastanza. Non avranno bisogno di condurmi fuori dal teatro, me ne vado da solo con le mie gambe. Nessuno dovrà poter dire: il vecchio deve sapere che è ora di smettere.

Dal www.cinemadelsilenzio.it

Intervista a Steven Soderbergh: reinventarsi, sempre

Quasi trent'anni dopo aver stravolto la scena indie, Soderbergh spiega perché l'evoluzione dell'arte cinematografica è solo una questione di esperienza.

Ci vuole coraggio per essere creativi, una lezione che Soderbergh ha imparato con il suo quarto lungometraggio da regista. Già incoronato star del cinema indipendente, nel 1995 aveva accettato di dirigere Torbide ossessioni per la Universal e si era ritrovato intrappolato in un progetto che non gli interessava, ma che non poteva neppure abbandonare.

Soderbergh ammette che il processo creativo di questo thriller-noir – basato sul romanzo Criss-Cross di Don Tracy e remake dell'adattamento cinematografico del 1949 – lo ha costretto a interrogarsi sulla sua identità di regista. Oggi si scusa apertamente con la Universal per aver bruciato 6,5 milioni di dollari in un progetto che non è riuscito a rientrare neppure del 10% con le vendite al botteghino, ma è convinto che l'investimento non sia andato perduto. "Ne è valsa la pena perché mi ha fatto capire che non volevo mai più entrare in quello spazio creativo."

In realtà, Torbide ossessioni non è scadente in termini di trama e produzione, ma nel complesso è un'opera piatta, esile, deludente, e questo Soderbergh non riesce a perdonarselo.

"Non mi sono mai più sentito così nei confronti di un film e ho avuto bisogno di attraversare l'orrore giornaliero di girarlo per imparare una lezione preziosa sulla creatività e l'autoconservazione."

E infatti il regista, nato ad Atlanta 55 anni fa, è convinto che l'evoluzione creativa sia possibile soltanto attraverso i fallimenti artistici. Gli piace ricordare quel film come il momento in cui ha finito per allontanarsi troppo dalla propria identità personale e artistica; come se, accecato dalle luci di Los Angeles, non riuscisse più a vedere quella bellezza e quei principi che lo avevano spinto ad avvicinarsi al cinema. 

"Non dico di essermi "venduto", ma quel tipo d'arte non mi dava soddisfazioni e penso non fosse neppure meritevole d'attenzione. Più o meno a metà riprese avevo cominciato a odiare il film, con tutto me stesso; e non vedevo l'ora di finirlo."

Prima della caduta, la sua era tra le stelle più luminose di Hollywood. A 26 anni, Soderbergh era diventato il più giovane regista a ricevere la Palma d'oro a Cannes per il graffiante debutto Sesso, bugie e videotape. Soprannominato "l'icona della generazione Sundance", guidava una nuova stagione del cinema, fatta di cultura, emozioni, arte, di nuove idee rappresentative della ribellione sociale post anni Ottanta.

"Per essere etichettati come pensatori all'interno dell'industria cinematografica – o all'interno di qualunque altra industria – bisogna essere abbastanza coraggiosi da considerare la propria arte al di sopra del giudizio dei critici o persino del pubblico," spiega. "Bisogna essere così coraggiosi da seguire le proprie convinzioni, anche quando le persone che ti circondano fanno fatica a capirti perché, in fin dei conti, tu sai qual è il tuo obiettivo."

"Sono tanti gli esempi," continua. "Esistono film che influenzano moltissimi registi, ma che non hanno avuto alcun successo al momento della loro uscita. Io cito spesso Operazione diabolica di John Frankenheimer. Datato 1966 e detestato da tutti in quegli anni, nessuno riusciva a capirne il senso o la rilevanza. Eppure, oggi è uno dei film più dibattuti tra gli addetti ai lavori e tutti lo considerano una vera ispirazione." 

E poi c'è Perché un assassino, un importante thriller paranoico degli anni Settanta [diretto da Alan J Pakula]. Flop al botteghino, non troppo amato dalla critica al momento dell'uscita e invece oggi imitato da tutti i registi che conosco, di continuo.

"Per questo è interessante ricordare e rispettare ciò che ci influenza, nella vita in generale, perché non si tratta sempre di successi. E meno male."

Intervista a Steven Soderbergh: reinventarsi, sempre 02

Forse vale la pena sottolineare che Schizopolis, una specie di film-catarsi per Soderbergh seguito allo sfortunato Torbide ossessioni, ha ricevuto diverse critiche per la sequenza di scene, personaggi (due interpretati dallo stesso Soderbergh) e dialoghi inquietanti, confusi e incomprensibili. Ma per l'autore del progetto, Schizopolis ha rappresentato la forma più pura di terapia: gli ha permesso di liberarsi dal torpore, cristallizzare un processo e una direzione futura, riappropriarsi di quell'arte che aveva sempre voluto perfezionare, sin da bambino.

Oggi sono passati vent'anni. La sua opera divide ancora i critici, ma di certo Soderbergh rimane un innovatore del cinema. Con ogni film – nel 2019 sono previste tre novità, High Flying Bird, a tema sportivo, The Torture Report, una storia sulla CIA, e la produzione Netflix The Laundromat – il regista continua a distinguersi per eleganza, intensità e audacia nella caratterizzazione dei personaggi.

"Faccio un esempio: di solito i film si concentrano sulla storia di due amanti, che magari si ritrovano in un hotel," racconta. "Per me non è quello il mistero. Io penso: "Va bene, ma le persone che devono rifare i letti e cambiare gli asciugamani... chi sono, qual è la loro storia? E che cosa vedono loro? È questo che conta per me."

La passione di Soderbergh per gli elementi più nascosti emerge in tutti i suoi film, qualunque sia il suo ruolo (spesso più di uno nello stesso progetto): regista (per esempio nel provocante Ocean's Twelve, in Che o nell'eccezionale L'inglese), autore (Solaris, Eros, Criminal), direttore della fotografia (Effetti collaterali, Contagion), montatore (Knockout - Resa dei conti e nell'attesissimo La truffa dei Logan) oppure produttore (35 film a oggi). Soderbergh è un perfezionista e ha fame di stimoli, che arrivino dal cinema o dalla tv, poco importa. Il suo ultimo progetto, Mosaic, serie per HBO con Sharon Stone, è nato innanzitutto come app, una trovata rivoluzionaria. Lo spettatore può infatti seguire la storia da prospettive diverse, e mettersi nei panni dell'investigatore per trovare l'assassino. 

Se da un lato Sharon Stone e il cast lavoravano con un copione di 500 pagine e ricevevano la parte soltanto la sera prima delle riprese, la serie è riuscita a rispecchiare la passione di Soderbergh per l'innovazione con un occhio alla tecnologia, e non solo al copione.

"Viviamo in un'epoca di esperienze e coinvolgimento e mi sembra diabolico pensare che i film debbano continuare a seguire una sola direzione," sostiene. "Non riesco a immaginare un futuro in cui non siamo coinvolti in ogni elemento del film e in cui la tecnologia non assuma un ruolo da protagonista, migliorando la nostra comprensione e fruizione dell'arte stessa. Dobbiamo cercare nuovi mezzi per avvicinare l'estetica del cinema allo spettatore, perché così, grazie a questa specie di natura voyeurìstica – quest'idea che stiamo guardando qualcosa che non dovremmo vedere, a volte senza saperlo a livello conscio – riusciamo a sviluppare un'intimità che aiuta moltissimo."

Quest'anno Soderbergh ha raggiunto un'altra tappa importantissima nella sua personale evoluzione. Unsane, interamente girato con un iPhone 7s, e anche per questo costato soltanto 1,5 milioni di dollari. "È stata una scelta creativa, certo," conferma il regista. "Non era una questione di budget perché avrei potuto usare qualunque altra strumentazione. Ma a questo film serviva quella capacità di poter girare in ogni luogo e in ogni momento, in pochi secondi. 

"Unsane aveva bisogno di quella fisicità che solo uno strumento così maneggevole può offrire. Per questo mi è sembrata una scelta creativa legittima. Oggi guardo il film e penso che avevo ragione, non sarebbe stato così efficace se l'avessi girato in maniera tradizionale. Ma tutto porta con sé sfide e ostacoli. Non c'è mai una soluzione giusta senza conseguenze. Il nostro problema principale era legato alla leggerezza del telefono e alla sua sensibilità alle vibrazioni. Abbiamo anche scoperto che nessuno ha ancora inventato super teleobiettivi per queste videocamere. Per usare un obiettivo 300 mm ho dovuto tirar fuori una DSLR [videocamera] e girare con quella. 

Ma a parte questo, e ricordarsi di tirare fuori le SIM card nel mezzo di una scena, non è andata male!"

Soderbergh è capace di reinventare se stesso e il modo in cui fa cinema, e per questo i suoi film meritano così tanta attenzione, a prescindere dalla capacità del pubblico di apprezzarli o capirli. Viviamo un periodo di appiattimento cinematografico, dove non sono solo gli attori a interpretare ruoli sempre uguali, ma autori e produttori.

"Io spero solo che le ore passate sul set mi abbiano aiutato a migliorare il mio processo decisionale e la mia capacità di filtrare. È tutto un processo. Ho fatto progressi e così i miei film; e non so dove andranno a finire... ma non rimarranno sempre uguali, questo è sicuro."

A proposito della dicotomia tra serie tv e cinema, Soderbergh rimanda all'esperienza dello spettatore. "Nell'ultimo periodo ho notato una tendenza a dividere tutto in categorie – prodotto creato per Netflix, per il cinema o altro. È chiaro che le differenze ci sono, ma per un produttore l'idea è la stessa. Io voglio offrire un'esperienza allo spettatore e dargli la possibilità di imparare qualcosa da quello che vede. E lo stesso vale per i personaggi, a me non importa se sono creati per il grande o il piccolo schermo, voglio semplicemente permettere loro di esprimersi al meglio."

L'ultima passione di Soderbergh? Gli elementi di base, come la luce. "In fondo è un mezzo poco costoso per creare un effetto per il pubblico. Anche se mi concentro sulla luce, quando mi sposto da uno spazio fisico a un altro faccio attenzione alla sensazione che provo in base a tipo, posizione, colore e intensità della fonte luminosa. Il cinema cerca di trasportare il pubblico in un universo inesistente, ma per crearlo servono solo fantasia ed esperienza; e anche volontà di sbagliare durante il percorso verso il proprio obiettivo."

Forte di questa filosofia, Soderbergh continua a rappresentare gli innovatori della creatività indipendente. Finché Soderbergh continuerà a trasformare con eleganza l'esperienza visiva e quello che rappresenta, siamo certi che l'integrità artistica dell'industria cinematografica è in buone mani.

dal sito https://www.pirelli.com del 22/02/2019

Intervista al regista Alessio Maria Federici

Classe ’76 romano nel cuore, Alessio Maria Federici, ha più di 16 anni di carriera come regista. Si considera uno shooter più che un regista ma i suoi film, che spaziano dalla commedia esilarante a quella romantica, hanno conquistato il pubblico italiano da anni. Ha lavorato con i più importanti volti della recitazione e della comicità nostrana, impossibile non aver visto almeno uno dei suoi film, ma soprattutto ha portato sul grande schermo la voglia di leggerezza e di sorridere. Una leggerezza che non fa rima con superficialità, anzi tutto il contrario, ma con voglia di strappare un sorriso, talvolta amaro o ironico, al suo pubblico. Lo abbiamo intervistato in seguito all’uscita del suo film” 4 metà”, con Ilenia Pastorelli, Matilde Gioli, Giuseppe Maggio e Matteo Martari, disponibile su Netflix e già in classifica tra i top 10 film più visti della piattaforma. E non solo in Italia. Due storie d’amore piene, che si incontrano si scontrano, sovrapponendosi tra le difficoltà e le gioie del caso. Un racconto che fa emozionare e riflettere sull’esistenza del fato e sull’idea che davvero possa esistere un’anima gemella per ognuno di noi. Tra le scene più coinvolgenti della pellicola, un tipico Jewish wedding, con musiche e balli tradizionali, funge da scenario perfetto per il primo appuntamento di due dei protagonisti.

Lei è un regista prevalentemente di commedie, spesso romantiche. Perchè?

 Partiamo dal presupposto che io non mi sento un regista, bensì uno shooter, le cose che vedo o i libri che leggo prima di andare a dormire sono le immagini e le istruzioni per la macchina da presa dei miei film. Il mio sogno è girare “uno di tutto” dal giallo alla commedia, qualsiasi genere. E infatti ho molti progetti in cantiere. È pur vero però che con la commedia mi ritrovo di più rispetto ad altri generi. Sembra semplice ma in realtà anche sorridere ed emozionare è difficile, è tutta questione di equilibrio. Forse perché sono stato, come tutti del resto, parecchio chiuso dentro casa ma ho capito forse per la prima volta che potevo raccontare delle storie reali, umane. La difficoltà maggiore è stata l’aver dovuto costruire e preparare otto personaggi, e non quattro personaggi, proprio perché queste storie d’amore si sovrappongono in un certo senso.

In una delle prime scene del suo film due dei protagonisti si ritrovano ad un matrimonio ebraico, come mai questa scelta?

Fondamentalmente avevo bisogno di una festa in cui c’erano balli e si creavano situazioni nel quale uomini e donne fossero divisi. Mi piacevano i balli tipici dei matrimoni ebraici, se avessi scelto un altro tipo di matrimonio non sarebbe uscita una scena così “partecipata”, sarebbe stato il solito evento un po' statico con la gente a sedere. Ho molti amici di religione ebraica e io stesso ho partecipato a molti eventi come matrimoni o Bar Mitzvà; dunque, oltre che una bella atmosfera mi è sembrato qualcosa di davvero funzionale per la scena. Rendeva l’incontro tra i due personaggi molto più magico per la narrazione.

Nel suo film “4 metà” tra i protagonisti della storia c’è anche una grande protagonista: Roma. Con i suoi luoghi simbolici, è un caso o aveva studiato una narrazione del genere?

Alcuni luoghi di Roma hanno il potere di diventare simboli, quasi involontariamente. Essendo romano mi viene quasi normale immortalare i luoghi che vivo e vedo da tutta la vita. Il movimento del fiume, che accompagna alcune scene del film, è un po' lo stesso movimento che ho visto tutta la vita, e che vedo ogni mattina quando accompagno i miei figli a scuola.  Il film in questione è stato infatti girato con una tecnica particolare, un nuovo mezzo: “Trinity”, una sorta di macchina da presa attaccata ad un bastone che segue proprio i protagonisti, permettendo inquadrature e movimenti perfetti, questo ha fatto sì che sia data una certa struttura ai personaggi e ai luoghi, senza allontanarsi mai dalla narrazione. Il film è stato inoltre girato durante il Lockdown quindi anche la città si è prestata molto.

La comicità è l’ingrediente principale dei suoi film. Ha mai preso ispirazione dalla comicità ebraica nota per essere molto autoironica?

Più che la comicità qualcosa da cui ho preso ispirazione è sicuramente la serialità israeliana. Credo che serie come Fauda possano essere considerate tra le più belle di Netflix. Doron, il protagonista, è un personaggio di casa per me. Ho preso davvero molte tecnicità dal loro modo di fare serie. Non solo il livello tecnico della serialità ma il modo in cui i produttori sono riusciti a far crescere il prodotto stagione dopo stagione credo sia qualcosa di straordinario. La grande qualità è stata proprio quella di mandare avanti il racconto senza annoiare. C’è veramente una notevole dinamica narrativa. In generale credo che tutti i comici abbiano molto “rubato” qualcosa dalla comicità ebraica, e più in particolare quella del ghetto, sagace ma simpatica, in grado però di far riflettere. Pensiamo a Verdone, ad esempio, cresciuto proprio in quelle zone di Roma. Ritornando alle serie israeliane credo che in questo senso rappresentino un prodotto davvero notevole e in crescita. Mia moglie spesso le guarda in lingua originale, e per me quella litania è qualcosa di davvero speciale che mi rievoca ricordi d’infanzia. Ho ricevuto un’educazione religiosa e mi ricordo che quando ero più piccolo mia madre mi aveva fatto fare un corso di ebraico, proprio nell’edificio della sinagoga di Roma, non ricordo moltissimo ma quella lingua, quando l’ascolto è ancora molto evocativa.

La pandemia ha cambiato molte cose, e purtroppo per molto tempo i cinema sono stati chiusi, in questo modo si sono usate molto di più le piattaforme streaming come Netflix o Prime Video. Pensa che a lungo raggio questo possa cambiare il rapporto con il cinema?

Per molto tempo il cinema è stato chiuso, e successivamente era rischioso andarci. Così abbiamo passato molto più tempo a casa utilizzando molto di più le piattaforme streaming. Penso in realtà che bisogna rimanere equilibrati. Il mio film doveva inizialmente uscire al cinema, ma Netflix ha permesso al prodotto una maggiore visibilità, in questa maniera la pellicola è arrivata in 50 paesi, con più di 16 milioni di visualizzazioni. Senza contare dalle prime settimane della sua uscita è stato secondo in classifica dei film più visti di Netflix, il tutto accanto a prodotti cinematografici che costavano milioni. Il film è esploso proprio grazie alla piattaforma. Tuttavia, penso che la magia della sala sia unica, la situazione che si crea guardando un film al cinema è qualcosa di speciale. La situazione cinema è preoccupante si, ma non bisogna demonizzare la piattaforma. Il pubblico è cambiato, ma dobbiamo pensare che oggi possiamo finalmente raccontare le nostre storie e non più quelle degli altri, perché qualcuno dall’altra parte del mondo potrà vederle.

Intervista di MICHELLE ZARFATI  per shalom.it

 

Intervista a Saverio Costanzo

Costanzo è senza dubbio uno dei registi “giovani” (lo è davvero, avendo superato da poco la soglia dei 30) più interessanti del nostro cinema. Ha al suo attivo le sceneggiature di spot sociali e cortometraggi e la regia di alcuni documentari come “Caffè Mille Luci”, “Brooklyn”, “New York” dove si descrive la comunità italo-americana partendo dai clienti di un piccolo bar e “Sala Rossa” (2001), una docu-fiction in 6 episodi sulle lotte e le tragedie vissute in un pronto soccorso ospedaliero, presentato con successo al Torino Film Festival. Il passaggio al lungometraggio è felice e viene subito notato anche in ambito internazionale: i suoi due lavori vengono proiettati al Festival di Locarno e al Festival di Berlino.
Per la felicità di voi lettori e per testimoniare l’esperienza artistica di un uomo di cinema, lo scrivano si defila e, grazie alla disponibilità di Saverio, cede spazio alle sue parole.

I tuoi due lungometraggi analizzano le dinamiche personali tra uomini costretti all’interno di quattro mura. Un caso o una dimensione narrativa che senti familiare?
Non parlerei di caso ma piuttosto di un meccanismo (che ho già utilizzato anche nei miei lavori documentari) che mi permette di trattare il tema della libertà umana con le sue costrizioni e aspirazioni che tutti noi sentiamo.

Tu dimostri nel film In memoria di me un indiscutibile talento visivo, capace di creare immagini davvero coinvolgenti. La stessa storia si configura come un thriller metafisico girato in un convento. Quali i tuoi riferimenti figurativi?
Per alcune scene mi sono rifatto al ricordo di maestri di un cinema che ben raffigura le inquietudini umane, come il Kubrick di “Shining” e “Full Metal Racket” o gli ultimi lavori di David Lynch. Per una sequenza particolare (una camminata dei novizi visti frontalmente in un’atmosfera chiaroscurata), ho attualizzato una scena vista in “Platoon” di Oliver Stone (in quel caso si era trattato di marines al ritorno da una battaglia in Vietnam).
Effettivamente ho voluto usare gli stilemi del genere thriller per avvicinare lo spettatore a temi ben più alti, quali quelli che coinvolgono i novizi. L’operazione è stata anche molto rischiosa: sarebbe stato più facile compromettersi con un thriller a discapito dell’intima natura del film, che è ben altro che un film orrorifico. Sono davvero felice perché molti spettatori mi dicono che alcune scene restano impresse e ritornano alla memoria dopo giorni dalla visione del film. Uno dei problemi che vedo nell’attuale cinema italiano è riuscire a trovare fette di pubblico attento all’interno di un mercato cinematografico che brucia i prodotti in un tempo brevissimo.

Il film ha avuto recensioni davvero entusiaste (La Repubblica e Il Sole 24 ore in primis) mentre l’Osservatore Romano è stato critico. Inevitabile la domanda sul tuo pensiero nei confronti della spiritualità e sulla Chiesa cattolica come istituzione.
Attualmente la Chiesa mi appare come il convento del film (sull’isola di San Giorgio a Venezia): un’isola perduta nel mare. I novizi vedono il mondo intorno a loro (le navi che passano sui canali e i fuochi artificiali sparati dalla terraferma) ma non interagiscono mai con esso. La stessa scelta di far parlare alcuni attori in un italiano dall’intonazione straniera è stato un mezzo per accentuare ancor di più la distanza tra i novizi e la società che li circonda. Io sono davvero pessimista. Da non credente quale sono, penso che la Chiesa non avvicini l’uomo moderno alla sua dimensione spirituale, ma lo spinga ad avvicinarsi a spiritualità diverse come quelle orientali.

 Intervista di Davide Bracco per sermig.org

Intervista a Ugo Fangareggi: una faccia da cinema

Ugo Fangareggi attoreHa lavorato con Scola e Fellini, con Vittorio Gassman, Dario Argento e Mario Monicelli. Ma ha fatto anche film con Franco e Ciccio, un Pierino, una Pierina e Attenti a quei P2!. Ugo Fangareggi è uno dei grandi caratteristi del cinema italiano, un volto inconfondibile che passa attraverso cento film e oltre mezzo secolo di set. E’ il soldato Mangoldo che nell’Armata Brancaleone sta al fianco di Gassman dall’inizio alla fine, è Agonia di Operazione San Gennaro, è il mitico Gigi Scalogna che nel Gatto a nove code vince la gara di insulti, infilandoci dentro anche colorite espressioni genovesi. Ed è un attore di cinema e televisione che non ha mai voluto smettere di fare teatro: anche perché dal teatro era partito, e dalla porta principale.

“Eravamo nel 1961, e avevo letto che Squarzina cercava attori da inserire nei suoi spettacoli dello Stabile di Genova, perché in città non c’era una scuola e così dovevano andarli sempre a cercare a Milano o Roma. Io facevo l’attore dilettante con una compagnia serale di amici, avevamo cominciato facendo recite e mimi alle feste, avevamo anche fondato il club Oltre il ritmo al bar Cremonte di via Manuzio, a Genova. Ne aveva parlato Siliotti in un articolo sulla Gazzetta del lunedì. Sono andato al provino dello Stabile insieme all’amico Gianni Fenzi e ci hanno preso entrambi. Con Squarzina ho fatto Ciascuno a suo modo, l’abbiamo portato in tournée a Roma, Parigi… Dicevo poche battute, ma veder lavorare tutte le sere gente come Lionello o Turi Ferro vale più di qualsiasi scuola. Poi sono andato alla Compagnia dei Giovani, con De Lullo, Romolo Valli e Rossella Falk. Fu Nico Pepe a dirmi di mandare le mie foto alle case di produzione. E così è arrivata la chiamata dal cinema, e mi sono fermato a Roma, dove ero andato per le repliche di Ciascuno a suo modo”

Era il 1962…

“Carotenuto vide una mia foto e mi portò a Colpo grosso all’italiana di Lucio Fulci, un regista che poi mi ha chiamato spesso. Nella Parmigiana di Pietrangeli ho conosciuto Volonté, che inizialmente doveva interpretare la parte poi andata a Buzzanca. Ma il secondo film era Odio mortale, un film di pirati fatto dopo I moschettieri del mare: lo diresse Comencini, ma siccome era un film “di recupero” lo firmò il suo aiuto Montemurro. Però lo fece Comencini. E lì ho conosciuto tutto il mondo degli acrobati di cinema, una grande esperienza. L’ho rivisto di recente, non era affatto brutto come lo giudicavamo allora. Molti film di quegli anni sono da rivedere, li guardavamo un po’ troppo da intellettuali, oggi li vedo in modo diverso”.

Lavorò subito molto, e in film di primissimo piano…

“Per La congiuntura stavo andando a portare le foto alla produzione, quando Scola mi vide e mi prese subito. Ma non ho nemmeno lasciato ancora le foto… E lui: si va lunedì a girare a Rapallo! Ho fatto la scena in cui a Gassman viene rubata l’auto sul lungomare, e io lo mando dal boss: gli esterni sono liguri, ma gli interni sono stati poi fatti a Roma. E subito le cose si sono messe in moto. Scola mi ha presentato a Monicelli, ho fatto l’uno dopo l’altro L’Armata Brancaleone, Operazione San Gennaro di Risi, Non stuzzicate la zanzara della Wertmuller. Poi film con Fulci, Manfredi, Buzzanca, in Francia con Luis de Funès, ma anche Le avventure di Gérard di Skolimowski, dove ero con Carletto Delle Piane.

E Colpo rovente con Carmelo Bene, un cult.

“Avevo già conosciuto Bene anni prima, quando facevo La partita a scacchi alla Borsa d’Arlecchino di Genova, prima ancora di andare da Squarzina. Credo che avesse interpretato la nostra rappresentazione in termini d’avanguardia, mentre in realtà era tradizionalissima. Bene mi voleva per il suo Sade, ma ho dovuto dire di no perché mi impegnava troppo. Così come ho dovuto dire no a Dario Fo. Non potevo fare tutta la stagione con loro, questi mostri sacri ti impegnano per tutto l’anno e io volevo fare cose diverse. Mi annoia rifare tutte le sere le stesse cose, preferivo fare testi che stavano su 15 giorni, non mi impegnavano troppo a lungo ma al tempo stesso imparavo parecchio, più che stare un anno a far sempre la stessa cosa”.

Preferisce cambiare…

“Sì, come mi rompe l’eccesso di rigore, quei registi che fanno sempre provare e riprovare…”

Al teatro è sempre rimasto fedele, nonostante i cento film?
“Ho sempre fatto molto teatro. Con Giancarlo Sepe e Carletto Delle Piane avevamo fatto anche uno spettacolo sui fratelli Lumière, Lumière Cinématographique. Poi Delle Piane entrò in una delle sue crisi e ci piantò in asso poco prima dell’inizio. Sepe ebbe allora l’idea di partire dai funerali di uno dei due fratelli: restavo solo io, l’altro Lumière”

E Gigi Scalogna con Dario Argento, nel Gatto a nove code? Era già così?

“Dario veniva a vedere Lumière Cinématographique, mi parlava molto dei personaggi. Gigi Scalogna con la gara di insulti e l’accento genovese erano già nella sceneggiatura. Io ho recitato in inglese, poi l’ho rifatto in genovese, ma quando c’è stato da doppiare il film, la cooperativa dei doppiatori ha messo uno dei suoi. Succedeva spesso, è la casta dei doppiatori: dicevano che non trovavano l’attore, che era impegnato, ma era tutta una manfrina per metterci uno dei loro. Lì però mi sono veramente arrabbiato. In Bella, ricca, lieve difetto fisico, due anni dopo, invece sono riuscito a doppiarmi in genovese, facevo il carcerato”.

Con Gassman lavorò anche a teatro.

“Fu quando facevamo Brancaleone. Gassman interpretava a teatro i monologhi da Dostoevskij, Kafka, Beckett e Campton, mi ha chiamato per dodici giorni al teatro delle Muse e ho fatto questo spettacolo. Facevo dei numeri da mimo e recitavo il monologo sulla bomba atomica. Fu emozionante, bellissimo. Facevo anche un numero con le monetine: e una sera, quando caddero in platea, a raccoglierle fu Carmelo Bene, seduto in prima fila”

La componente mimica sembra importante nella sua recitazione…

“Sì, il mimo è sempre stato il mio forte. Quando ero con Gassman, un critico – Cibotto – scrisse che ero un mimo raro ed eccezionale. Anche in coppia con Carletto Delle Piane lavoravamo molto sull’aspetto del mimo”

In quegli anni fece anche 6 gendarmi in fuga, con Luis de Funès.

“Siamo andati a girarlo a Saint-Tropez, mi sono trovato benissimo. Il regista era Jean Girault, che mi ha poi chiamato anche altre volte”

Faceva l’hippie.

“Sì, io non ho mai fumato, ma lì fumavano tutti, con tutto quel “fumo” passivo uscivo di testa anch’io”

Ma si è trovato sempre bene dappertutto? Non c’è stata mai una lavorazione da incubo, un regista o un attore con cui si è trovato male?

“Mai trovato male con nessuno. Esasperato solo quando ci facevano fare troppe prove. Ad esempio a teatro, con Cobelli e altri. Una volta sono esploso: basta provare, mi sono rotto le balle! Secondo me, una volta che hai trovato la chiave non puoi continuare a provare. Ho una mia compagnia a Rieti, da qualche anno: una volta che fai due o tre prove poi basta, altrimenti diventa esasperante. Ma questo a teatro. Al cinema, mi sono sempre trovato bene, ho solo bei ricordi: con registi, attori, i direttori di fotografia li ho conosciuti veramente tutti”

Ha lavorato molto con Manfredi.

“Sì con Manfredi ho fatto otto o nove cose, ma ho fatto tanto anche con Franco e Ciccio”

Com’erano sul set?

“Uguali. Ciccio faceva un po’ l’intellettuale… Mi trovavo bene con loro”

E l’incontro con Fellini?

“Con Fellini è una storia lunga. Nel ’62 ero appena arrivato a Roma, mi trovavo al Valle con lo Stabile di Genova e cominciavo a distribuire fotografie alle case di produzione. Mi ero appena messo d’accordo con De Lullo e Valli per andare in tournée con loro, appuntamento il giorno dopo a Milano, quando alla sera torno a casa dalla vecchia zia a Montemario e lei mi dice: ha chiamato un certo Felliiini, che devi andare domani in via Tevere alle sei per un appuntamento con lui. Ma ormai mi ero impegnato ad andare a Milano, certo avrei potuto dire che ritardavo un giorno e andare da Fellini… Seppi poi che Fellini mi voleva portare con lui per un’intervista in televisione, perché gli interessava la mia faccia”

Ma vent’anni dopo c’è stato E la nave va…

“L’ho ancora rivisto per due o tre film, però non se n’è mai fatto nulla. Finché l’occasione buona è arrivata con E la nave va, dove faccio il capocameriere. Ma a quel punto avevo scoperto una cosa che prima ignoravo. Spesso il regista ti voleva per un piccolo ruolo, ma l’aiuto o gli altri della produzione volevano mettere altra gente e così gli dicevano non si trova, è impegnato, non risponde… ma volevano solo mettere i loro amici. Così Fellini quella volta mi chiamò direttamente, e anche Axel Corti si impuntò: mi voleva per La puttana del re, con Timothy Dalton e Valeria Golino, ma gli dicevano che non mi trovavano”

Ad inizio carriera fece anche un film che abbiamo riscoperto di recente, Al mare pago io, dove fa il finanziere in una scena alla frontiera svizzera, ma girata a San Rocco di Camogli.

“Durante la lavorazione il film s’intitolava Solo e c’era un produttore gentilissimo, Nunnari, veramente una brava persona. In Svizzera poi ero andato a girare alcuni Caroselli con Carlo Delle Piane, per i wafer Saiwa. Per la tv svizzera ho fatto anche il protagonista in Calandrino e l’elitropia, dal Boccaccio: la regia era di Grytzko Mascioni, un intellettuale che lavorò molto a teatro. Tra le parti che ho avuto come protagonista ricordo anche Sette monache a Kansas City, uno strano western parodistico, dove eravamo due ragazzi gay che andavano nel West per rimorchiare… Mi sono divertito un sacco!”.

Come vede adesso quel periodo d’oro anni ’60-’70 del cinema italiano, quando si facevano film di tutti i tipi e di tutti i generi? Adesso c’è la televisione…

Il cinema era molto più divertente. Con la tv si va di fretta, ma si lavora bene anche in televisione, e in fondo la gente ti vede anche di più. Certo al cinema c’è un bel ricordo, il rapporto con i registi, i tecnici, ma non ho rimpianto, la tv la faccio volentieri. Ho fatto di recente una puntata del maresciallo Rocca: Proietti lo conosco fin da quando faceva teatro sperimentale… Ora mi hanno chiamato per una puntata di Don Matteo. E il teatro non l’ho mai abbandonato. Uno degli spettacoli più intensi è stato Memorie di classe, dove facevo un vecchio che rievocava la tragedia del Vajont: era il maestro che non era riuscito ad andare alla partita di calcio della sua classe, e i ragazzini erano morti tutti, si era salvato solo lui. L’abbiamo fatto nel 1993, a trent’anni dalla tragedia, ebbero l’idea il figlio di un magistrato che s’era occupato dell’inchiesta e Maurizio Donadoni. Paolini ci aveva visto, poi mi ha chiamato quando ha fatto il monologo. Non andai, perché quello spettacolo mi aveva lasciato esausto, era troppo straziante, non ce la facevo più. Ho poi visto Paolini in tv, mi è piaciuto moltissimo”

Ma il ruolo della carriera cui tiene di più?

“Be’, in Brancaleone: è da lì che poi mi hanno sempre chiamato. A volte mi chiamano per pochi giorni, a volte per qualche settimana, a volte più a lungo. Ma prima portavo le foto, poi da Brancaleone in poi mi chiamavano loro. E così non ho mai dovuto fare nessuna telefonata…”.


Intervista di  Renato Venturelli  per filmdoc.it

Intervista con IAN BARLING regista del Cortometraggio "SAFE"

Qual è stato il tuo percorso artistico?

Come molte delle mie principali scelte di vita, la mia decisione di dedicarmi al cinema è stata influenzata dall’amore per una donna. Sebbene abbia suonato in vari gruppi punk rock durante la mia giovinezza, non ho mai preso in considerazione una carriera artistica fino ai miei 20 anni, quando ho incontrato e mi sono innamorato di una scrittrice. Ammiravo il modo in cui guardava gli oggetti, osservava le persone, raccontava storie, e questa ammirazione mi ha spinto a decidere di iniziare a studiare cinema. Dopo la laurea in analisi e filosofia del cinema, avevo intenzione di diventare professore di cinema. Tuttavia, ho presto sviluppato l’urgenza di creare immagini piuttosto che scrivere sulle creazioni degli altri. Quindi, mi sono trasferito a Los Angeles e ho iniziato a perseguire una carriera nel cinema. Quella ricerca è durata diversi anni fino a quando ho sviluppato un altro bisogno di concepire l’opera stessa. Ho girato il mio primo cortometraggio e l’ho usato per fare domanda alla scuola di cinema di specializzazione, così mi sono iscritto al programma di cinema della New York University, dove ho realizzato diversi cortometraggi e ho iniziato a plasmare i miei gusti e la mia sensibilità cinematografica.

Parliamo del tuo progetto in concorso al Laceno d’Oro, qual è stata la scintilla? Come è cominciato questo lavoro?

Safe nasce dal desiderio di raccontare una storia che riguarda la mia città natale e le persone che la compongono. Ero anche interessato ad esplorare una relazione padre/figlio come una sorta di re-imaging o ipotetica esplorazione della connessione fratturata che ho con mio padre in gran parte assente. La sceneggiatura originale era molto diversa da quella che alla fine abbiamo girato. Non è stata definita fino a quando non mi sono imbattuto nel casinò defunto e completamente sventrato mostrato nel film, così ho deciso di riscrivere la sceneggiatura per sfruttare quello spazio impressionante e inquietante.

Finalmente il cinema e i festival stanno tornando nelle sale. Pensi che dopo questi due anni il cinema, dalla produzione alla distribuzione e alla fruizione, sia inesorabilmente cambiato?

È una domanda molto complicata a cui cercare di rispondere. E suppongo che dipenda da cosa si intende per “cambiamento”. Quello che ho notato è che molte persone hanno un forte entusiasmo per il ritorno al cinema, il che è incoraggiante. Perché, secondo la mia opinione (non così controversa), i film tendono a colpirci in modo più potente, a toccarci più profondamente, quando vengono visti nelle sale. Forse è semplicemente la dimensione dello schermo, la qualità dell’audio, la comunità. O forse è qualcos’altro. D’altra parte, i film sembrano essere sempre più progettati per l’esperienza di visione domestica. E mentre i registi di diversa estrazione hanno più opportunità che mai di raccontare storie particolari, non posso fare a meno di notare una tendenza all’uniformità estetica e narrativa che credo sia almeno in parte dettata dalla struttura economica dei servizi di streaming. Si spera che, nel tempo, gli spettatori possano dimostrare alle piattaforme streaming di avere un appetito per film tanto formalmente e strutturalmente audaci quanto le storie stesse sono specifiche e diverse.

Articolo da lacenodoro.it

Intervista a Federico Del Buono, regista del cortometraggio "Il Muro tra di noi"

Il giovane regista Federico Del Buono ha realizzato Il Muro tra di Noi, un cortometraggio emozionante e sincero sul rapporto padre-figlio interpretato dai bravissimi Ivano Marescotti e Stefano Pesce. Alla morte della moglie, Pietro, 70 anni, ha messo tra sé e il resto del mondo un muro fatto di silenzi, a partire dai figli Alex e Monica, già grandi. Dopo il tentativo di Cesare, dottore di famiglia, di rinchiudere Pietro in una casa di riposo da lui gestita, Monica abbandona la casa paterna, lasciando Alex solo con il padre dopo moltissimo tempo. In aggiunta, Silvia, l’ex-moglie di Alex, gli impedisce di vedere la figlia Aurora. Un limbo: Alex non può essere vicino a sua figlia e al tempo stesso non può abbandonare il padre, che rivolge la parola solo ad un fiore in giardino. Dopo una furiosa litigata con il padre, Alex raggiunge il punto di rottura e distrugge brutalmente il fiore. Ma questa rottura ha messo a nudo una verità che nessuno dei due voleva o riusciva a vedere: Alex sta iniziando ad essere sempre più simile a Pietro, e se vuole salvare il suo rapporto con Aurora deve riuscire a comprendere ciò che sta succedendo e riprendersi la sua vita.

Abbiamo avuto il piacere di incontrare il regista che ci ha parlato di questo suo interessante progetto che, sicuramente, segna solo l’inizio di una carriera di successo dietro la macchina da presa.

Come è nata l’idea di questo cortometraggio?

Il muro tra di noi è nato durante la preparazione di Conquista il Mondo da un’idea dell’altro sceneggiatore Filippo Marchi. All’epoca ero concentrato solo sull’altro cortometraggio quindi non gli diedi troppo peso, ma finite le riprese iniziai subito a pensare al progetto successivo. Mi ritrovai per caso tra le mani questo vecchio copione e mi convinsi che fosse la storia giusta da raccontare per poter alzare l’asticella. Sapevo che andavo incontro ad un rischio nel raccontare una storia sicuramente già vista, quindi ho cercato di strutturare il tutto sotto una luce diversa, attraversi un approccio più intimo, diretto e giocando con gli sguardi e i silenzi dei personaggi immersi in una bolla unica come l’Appennino bolognese.

Come ha coinvolto i due protagonisti Pesce e Marescotti?

Se questo corto ha visto la luce, molto del merito va a Giorgio Ciani. Non solo è stato un grande produttore, ma soprattutto un mentore paziente. Quando gli proposi il progetto mi resi conto di essermi ritrovato davanti un altro folle sognatore come me, perché entrambi eravamo convinti che per fare grande questa storia servivano degli attori di spessore, ma l’idea che davvero ci stuzzicò più di altre era quella di coinvolgere grandi nomi del nostro territorio. La cosa buffa è che ci riuscimmo per davvero! Marescotti era “la scelta”, non pensammo minimamente ad un’alternativa perché sapevamo che solo lui avrebbe potuto interpretare al meglio il ruolo di Pietro. Con Stefano invece è nata una bellissima alchimia perché sposò immediatamente il progetto con grandissimo entusiasmo. Lavorare con loro mi ha mostrato varie sfumature di attori di grande calibro come loro con esperienza: la saggezza di Marescotti contrapposta alla praticità ed entusiasmo di Pesce mi ha permesso di lavorare con un materiale umano e artistico di grandissimo spessore.

Al centro del corto c’è un rapporto conflittuale padre/figlio. Come lo descriverebbe?

Come detto prima ero conscio di lavorare ad una storia (o meglio un argomento) già visto e rivisto, ma essendo un tema molto delicato credo che faccia bene parlarne il più possibile. Fortunatamente non ho potuto attingere a esperienze personali, avendo un rapporto straordinario con mio padre e mia madre, e questo si è rivelata una sfida ancora più affascinante. Ho cercato di concentrarmi sui dettagli per raccontare questa storia, che poi sono quelli a determinare a mio avviso le rotture o i riavvicinamenti all’interno dei rapporti umani, rendendo questa storia il più umile possibile; mostrando un uomo anziano fragile costretto a piegarsi sulle ginocchia per parlare con il ricordo terreno della moglie o di un uomo capace di urlare al telefono all’ex moglie ma non di correre per salvare il suo rapporto con sua figlia. Ecco perché ho scelto un fiore e un fischietto come i veri protagonisti del film, perché sono elementi semplici ma che possono avere infinite spiegazioni.

Ha modelli di riferimento o fonti di ispirazione come regista?

Per me è una fonte di ispirazione chiunque mette coraggio e passione in ciò che fa e in ciò in cui crede. Non mi limito ad “osservare” e studiare i grandi registi, perché anche un attore può ispirarti, così come uno scenografo, una truccatrice o un assistente di produzione. Ovviamente per poter migliorare uno deve anche saper “rubare” il lavoro ai propri colleghi apprendendo da chi ne sa sicuramente di più e non è necessario, a mio avviso, dover fare molta strada per trovarne. Guadagnino, Zanasi, Garrone, Sorrentino o Muccino. La lista dei grandi registi italiani è lunga, senza contare i grandi nomi del passato chiaramente.

Quale futuro sogna per questo cortometraggio?

Ovviamente esistono due futuri sognabili quando si realizza un film o un corto: presentarlo al pubblico nei cinema e presentarlo a festival in tutto il mondo. Sono due facce della stessa medaglia e il primo è importante tanto quanto il secondo, perché il pubblico è passionale e la critica obiettiva, e per poter crescere e migliora sono necessari entrambi gli aspetti. Dopo l’esperienza di Conquista il Mondo, che contro ogni pronostico ha vinto in ogni angolo del mondo, sono molto curioso di vedere la reazione del pubblico e della critica (che fino ad ora si è dimostrata molto positiva) per Il muro tra di noi che a mio avviso è qualche gradino rispetto al precedente. Inoltre sono curioso di vedere se la coppia Pesce-Marescotti vincerà più premi dell’esordiente Vanessa Montanari che nel ruolo della protagonista in Conquista il Mondo ha fatto scintille!

Ha incontrato difficoltà produttive?

Credo che non esistano produzioni cinematografiche dove non esistano difficoltà, e più si vuole alzare l’asticella e più è facile sbagliare. Fortunatamente ho avuto dalla mia parte uno staff e un cast di produzione davvero unico! Da un alto la freschezza e l’energia di due amici e incredibili professionisti come Alessandro Atti e Alessandro Botteon, dall’altro invece la grande esperienza e la guida importante di Paolo Muran e, ovviamente, del già citato Giorgio Ciani. Ciò che però mi ha sorpreso di più è stato vedere quanto sia stato facile collaborare con le istituzioni per questo progetto nonostante tutto quello che si dica in Italia: a partire dal piccolo ma entusiasta comune di Monte San Pietro che ci ha ospitato facendoci sentire a casa, fino alla grande Regione Emilia Romagna (nella figura della film commission) e il Comune di Bologna che si sono messi immediatamente e con grande passione a nostra disposizione per aiutarci a realizzare questo bellissimo progetto. Infine penso sia giusto ringraziare anche realtà “private” come i bravissimi ragazzi di “succede solo a Bologna” e il vulcanico e dinamico Paolo Rossi Pisu con “Genoma Films” che oltre a darci una mano a livello economico ci hanno supportato a livello tecnico.

Come è stato lavorare con il cast?

Un cast del genere è il sogno di qualunque regista. Come già detto, Pesce e Marescotti hanno costruito due personaggi di spessore, andando ben oltre a ciò che avevo immaginato quando glielo proposi, ma se il film ha convinto la critica finora è anche grazie a due spalle di assoluto valore come Stefano “Vito” Bicocchi e Vanessa Montanari. Per il primo basterebbe il suo curriculum come presentazione, ma penso che il vero Vito lo si scopra molto di più nei meandri del set che sul grande o il piccolo schermo. È una persona meravigliosa, che migliora ogni ambiente in cui si trova con il suo fortissimo umorismo e sensibilità e vi assicuro che assistere a delle scene fuori set tra due vecchie volpi come Marescotti e Vito è stato qualcosa di assolutamente spassoso! Per Vanessa invece è tutto un altro discorso. Molti la definiscono la mia “musa” e penso che in qualche modo sia vero. Dopo tutti questi anni e progetti ho capito che lavorare con un’attrice come lei sia diverso che con qualunque altro attore o attrice, famoso o non famoso, perché è una ragazza sensibile, umile, intelligente, di un livello artistico assoluto (molto più di quello che crede lei) ma soprattutto una grandissima testona! Il bello di lavorare con Vanessa è che puoi passare intere sedute di prove a discutere e litigare con lei sulla costruzione del personaggio, poi entra in scena e lo fa totalmente a modo suo! Il problema è che ogni volta ha ragione lei! Dovendo affrontare tre “titani” del cinema italiano e bolognese come Vito, Pesce e Marescotti sapevo che avrebbe avuto delle difficoltà emotive, così come sapevo che a qualcuno di esterno la scelta di un’attrice “non famosa” come lei insieme a loro avrebbe fatto storcere il naso, ma come detto prima il bello di quella ragazza è che una volta che abbandona i panni di Vanessa Montanari per indossare quelli dei suoi personaggi si trasforma talmente tanto da cancellare ogni dubbio dimostrando, ogni volta, perché a mio avviso sia una delle migliori attrici esordienti in circolazione, con un futuro ancora tutto da scrivere nel cinema.

I suoi progetti futuri?

Il finale del 2019 e il 2020 saranno ricchi di grandi novità e progetti ma al momento non sono “autorizzato” a parlarne, però vi assicuro che sarà qualcosa di unico e soprattutto… di magico!

Articolo di  Redazione per https://www.cultora.it

Intervista al regista e produttore indipendente Carlo Luglio

Cosa significa fare “cinema indipendente” oggi?  Devo dire che sotto l’ombrello di questa definizione si trovano una varietà di tipologie non sempre consone alla autonomia che dovrebbe necessitare un Cinema senza diktat. Purtroppo in Italia viviamo in un sistema dove pure gli autori conclamati si sono piegati alle supposte leggi del mercato dove un film di successo deve nascere spesso da un libro famoso oppure dalle vite di personaggi celebri. Dunque lottare per scrivere storie originali e cast liberi da vincoli è già il primo gradino per realizzare un film davvero indipendente.  Poi bisogna  affrontare le lotte con i selezionatori dei festival e con i distributori per i quali, se non sei facilmente etichettabile (impegno civile, cinema rigoroso d’autore o sperimentale, per i primi; fenomeno da botteghino popolare o “autoriale”, per gli altri, non riesci a ritagliarti uno spazio.

Ed in questo periodo di emergenza Covid è ancora più difficile per te come regista muoverti?  Paradossalmente il lockdown è stato un periodo dove nell’isolamento è germinata la creatività. Un silenzio e una pausa che hanno acuito sia una creatività divergente sfociata in nuovi progetti, che una strategia per dare visibilità, per esempio, al mio ultimo film “Il Ladro di Cardellini”, altrimenti ibernato per una concausa di eventi da tempo. Infatti, son riuscito a farlo girare in rassegne e festival estivi e ora è stato appena presentato in concorso come unico film italiano al prestigioso Festival de la Commedie di Montecarlo creato e condotto da Ezio Greggio con il compianto Mario Monicelli, dove Nando Paone ha vinto il premio come miglior attore protagonista! Finalmente questa opportunità, auspico offrirà ad un film anomalo e originale di uscire pure nelle sale ed avere una propria collocazione.

A questo proposito mi parli di come è nato questo film? Premesso che questo è il terzo lungometraggio in venti anni di percorso registico, (“Capo Nord”, “Sotto la stessa luna”), vi è da dire che in questo periodo ho realizzato pure sei documentari. Spesso legati ad antiche tradizioni del mio Sud e con un particolare sguardo sul mondo musicale. (“Radici”, su e con Enzo Gragnaniello, “Magma” sui contadini delle tammorre vesuviane, “L’Ultimo Fuorilegge” -inedito- su e con Pino Mauro, re della sceneggiata). Nel 2005 invece realizzai “Cardilli addolorati” che racconta di questo mondo magico e desueto dei patiti degli uccellini domestici, che li catturano, collezionano, smerciano in modo illegale che però è pure così assurdo che stimola tenerezza e sorrisi. Tutto gravita attorno al canto e al colore dei Cardellini. Il che crea pure scommesse, rapine, furti e camuffi. La commedia che ha poi  scritto Diego Olivares riprendendo un soggetto scritto a più mani e germinato in varie declinazioni tra me, Massimiliano Virgilio e Annarita Altieri Pignalosa, racconta questo mondo come contesto in cui si animano però le relazioni umane quotidiane e straordinarie del protagonista con sua figlia, la moglie morta e il nutrito gruppo di personaggi che lo circondano. Sarà un gioco funambolico per lo spettatore districarsi tra la vita intima e lunatica del protagonista e le azioni corali e picaresche che traccia insieme al gruppo di anziani e scalcinati bracconieri. Da una parte si porta avanti la mancanza di forza di gravità che serve proprio a noi autori a scrollarci di dosso quell’adesione ad un realismo spesso sterile. Dall’altra, un approccio diverso con la morte che incombe o che ci portiamo dentro. Una strana convivenza naturale e leggera di Pasquale Cardinale (Nando Paone che interpreta magistralmente questo candido Don Chisciotte), con un immaginario distorto che viene a stimolare sia la spinta verso un cambiamento (sarà costretto dalla figlia ad un paradossale matrimonio di convenienza con una rumena); che ad esorcizzare il tempo che passa assumendo improbabili droghe chimiche come un po’ tutti i vecchietti della combriccola.

Che paesaggi hai utilizzato per ambientare le riprese? Anche questo è un punto di rilievo del film che si svolge sospeso in un non luogo del mediterraneo senza tempo e in spazi desueti e accoglienti di una provincia che sfrigola scintille di vita genuina ancora tra case di cortile dai muri consunti e scoloriti, e campagne amene. Non era il caso di raccontare per l’ennesima volta una Napoli di periferia degradata oppure da cartolina. Innanzitutto le pistole sono appese al chiodo in questo film dove non è presente la solita violenza criminale. E l’ingenuità del protagonista stride con il cinismo  a cui siamo avvezzi. Perciò mi interessava rappresentare un Sud dalle tradizioni genuine seppur sempre un pò sopra le righe ma mai grottesco, malavitoso  o bozzettistico. Quel mio sud che è a nord di tutto, che non piega il capo, quel sud che non tradisce. Fatto di gente fiera che sa aspettare e in silenzio sa sognare. E poi volare come i cardellini della storia.

Progetti per il futuro?  Un film,”Assediati”, una coproduzione italo francese, che sfaterà tutti i pregiudizi su intolleranza e razzismo che vigono qui da noi. Un guerra tra poveri che non vince nessuno dove tutti sono umiliati,offesi e sconfitti. Un film che porteremo a Cannes e che ci darà soddisfazioni.

Chi sono i tuoi riferimenti cinematografici attuali e passati? Chi ama il cinema come me in modo onnivoro si nutre da decenni di varietà infinite di autori. Da Truffaut e Godard a Cassavetes, Kubrick e Fellini, da Lynch, Cronenberg e Bunuel, ad Hasby e Forman, fino ad  Altman, Cimino, Scorsese, Coppola, Ferreri e Bertolucci. Ma poi adoro Monicelli, De Seta, Scola e Risi. Ed oggi in Italia Virzì, Maresco e Sorrentino. E nel mondo Xavier Dolan, Eastwood, Malick, Paul Thomas Anderson, Sean Penn e tutto il cinema indipendente che sbriglia emozioni e fantasie. Facendoci scoprire la vita ignota e acuendo il nostro bagaglio emotivo e il nostro spirito critico.

Trump o Biden? Jane Fonda o Jack Nicholson for president! Per l’Italia se fossero vivi, Ugo Tognazzi presidente del consiglio e Marcello Mastroianni presidente della Repubblica.

Biografia e Filmografia  di Carlo Luglio

E’ nato a Castellammare di Stabia (Napoli) nel 1967. Laureato in Storia del Cinema al DAMS, ha realizzato due film lungometraggi (Capo Nord e Sotto La Stessa Luna), quattro documentari (Pittura a mano armata, Il Cinema Salato, Cardilli Addolorati e Radici ), e un cortometraggio “Ciao Mamma” che hanno partecipato a vari festival internazionali (Torino, Montreal, Valencia, Locarno, Annency, Cairo e Venezia), raccogliendo premi e menzioni. Per tutti, la Palma d’argento per “Capo Nord” al Festival di Valencia nel 2004, il Golden Award al Festival del Cairo 2006 per “Sotto la stessa luna”, Migliore documentario a Torino Cinema Ambiente 2005 per “Cardilli Addolorati” e Miglior cortometraggio al Napoli Film Festival 2014. 

Dal blog di Carlo Franza per ilgiornale.it

Intervista col regista Leonardo Di Costanzo

“Ariaferma” è un film uscito nel 2021 e diretto da Leonardo di Costanzo. Ambientato in un carcere quasi sospeso nel tempo e nello spazio, dove secondini e detenuti vengono esposti alla progressiva disgregazione dei loro ruoli, il film vede Toni Servillo e Silvio Orlando interpretare personaggi molto distanti dalla normale cifra dei due attori. Presentato fuori concorso alla 78ma Mostra del cinema di Venezia, “Ariaferma” sarà proiettato a Berlino, nell’ambito dell’Italian Film Festival, sabato 13 novembre, presso il Kino in der Kulturbrauerei. Nell’attesa, Lucia Conti ha intervistato il regista, Leonardo di Costanzo.

Partiamo dai protagonisti di “Ariaferma”, Toni Servillo e Silvio Orlando. Si è già detto che li hai spiazzati, dando a ognuno un ruolo che in realtà sembra fatto apposta per l’altro…

Ma non per il desiderio di spiazzare, non volevo intenzionalmente disorientarli. È che mi serviva esattamente quello che ho ottenuto “invertendo” i ruoli.

Spiegami meglio

Secondo me, per un film come “Ariaferma”, fatto di cose così piccole e trattenute, se loro fossero ricorsi, ed era probabile, a quella che è la loro formazione originaria, sarebbe stato facile ritrovare quelle maschere che conoscono bene e questo avrebbe nuociuto molto al film. Io ho lavorato sempre con attori non professionisti, perché sono delle pagine bianche, anche per gli spettatori, che li scoprono per la prima volta, riempiendo di significato corpi, gesti, facce. Quando hai a che fare con attori come Orlando o Servillo, invece, lo spettatore guarda il personaggio, ma lo guarda come continuazione della storia dell’attore.

La prima cosa da fare, in questo tipo di film fatto di assenza di parole e tutto incentrato sui volti, è distruggere l’immagine che lo spettatore ha degli attori già noti.

C’è stato qualche momento in cui Orlando o Servillo ti hanno detto: “Non ce la faccio”?

Abbiamo parlato a lungo. All’inizio mi hanno un po’ studiato, per capire se potessero fidarsi, poi si sono resi conto che dietro alla mia richiesta c’erano un’idea e un ragionamento. Inoltre avevo anche un’altra necessità e cioè che la loro recitazione si avvicinasse il più possibile a quella degli attori non professionisti presenti in “Ariaferma”. Ti dirò, il mio principale problema è stato proprio questo.

Ho detto: “Ragazzi, io non posso chiedere ad attori non professionisti la pasta recitativa che può darmi chi fa questo lavoro da 40 anni“. Erano 
i protagonisti a doversi avvicinare agli altri e potevano farlo, proprio perché sono dei grandi attori.

Immagino che tu abbia chiesto a Orlando e Servillo di lavorare per sottrazione

Esatto. Loro non sapevano cosa togliere e questo discorso è stato interessantissimo, nei due giorni in cui ne abbiamo parlato approfonditamente, paragonando la recitazione teatrale con quella cinematografica, la recitazione realistica con quella “portata”. È stato molto bello e se avessi filmato tutto avrei un bellissimo documentario sul mestiere dell’attore.

Mi piacerebbe analizzare anche altri personaggi di “Ariaferma”, che  spiccano anche per il talento dei loro interpreti. Su tutti, la guardia carceraria più dura e meno empatica…

Fabrizio Ferracane. Attore straordinario!

Oltretutto Ferracane è riuscito a rendere l’ostilità che il personaggio ha verso i detenuti con micro-espressioni facciali e gesti contenuti, senza mai esplodere. Cosa difficilissima! Come hai concepito questo personaggio?

Ferracane è un attore che a me piace molto, è bravissimo. Ha recitato nel film di Bellocchio su Buscetta, “Il traditore”, e in “Anime Nere”, di Francesco Munzi, sempre in ruoli un po’ secondari, ma lui è straordinario. Non abbiamo potuto lavorare molto in presenza, prima, perché lui fa parecchi film, ma c’è stato tra noi un continuo scambio di messaggi, mail e telefonate. Lui è molto serio, lavora tanto e bene e ci siamo sentiti spessissimo per cercare di costruire questo personaggio, che è un po’ il cattivo, l’antieroe del film.

Durante le riprese, Ferracane si lamentava del fatto che con lui non parlassi molto e io gli rispondevo: “È che tu sei sempre giusto! Sei bravissimo! L’hai trovato, il personaggio, e fai dei piccoli movimenti, con delle piccolissime sfumature che mi incantano. Che ti devo chiedere di più?”.

 

di   Lucia Conti  11 November 202  per ilmitte.com

 

“Roma è lo scenario naturale dei miei film” intervista a Nanni Moretti

Nanni Moretti è uno dei più importanti rappresentanti del cinema italiano contemporaneo; regista, attore, sceneggiatore, produttore e proprietario di una sala cinematografica, ha esordito come autore nel 1973 (con il cortometraggio La sconfitta), firmando negli anni ’70-’90 film che hanno formato una generazione come Io sono un autarchico, Ecce bombo, Bianca, Palombella rossa, Caro diario, Aprile e altri. I suoi film raccontano storie personali che diventano universali e fondono il tragico e il comico in un racconto sincero e coinvolgente. Ha conseguito numerosi premi e riconoscimenti, tra cui la Palma d’Oro di Cannes per La stanza del figlio, otto David di Donatello e undici Nastri d’argento.

Morettin latuaitalia.ruI suoi film sono molto legati a Roma. Capitale italiana, culla della storia e dell’arte nota in tutto il mondo, Roma ha comunque zone molto interessanti, ma quasi sconosciute ai turisti. Penso a esempio ai quartieri di Garbatella e Spinaceto, in cui ha ambientato il film Caro diario. Ci sono altri luoghi di Roma che ama?

Certamente! Penso, ad esempio, a un quartiere come l’EUR, che possiede un fascino particolare, simile a un quadro di De Chirico… un’atmosfera quasi metafisica. 

In Caro Diario Roma rappresenta quasi un personaggio protagonista, anziché una semplice ambientazione. Ci sono altre città italiane in cui le sarebbe piaciuto girare un film?

Ho ambientato La stanza del figlio ad Ancona. Ai miei occhi, era un posto più giusto per raccontare quella storia così dolorosa. Gli anconetani erano molto stupiti da questa mia scelta e mi chiedevano: “Come mai sei venuto a girare qui il tuo film?”. Mi sembrava fosse giusto allontanarmi da una metropoli e raccontare questo grande dolore in una piccola città dove — magari mi illudo — è ancora vivo un senso di comunità.

Roma continua a ispirare tantissimi registi, che ne restituiscono ogni volta rappresentazioni diverse. C’è qualche suo collega di cui condivide la visione della città?

Sì, certo. Mi viene in mente Estate romana di Matteo Garrone oppure Pranzo di ferragosto di Gianni di Gregorio. In entrambi i film Roma viene raccontata con affetto, ironia, dall’interno… questo non ha potuto che incuriosirmi.

Lei è ancora legato ai luoghi di Caro Diario?

Direi di sì. Anche e soprattutto agli oggetti: come la Vespa, ad esempio. Purtroppo però ormai è troppo malandata e da tre anni l’ho dovuta mettere in pensione. Ho deciso di donarla quindi al Museo del Cinema di Torino.

Quale rapporto ha con il territorio italiano? Quanto è importante il paesaggio – che sia urbano o di campagna — per i suoi film?

Roma è sempre stata — tranne per il caso de La stanza del figlio — lo scenario naturale dei miei film. Le mie prime opere sono a tutti gli effetti “film romani”… probabilmente senza volerlo ho raccontato un luogo, oltre che un ambiente politico, sociale e generazionale. In realtà, ho girato i miei film in quel posto così preciso geograficamente – Roma Nord, quartiere Prati – perché rappresentava la destinazione naturale delle storie che mi venivano in mente.

E l’episodio delle isole in Caro Diario sono pure basati su esperienze autobiografiche?

No, quell’episodio mi è venuto in mente un giorno in cui sorvolavo l’arcipelago delle Isole Eolie e le ho viste in un’unica immagine, in un’unica inquadratura. Allora mi è venuta in mente questa rivalità — che non c’è assolutamente tra gli abitanti dell’arcipelago, ma che c’è invece stranamente tra i rispettivi villeggianti. Chi sceglie Panarea detesta quelli che scelgono Stromboli o Salina; chi sceglie Alicudi detesta chi sceglie Lipari o Panarea: c’è una forte competizione tra i vari villeggianti, clienti delle isole, cosa che, ripeto, non appartiene assolutamente agli indigeni, a chi ci vive. E allora mi è venuto in mente di raccontare questa rivalità così feroce tra isole così vicine tra loro.

A lei piace trascorrere le vacanze in Italia? C’è qualche luogo poco conosciuto che si sentirebbe di suggerire ai nostri lettori?

Sono passato velocemente a Lecce un paio di volte, però tutti mi dicono che dovrei trascorrere più tempo in questa terra, il bellissimo Salento. Io, se devo suggerire un luogo, penso al Conero, un promontorio vicino ad Ancona, a cui sono legato perché vivevo lì, in un piccolo paese, quando giravo la Stanza del figlio. Ho speso diversi mesi lì…

Può nominare due-tre film italiani che deve assolutamente vedere una persona che vuole farsi una prima impressione dell’Italia di oggi?

È difficile! Non so… dico i primi che mi vengono in mente: Gomorra di Mattero Garrone, Il capitale umano di Paolo Virzì e Il ladro di bambini di Gianni Amelio.

Intervista in it.latuaitalia.ru

 

Mettere in luce le donne nel mondo del cinema

Incontra tre delle donne che stanno aprendo la strada alla nuova generazione di registe. Gli studi dimostrano che le donne sono ancora davvero poco rappresentate nel settore cinematografico. Nel 2019, era donna solo il 20% dei registi, autori, produttori, produttori esecutivi, tecnici del montaggio e direttori della fotografia che hanno lavorato ai 100 film con il maggiore incasso negli Stati Uniti. Chiaramente, il settore ha ancora molta strada da fare in termini di inclusione delle donne, ma ci sono stati dei progressi.

La campagna Women Who Photo & Film è stata lanciata da The Photography Show & The Video Show nel 2018 per mettere in luce il lavoro di fotografe e registe. Quest'anno la mostra si è svolta virtualmente e ha coinvolto 21 ambasciatrici.

Carys Kaiser ha svolto quasi tutti i lavori del settore, dalla registrazione del suono fino a diventare produttrice e regista autonoma. Ha lavorato a produzioni televisive nel Regno Unito per oltre 17 anni e nel 2015 ha iniziato a dedicarsi alla fotografia con i droni.

Heather Hughes è diventata sorda all'età di tre anni, ma non ha mai lasciato che questo le impedisse di fare carriera come videografa, producendo video di viaggio, per aziende e social, oltre a realizzare filmati di matrimoni.

La regista Ashleigh Jadee ha iniziato a lavorare nel campo della fotografia prima di passare alla videografia, alla produzione e alla regia. È specializzata nella regia di video per l'industria della musica e della moda e ha collaborato con artisti come Skepta, Wiley e Wretch 32.

Qui le tre professioniste, tutte del Regno Unito, condividono le loro esperienze di lavoro nel settore cinematografica e offrono consigli a chi spera di seguire le loro orme.

La filmmaker Heather Hughes racconta che le ci è voluto un po' di tempo per trovare la sua strada. "Penso che tu debba fare molti errori, poi improvvisamente i pezzi andranno al loro posto e penserai: 'Oh sì, questo è quello che voglio dire, ed è così che lo dirò'".

Come sei entrata nel mondo del cinema?

Carys ha iniziato come truccatrice, ma ben presto ha capito di voler lavorare con le videocamere. "Guardavo gli operatori, tutti uomini, e i registi, tutti uomini, e pensavo: 'Voglio fare il loro lavoro'". Incontrare una filmmaker tramite il suo lavoro sul set le ha insegnato qualcosa sul settore e l'ha ispirata a fare il passo successivo.

Heather è stata project manager in una casa editrice per 18 anni prima di essere licenziata. "Ho trovato un corso di regia narrativa al City Lit College di Londra", racconta. "Ho realizzato uno sketch comico di tre minuti. Credo di essere stata l'unica ad avere effettivamente finito, e tutti l'hanno trovato divertente quando l'hanno visto". Heather ha accompagnato un'amica come videografa a un matrimonio e poi ha iniziato a occuparsi di filmati a livello professionale.

"Quando avevo circa 20 anni, ho deciso di passare a una fotocamera Canon", racconta Ashleigh, che scattava con Canon EOS 60D (ora sostituita da Canon EOS 90D). "È stato allora che ho iniziato a giocare con i video, perché avevo sia video che foto in un solo dispositivo. Ho iniziato filmando i miei amici che facevano freestyle".

Ashleigh ha girato un documentario su un suo amico che stava realizzando un album, poi ha lavorato per un breve periodo nell'ambito della produzione, prima di riprendere in mano una videocamera per girare un video musicale per un'amica, grazie al quale è stata scelta dalla Universal Records per il suo primo ruolo da regista.

"A volte penso di dovermi dare un pizzicotto", afferma la filmmaker Carys Kaiser. "Mi sento molto fortunata ad avere tutte queste opportunità. Ma poi mi guardo attorno e i miei amici mi dicono: 'Non ti dai abbastanza credito. Hai lavorato duramente per arrivare fin qui'".

Dove trovi l'ispirazione?

"Guardo ogni genere di cose", afferma Carys. "Se sto realizzando un filmato creativo, potrebbe essere qualcosa che ho visto su YouTube tre o quattro anni fa, o potrebbe essere un libro, una rivista o un programma televisivo".

Anche la collaborazione con gli altri membri del panel Women Who Photo & Film è stata fonte di ispirazione. "Ogni donna che sta portando avanti il proprio viaggio nel campo della fotografia o del cinema è fonte di ispirazione", sostiene.

Heather prende spunto dalla TV e dai film. "Adoro i programmi come Firefly", spiega, riferendosi alla popolare serie di fantascienza. "In realtà prendo molta ispirazione dalla teoria della TV, guardando come vengono effettuate le riprese e l'atmosfera che si crea".

Come Heather, anche Ashleigh ama guardare vecchi film e video musicali. "Prendo una scena o una parte memorabile e la ricreo nel mio lavoro", afferma. "A volte, se si tratta di raccontare una storia, uso le mie esperienze personali".

Cosa ne pensi della campagna Women Who Photo & Film?

"La campagna mette in luce le diverse esperienze delle donne", spiega Carys. "Mostra che le donne non si occupano solo di matrimoni, ma fanno di tutto".

"Vado all'evento The Photography Show da quando è iniziato", racconta Heather. "Ogni anno lo trovavo davvero molto stimolante, perché all'inizio della mia carriera non sapevo che tipo di foto o video avrei voluto realizzare".

Ashleigh sostiene che iniziative come questa sono molto importanti, perché l'industria rimane fortemente dominata dagli uomini. "Credo che le persone debbano sentirsi rappresentate in tutto, a livello di razza, sesso e altro. Vedere qualcuno nella posizione in cui vorresti essere tu può incoraggiarti a smettere di dubitare di te stessa e fare il primo passo per realizzare i tuoi obiettivi".

A woman stands on a hill overlooking a valley ringed with mountains. She is operating a camera on a tripod

Le donne nel settore della produzione cinematografica: come farsi spazio

Le produttrici più famose raccontano come hanno fatto ad affermarsi nel settore del cinema e offrono consigli alle donne che desiderano seguire il loro stesso percorso.

Hai percepito la disparità di genere nel settore cinematografico?

Quando Carys ha iniziato a dedicarsi al lavoro con i droni, non è stata sempre presa sul serio. "Qualcuno mi ha detto: 'È troppo complicato. Non riusciresti a farlo'. Poi mi è venuto in mente che, in realtà, tutte le professioni che svolgo hanno una prevalenza maschile: fotografo, videografo, regista, tecnico del montaggio, operatore di droni.

"Penso però che la situazione stia cambiando. Non mi sono impegnata per diventare un modello per le donne, è successo e basta. Ma se posso ispirare qualcuno a pilotare un drone, maschio o femmina che sia, a me sta bene".

"Il settore è piuttosto maschilista, soprattutto nell'ambito del broadcast", afferma Heather. "Ho una telecamera broadcast che utilizzo, l'ho presa in parte per essere sicura di potermi sentire allo stesso livello [degli uomini]. Ci sono uomini che iniziano a parlare di cose tecniche e alcune donne si sentono intimidite da questo".

Carys sta lavorando a un libro di fotografie scattate con i droni, intitolato "A girl from above". Il suo interesse per la fotografia con i droni l'ha portata a specializzarsi nel mestiere e ora è una dei migliori piloti di droni del paese. 

Cosa c'è nel tuo kit?

Heather utilizza Canon XF705 per le sue riprese. "È una videocamera vera e propria", afferma. "Quando intervisto delle persone utilizzo Canon XF705. La messa a fuoco automatica ha delle prestazioni incredibili. È come essere in studio, è perfetta".

Carys ha utilizzato Canon EOS C300 Mark III e Canon EOS C500 Mark II per il suo lavoro televisivo. "Quello che offrono, a differenza di altri produttori di videocamere televisive, è lo spazio colore", sostiene. "Tutte le tonalità della pelle hanno un bell'aspetto sulle videocamere Canon".

Quali consigli daresti a chi vuole entrare nel mondo del cinema o a chi sta passando dalla fotografia al video?

Carys, che ha lavorato sia con le foto che con i video, incoraggia le persone a essere sicure di sé. "Se riesci a creare l'inquadratura di una foto, hai già l'abilità necessaria per i video. Impara quali sono le regole e poi inizia a infrangerle per creare il tuo stile".

All'inizio, molti giovani filmmaker sono tentati di lavorare gratis per ottenere un po' di visibilità e crearsi delle connessioni nel settore, ma Carys consiglia di essere prudenti. "Non svenderti. Ho passato molto tempo a sottovalutarmi, ma poi ho iniziato a farmi valere, economicamente parlando. Non solo mi sento meglio riguardo a quello che faccio, ma la gente mi apprezza di più".

Heather esorta i principianti a non darsi per vinti. "Non mi rendevo conto di quanti alti e bassi ci sarebbero stati, quanto sarebbe stato difficile crearmi delle connessioni. Devi imparare a farti scivolare le cose addosso. Ma ricordati di ascoltare sempre la tua voce e di sapere cosa vuoi fare ".

Il consiglio di Ashleigh per chi entra nel settore è di fare rete, incontrare persone e lavorare sulla fiducia in sé stessi. "È tutta una questione di relazioni", afferma. "Sono sempre stata molto timida, e senza fiducia in me stessa, il che mi avrebbe impedito fare determinate cose".

Suggerisce agli aspiranti registi di lavorare sulla crescita personale. "Devi capire le persone e come muoverti sul set, perché tutti gli occhi sono puntati su di te Oltre al lavoro su commissione, concentrati su progetti che ti appassionano, perché questo ti aiuterà a mostrare che tipo di regista sei veramente".

Qual è stata la parte migliore della tua carriera finora?

"Sono sempre entusiasta di ogni singolo lavoro che faccio", afferma Carys. "Di recente ho girato con Heather Small, Alexandra Burke e David Grant per Songs of Praise - Gospel Singer of the Year, ma oggi è stato davvero emozionante perché ho filmato un uomo su una collina con un asse da stiro. Mi sento come se questo fosse il lavoro più bello del mondo: è questa per me la parte migliore".

"La parte migliore è l'affiatamento che sento con gli altri filmmaker", afferma Heather. "Ho trovato una comunità, è divertente e le persone sono fantastiche".

"Uno dei miei momenti migliori è stato poter dirigere i video digitali Out-of-Home per la campagna di Natale 2018 di H&M", afferma Ashleigh. "È stato pazzesco perché ho potuto vedere il mio lavoro su enormi cartelloni pubblicitari e su Oxford Street mentre andavo in un centro commerciale Westfield. Un altro momento indimenticabile è stato probabilmente il mio primo video, perché è stato allora che ho pensato 'Voglio sentirmi così ogni volta che vado al lavoro'".

Scritto da Tamzin Wilks  per  https://www.canon.it/

Il letto è una rosa, il mémoire bizzarramente dadaista, gioiosamente arruffato e oniricamente felliniano di Monica Vitti

Monica Vitti Il letto e una rosa 195x300A leggere tutto d’un fiato il libro (120 pagine per Mondadori) viene quasi voglia di farle una carezza, a questa donna che ha reso grande il cinema italiano, seppellendo involontariamente nella sua anima il dondolio giusto e gentile del quieto vivere.  Se volete farvi un regalo in ricordo di Monica Vitti, a un anno esatto dalla sua scomparsa, per una volta scartate la possibilità di uno dei tanti bei film interpretati in quarant’anni di carriera e concedetevi il suo divertito e spumeggiante mémoire. Si tratta de Il letto è una rosa che Mondadori ripropone in una nuova edizione quasi trent’anni dopo la sua prima pubblicazione del 1995. Una composizione bizzarramente dadaista, gioiosamente arruffata, oniricamente felliniana, che la Vitti si autodipinge addosso lungo la prima infanzia, adolescenza, età adulta, sogno spesso rocambolesco e proiezione di sé oltre il reale, come fosse un personaggio alla Borges.   “La mia vita, però, non la so raccontare, perché appena la guardo per farla diventare parole, si nasconde”, reitera il concetto più volte nel suo libro la protagonista de La ragazza con la pistola e Ninì Tirabusciò. Il letto è una rosa è tutto un inseguimento del ricordare, rapide e succinte tracce esistenziali che c’entrano poco con l’aneddotica professionale nel cinema. Così se la memoria, che sfugge, è “una truffa” (meglio “il ricordo”); e se la “smemoratella”, così i genitori chiamavano Monica piccina, invece sui set aveva “una memoria di ferro”, ecco che la ricostruzione di una vita non passa per forza dal passato, ma si inchina nella confusione creativa e psicologica del presente, il presente Vitti del 1995 che sembra ri-nascere in un pomeriggio di primavera dentro alla saletta della moviola, a Roma, in via Margutta. Nel ricostruire un’altra storia, quella del fantomatico film Pareti bianche e occhi azzurri, la Vitti, che montatrice non è mai stata, ma dentro le storie ha montato emozioni, significati, direzioni, si cimenta nell’impossibile lavoro da concludere e consegnare ad un produttore (francese ed incazzato per il ritardo). È qui che mente e desiderio cominciano a frullare. Tra statue che camminano, alberi che cambiano posizione, una chiacchierata con il cappotto appeso all’attaccapanni, un sogno con una donna che la prende a sberle perché non la sta facendo “ridere” e l’immagine di mamma riflessa in uno specchio che intima ordini Monica Vitti 690x362prima di scomparire, l’attrice romana ricostruisce un sé sfuggito e sfuggente, utilizzando l’umorismo per suturare la perdita per strada dei dettagli. Ha sempre fame, Monica. Ha sempre avuto fame la protagonista del trittico L’avventura-La notte-L’eclisse: un “panino al prosciutto” quando scriveva soggetti e sceneggiature, “mele annurche” mentre era alla ricerca di aggettivi, almeno “due bignè e un cono gelato” dopo dieci minuti di inattività. Buffa e disperata, Monica che scrive “per aprire le porte chiuse, per portare una candela nella stanza buia, per trovare una lettera che mi racconti quello che è successo”; ma anche per non “suicidarsi” anche se con un pennino, piano piano, scavando potrebbe arrivare al cuore.  La Vitti, come riproponendo il personaggio della maturità, quel prisma femminile carico di vivace sensualità e svampita comicità, balbetta, circumnaviga, ostenta il controllo della materia esistenziale e sceglie ancora una volta una captatio divertita e assertiva. Come quanto chiede rispetto per la (sua) pazzia (“quasi nessuno accetta volentieri la libertà di un pazzo. Il che è giusto nel caso di un pazzo aggressivo e violento; ma la libertà di un pazzo tranquillo e sereno, che non fa male a nessuno, a chi mai può far paura? Se non la si accetta, è tutta invidia”) o rievoca quel collega dell’Accademia che la invitò distratto ed altezzoso a salire in casa sua e lei prima titubante, poi convinta, infine lo lasciò con pantaloni e mutande calate optando per un altro impegno giù da basso. Buffa Monica che rivorrebbe il suo cane che “con gli occhi la rasserenava”, elogia gli uomini con la barba (“un viso pulito è anche un po’ banale”), sbeffeggia gli psicanalisti (“troppo facile, ascoltare e prendere i soldi. Venga a casa a risolvere i miei problemi, compreso quello dell’idraulico. Non faccia finta di essere un vero medico, non lo è, è uno con cui si parla, un confidente”) e che infine svela dolce e delicata la verità su quel “male ai capelli” in Deserto Rosso: “Che i capelli mi abbiano sempre fatto male, a me sembra molto naturale, cioè mi stupisco che non facciano male anche agli altri. È una parte del corpo, ha diritto al dolore. Ma intanto qualcuno ne ha approfittato per etichettarmi: “Le fanno male i capelli, poverina, che ci vuoi fare, è alienata”. Così a leggere tutto d’un fiato Il letto è una rosa (120 pagine) viene quasi voglia di farle una carezza, a questa donna che ha reso grande il cinema italiano, seppellendo involontariamente nella sua anima il dondolio giusto e gentile del quieto vivere.

 

Articolo di Davide Turrini  per IlFattoQuotidiano.it  2 FEBBRAIO 2023

Paolo Villaggio racconta Monicelli

 

Ischia Film Festival: Paolo Villaggio racconta Monicelli. Una serata evento per due protagonisti assoluti del cinema italiano.
Ischia Film Festival: Paolo Villaggio racconta Monicelli.  Una serata evento per due protagonisti assoluti del cinema italiano.
[Ischia, 4 luglio 2009] Ischia festeggerà Mario Monicelli, uno dei massimi registi italiani in una serata evento il 9 luglio prossimo al Castello Aragonese di Ischia Ponte.
Padre fondatore della commedia all'italiana, autore che ha saputo rappresentare sul grande schermo, con indomito cinismo (e un pizzico di umanissima malinconia) vizi e difetti degli italiani, Monicelli incontrerà il pubblico e parlerà della sua vita e della sua carriera insieme ad un altro grande protagonista del nostro cinema, Paolo Villaggio, al Festival per omaggiare e raccontare il regista de "I soliti ignoti" e "La grande guerra".
"Ringrazio pubblicamente il Maestro Monicelli  e Paolo Villaggio per aver accettato di prendere parte a questo evento" ha dichiarato Michelangelo Messina, ideatore e direttore artistico dell'Ischia Film Festival, " e per aver contribuito entrambi,  in maniera esemplare e sempre coraggiosa, a realizzare alcuni tra i grandi capolavori del cinema italiano, opere che sono destinate a rimanere come impareggiabili e acute analisi della storia e del costume di questo paese".
Nel corso della serata, per celebrare il regista nato a Viareggio nel 1915, sarà proiettato "Vicino al Colosseo c'è Monti". Nato da un'idea di Chiara Rapaccini, il cortometraggio è un ritratto del quartiere di Roma Monti, dove lo stesso regista vive da tempo. Un viaggio alla scoperta di uno dei posti più belli (e più antichi) della capitale,  un microcosmo nel quale tutti si conoscono e tutti parlano tra di loro, e nel quale Monicelli si è divertito a fare da "guida" al luogo e a farsi seguire mentre fa la spesa, va dal barbiere o visita i tipici negozietti della zona.
"Volevo raccontare un rione di Roma, forse il più antico" ha dichiarato Monicelli, "non con toni enfatici e imperiali ma quotidiani.  Volevo parlare di un paese con gli artigiani e di antiche vie percorse da processioni. In fondo credo di esserci riuscito".
 

 

Tarantino tarantolato...

TARANTINO TARANTOLATO (PIÙ CHE CINEFILO, “CINEFAGO”) - LA FOLLE PASSIONE PER LA SETTIMA ARTE DEL REGISTA DI “PULP FICTION” (1994) - “BUSH O OBAMA NON POSSONO CAMBIARE IL CORSO DELLA STORIA. I PERSONAGGIO DEI MIEI FILM SÌ…”

Quentin Tarantino ha un passo dinoccolato da adolescente di 46 anni. Regista che non assomiglia a nessun altro suo collega, è anche unico per il suo essere un vero cinefilo. Nei grandi e piccoli festival, quando li frequenta, nelle città in cui fa sosta, entra nella sala, si mette nell'ultima fila, mescolandosi con il pubblico normale. Tarantino è sempre impaziente di vedere film altrui.

Pierre Rissient, il re non incoronato del cinema mondiale, uno degli scopritori del regista, ritiene che il successo e la celebrità ormai planetarie non l'abbiano cambiato: "È restato lo stesso, in tutti questi anni. È schietto e spontaneo, e queste sono le sue qualità principali. Il pubblico lo percepisce e lo considera come uno dei suoi. Non ha quell'aria snob di alcuni registi".

Tarantino è stato proclamato l'enfant terrible del cinema americano dopo lo shock del 1992 con 'Le iene'. Due anni dopo con 'Pulp Fiction' è entrato nella leggenda. Sono seguiti i due 'Kill Bill' e ora, ad autunno, in Italia potremo vedere 'Inglorious Basterds'. Lui, la sua passione la racconta così: "Da bambino ero l'unico della mia classe ad andare a vedere film che nessuno dei miei coetanei si prendeva la briga di guardare. Di conseguenza non potevo condividere con nessuno la mia cinefilia. Quando più avanti, a festival del cinema più o meno famosi, ho incontrato appassionati come me, attaccavo bottone con loro e non smettevo mai di parlare, per ore intere".

Quentin Tarantino

Tarantino ama anche questa sensazione particolare: sentirsi in sintonia con centinaia di sconosciuti, una sensazione che si prova soltanto al buio della sala. Quando lo si incontra si deve parlare di cinema. Di che altro vorrebbe mai parlare? La domanda gli sembra del tutto incongrua. E poi, dice: "Del resto anche 'Inglorious Basterds' mostra come il potere del cinema può cambiare il corso della storia". La pellicola racconta di un commando di soldati ebrei che riescono ad ammazzare Hitler e i capi del nazismo, in un cineclub di Parigi.

Da bambino Quentin non aveva paure né di mostri né di fantasmi, ma temeva pericoli più concreti: "Il primo film che mi ha terrorizzato dev'essere stato 'L'ultima casa a sinistra', una pellicola di Wes Craven del 1972. Avevo nove anni e rimasi sconvolto e terrorizzato all'idea che delle persone spietate potessero introdursi e violare la sicurezza della mia casa", racconta serio.

Per Tarantino il cinema è infatti ancora qualcosa di viscerale, anzi, di 'ancestrale'. Anche se si tratta di un film di secondo piano, c'è sempre un momento in cui scatta qualcosa e la storia ci avvince, un attore ci commuove. "È per questo che amo i film di ogni genere, e anche i loro sottogeneri", dice.

Tarantino ama i registi che vanno fino in fondo. Come Douglas Sirk, per esempio: "Sirk prende un genere, diciamo il melodramma, e lo spinge alle sue estreme conseguenze, senza compromessi. 'La magnifica ossessione' del 1954, con Rock Hudson e Jane Wyman, fa parte dei suoi film più arditi del genere. Lo spettatore lo segue, senza porsi la minima domanda, completamente fiducioso, malgrado i colpi di scena talora improbabili della storia. Oggi il pubblico americano sogghigna davanti a questo genere di film, e io avrei proprio voglia di strangolare questa gente".

L'ironia ha sostituito l'innocenza, il pubblico è diventato troppo esigente. Tarantino dice di voler girare un melodramma, ma "dovrei farlo in spagnolo. Dovrei girare in Spagna, fare qualcosa 'alla Almodóvar'. Il pubblico spagnolo non ha perso il gusto per il melodramma come noi in America".

Oltre che cinefilo, il regista si dichiara 'cinefago': colleziona copie in 16 mm, dvd, guarda il canale Turner Classic Movies per buona parte della notte. Insomma: Tarantino vede ogni film, ma ha visto davvero tutto? "Ci sono pellicole che mi riservo per una grande occasione. Per esempio, non ho mai visto 'È nata una stella' di George Cukor, con Judy Garland. C'è stato un periodo in cui ero fissato per Judy Garland, ma di proposito ho lasciato quel film da parte. Per altri tempi".

Bastardi senza gloria

Ci sono registi che amano gli attori e quelli che invece amano dirigerli. Tarantino a quale delle due specie appartiene? Alla prima, risponde senza esitare. E racconta di essere stato quasi sul punto di abbandonare il suo ultimo progetto, 'Inglorious Basterds', perché non trovava l'interprete adatto per uno dei ruoli chiave.

"Non riuscivo a trovare l'attore giusto per il personaggio del colonnello nazista Hans Landa. Landa è un vero genio della parola e delle lingue. Mi serviva quindi un attore capace di incarnare quel talento. Qualcuno che potesse esprimere la poesia delle parole in quattro idiomi: inglese, francese, tedesco e italiano. Quando ci siamo trovati a due giorni dalla scadenza che ci eravamo fissati, prima di gettare definitivamente la spugna è arrivato l'austriaco Christoph Waltz. Già vedendolo camminare, e dopo poche scene, ho capito che il film si sarebbe fatto".

Intervistato a proposito della sua collaborazione con Tarantino, Waltz ha espresso tutta la stima che nutre per lui: "Girare un film con Tarantino è come fare un viaggio da sogno. È l'osservatore più preciso, incisivo e intelligente che io conosca per ciò che concerne il cinema. Riesce a farti fare quello che vuole lui, senza alcuno sforzo". E Brad Pitt, protagonista numero uno del film, così racconta l'attenzione di Tarantino ai particolari: "Ho molto apprezzato il rispetto per le lingue nella pellicola, la scelta di usare attori francesi per ruoli francesi, attori di lingua tedesca per ruoli tedeschi e così via".

KILL BILL

Che la scelta fosse giusta lo prova il fatto che il 53enne Waltz ha ottenuto il premio come miglior protagonista maschile al Festival di Cannes. Quando però si entra più nello specifico e gli si chiede quali siano i suoi attori idoli, Tarantino cita per primi quelli considerati di seconda fila: Aldo Ray e Ralph Meeker. John Wayne, Cary Grant e Humphrey Bogart vengono soltanto dopo.

"Molto spesso provo più interesse per gli attori che non hanno avuto la carriera che si meritavano". Ralph Meeker? Se non ricordate chi è, provate a pensare al ruolo secondario di pellicole come 'Orizzonti di gloria' di Stanley Kubrick, o 'Quella sporca dozzina' di Robert Aldrich.

Parlando invece di Bogart, Tarantino esclama: "Se solo si pensa che Bogart, in inglese, è diventato un nome di uso comune, perfino un verbo e un aggettivo. Non è formidabile il potere del cinema?". Stessa reazione suscitano in lui le attrici: a 16 anni ha avuto una passione sfrenata per Jean Arthur che aveva scoperto nei film di Frank Capra. Poi ricorda la bella bionda Ilona Massey, attrice di origine ungherese. "Era eccezionale in 'Joe, l'inafferrabile', un film di serie B del 1942", ricorda. Veronica Lake e Barbara Stanwyck le ha amate, ma soltanto in seguito.

Dai suoi attori Tarantino si aspetta una grande curiosità intellettuale e una disciplina di ferro. "Adoro che i miei attori sappiano ciò di cui parlano, che comprendano fino in fondo il loro personaggio oltre che i dialoghi. Prima di girare faccio vedere loro moltissimi film, e anche durante le riprese".

Quando erano sul set di 'Pulp Fiction', per esempio, Quentin ha mostrato a tutto il cast il film 'La signora del venerdì', con Cary Grant e Rosalind Russel. Quel film di Howard Hawks è una commedia molto vivace, nella quale gli attori parlano come altrettante mitragliette: "Per me i dialoghi sono fondamentali: gli attori devono capire che il segreto di tutto sta nella loro recitazione".

Tarantino vuole dunque che i suoi attori comprendano anche ciò che c'è dietro i dialoghi: "Ricordo un film di Woody Allen, 'Mariti e mogli', nel quale due personaggi parlano dei film di Leni Riefenstahl ed è evidente che nessuno di loro aveva la più pallida idea di chi fosse. si vedeva. Per me questo è l'esatto contrario di quello che io voglio fare al cinema e il pubblico se ne accorge".

Per quanto concerne la politica, Tarantino sa solo una cosa: ha detestato George W. Bush mentre ora è affascinato dal presidente Barack Obama. Ma l'immagine degli inquilini della Casa Bianca lo fanno tornare a 'Inglorious Basterds'. Commenta Tarantino: "I miei personaggi hanno cambiato il corso della storia. Quel che intendo dire è che, se quegli uomini fossero realmente esistiti, tutto ciò che accade nel film sarebbe plausibile e sarebbe potuto capitare sul serio".

 Agnès C. Poirier per "L'espresso" (traduzione di Anna Bissanti)
da DAGOSPIA,COM [03-07-2009]

 

Intervista a Giulio Mastromauro, regista di Inverno, il cortometraggio vincitore del David di Donatello

corto inverno regista Giulio MastromauroGiunto al suo quinto cortometraggio, Giulio Mastromauro con Inverno si è aggiudicato il David di Donatello. Lo abbiamo incontrato. 

La stagione dell’inverno è la metafora di una dimensione dell’anima, interiore. La dedica conclusiva è rivolta a tua madre, che hai perso in tenera età. Nello specifico, quanto c’è di autobiografico nella narrazione? 

Ci sono i ricordi di me bambino. Confusi, ma allo stesso tempo estremamente nitidi. Riportare sullo schermo la mia storia attraverso quella di Timo e della sua famiglia è stato un modo per me di elaborare, forse per la prima volta, questa dolorosa perdita e, allo stesso tempo, esprimere il mio desiderio di condividerla con chi ha purtroppo vissuto un’esperienza analoga alla mia. Il film ha una forte matrice autobiografica, ad eccezione dell’ambientazione. Avevo bisogno di un luogo reale, con persone reali, che mi riportassero indietro nel tempo, alla mia infanzia. E l’ho trovato nel mondo dei giostrai e dei circensi, così profondo e ricco di umanità. Mi sono sentito a casa.

La giostra è la metafora della vita, che prosegue nonostante tutto, nonostante il peggio. Nella parte conclusiva, quando sale su di essa, Timo assume ugualmente un connotato malinconico e nostalgico. Potevi concludere, rappresentando uno stato d’animo più positivo. Hai scelto, invece, di rappresentare molto realisticamente sempre lo stessa sensazione emotiva. S’intravede chiaramente una forma di rassegnazione alla realtà. Lo confermi?

Ho cercato di dare forma a un dolore. Di elaborarlo e reinterpretarlo. Di essere osservatore attento e pieno di pudore. In questa storia chiunque abbia vissuto una perdita può ritrovarsi. Molte persone mi hanno scritto ringraziandomi. È una storia che unisce. Il finale però non è affatto rassegnato. Nel pianto del bambino c’è dolore, ma anche forza, speranza. C’è la voglia di continuare a lottare, di continuare a vivere. Di smetterla di trattenere e nascondere a se stessi il proprio dolore. Quel pianto per me è vita. Dietro quel pianto c’è tutta la dignità dell’essere umano.

Come mai, invece, hai deciso di ambientare la storia in un comunità greca?

Amo la cultura greca e il “suono” della loro lingua. Duro, ma allo stesso tempo caldo, familiare. Ho perfino dato a mio figlio un nome greco: Theo (con l’h). Giulio Beranek ha vissuto la sua infanzia in Grecia ed è stato lui a innescare la scintilla. Ne ho parlato poi con Babak Karimi ed Elisabetta De Vito e anche loro hanno accettato la sfida. La lingua e l’ambientazione hanno reso il film molto più reale e vero.

Com’è stato rivivere il ricordo di un momento così intenso emotivamente e rappresentarlo sullo schermo tramite un personaggio, in questo caso il piccolo Timo?

Non è semplice decidere di affrontare un pezzo importante della tua vita. Richiede tanta energia. Quando ho deciso di raccontare questa storia, sapevo che avrei dovuto superare tanti ostacoli, non solo produttivi. Il più grande di tutti, per ovvi motivi, era trovare il piccolo protagonista. Non smetterò mai di ringraziare l’universo per avermi fatto incontrare Christian Petaroscia. Christian ha 7 anni, è vivacissimo e a tratti un po’ discolo. Caratterialmente è l’esatto opposto rispetto al personaggio di Timo. Ma è un bambino dolce e sensibile e ha uno sguardo che ti fa perdere. Non ho mai avuto dubbi su di lui. È stato amore a prima vista tra noi e si è subito creato un legame speciale. Girare la scena finale, poi, è stato qualcosa di incredibile. Ci siamo raccontati, abbracciati forte e abbiamo pianto insieme. È stata una sorta di epifania.

Timo vive la perdita della madre attraverso gli sguardi, i sospiri, le lacrime dei cari, degli adulti. Hai rappresentato molto bene quest’aspetto psicologico, cruciale in un’esperienza di questo tipo. In generale, il bambino concepisce una rappresentazione del mondo a partire dalle esperienze e dalle emozioni circostanti. Reputi, pertanto, l’inverno una parte di te stesso ancora viva ora che sei adulto, ma metabolizzata anche attraverso la messa in scena di questo ricordo?

Tempo fa mi sono imbattuto in questo post su Facebook di Carlo Verdone: “Una mamma che scompare troppo presto è il peggior vuoto nel quale sprofondi. Non c’è giorno che non penso a lei e il solo ricordo mi dà la forza di sentirla ancora dietro le mie spalle“. L’inverno della storia è il dolore che graffia, logora. Che strappa via una parte di te, ma allo stesso tempo si piazza al centro del tuo cuore e dei tuoi ricordi e non ti lascia più.

Ti sei aggiudicato il prestigioso David Di Donatello. Cosa puoi dirci di questa esperienza e come proseguirà la distribuzione del cortometraggio? Quali sono i prossimi progetti che ti vedranno protagonista?

È un onore immenso, ma soprattutto un grande onere. In questo momento ho i piedi ben piantati per terra e continuo a lavorare sodo. I miei progetti futuri sono l’esordio al lungometraggio e continuare a far crescere Zen Movie insieme alla mia socia e compagna Virginia Gherardini.

  • Anno: 2019
  • Durata: 15'
  • Genere: Cortometraggio
  • Nazionalita: Italia
  • Regia: Giulio Mastromauro

di  Eleonora Anna Bove  per https://www.taxidrivers.it/

Gina Lollobrigida

Gina LollobrigidaUna bellezza abbagliante, in gioventù, quella di Gina Lollobrigida (all’anagrafe Luigia), emblema insieme alle altre “maggiorate fisiche” - fu Vittorio De Sica in persona, nell’episodio Il processo di Frine del film Altri tempi - Zibaldone n. 1 diretto da Alessandro Blasetti nel 1952, a ribattezzarla così - dell’Italia che si stava risollevando dalla desolazione della seconda guerra mondiale e poteva esibire delle figure del femminile prosperose, speranza e promessa per il futuro. Mentre il corpo materno di Anna Magnani incarnava il lento processo di ritorno alla vita di un intero Paese dopo le sofferenze e la miseria provocate dal recente conflitto, la fisicità ostentata e procace della “Lollo”, della “rivale” Sophia Loren, di Silvana Mangano ed Eleonora Rossi Drago è comune denominatore di una geografia del Bel Paese che si sta parcellizzando in regioni e città ben precise (pensiamo solo ad alcuni titoli di film molto rappresentativi di quel periodo: Le ragazze di Piazza di Spagna di Luciano Emmer, 1952, La provinciale di Mario Soldati, 1953, La romana di Luigi Zampa e L’oro di Napoli di Vittorio De Sica, entrambi del 1954). Nata il 4 luglio 1927 a Subiaco, in provincia di Roma, da un produttore di mobili che cade in disgrazia dopo aver perso tutti i suoi averi a seguito di un bombardamento anglo-americano, la Lollobrigida inizia a frequentare da ragazza l’istituto di Belle Arti di Roma, dove la famiglia si Gina Lollobrigida 2trasferisce nel 1944. Per mantenersi agli studi, ma anche per ferma volontà di affermarsi, Gina si propone come attrice nei fotoromanzi (con lo pseudonimo di Diana Loris) e comparsa a Cinecittà, ma la grande occasione arriva nel 1947 con il concorso di Miss Italia, in cui si classifica al terzo posto dopo Lucia Bosè e Gianna Maria Canale. È il trampolino di lancio per il successo: dal piccolo ruolo (non accreditato) in Lucia di Lammermoor di Piero Ballerini - nel 1946 - l’attrice inizia a lavorare a ritmo serrato per autori importanti, tra i quali, Luigi Zampa (Campane a martello,1949, e il già citato La romana), Carlo Lizzani (Achtung, Banditi!, 1951), Christian Jaque (Fanfan la Tulipe, 1951). Nel 1952 il regista francese René Clair la sceglie per interpretare una particina nel film Le belle della notte: da qui la carriera della Lollobrigida inizia ad assumere un respiro internazionale. Per l’ex ragazza di Subiaco si spalancano le porte di Hollywood, dove ha occasione di recitare accanto ai divi più famosi e affermati dell’epoca: da Humphrey Bogart a Yul Brinner, da Sean Connery a Rock Hudson, Burt Lancaster, Anthony Quinn, Frank Sinatra. Le produzioni cinematografiche a cui partecipa sono firmate da grandi registi: tra i molteplici esempi, Il tesoro dell’Africa di John Huston (1953), Trapezio di Carol Reed e Il gobbo di Notre Dame di Jean Delannoy (entrambi del 1956), Salomone e la regina di Saba di King Vidor (1959), Venere imperiale di Jean Delannoy (1962). Con La donna più bella del mondo di Robert Z. Leonard (1955), che ricostruisce, romanzandola, la vita del soprano Lina Cavalieri, Gina Lollobrigida offre una prova molto efficace del suo talento canoro, vincendo l’appena istituito David di Donatello come migliore attrice protagonista. In Italia, l’acme del suo successo viene raggiunto nel 1953 con il personaggio della Bersagliera, la maliziosa e avvenente fanciulla di Pane amore e fantasia di Luigi Comencini che fa innamorare di sé l’attempato maresciallo dei carabinieri Antonio Carotenuto (Vittorio De Sica). La Lollo vince il Nastro d’argento, il film, invece, l’Orso d’argento al Festival di Berlino e viene candidato agli Oscar nella categoria Miglior soggetto. Nel 1954 esce sugli schermi Pane, amore e gelosia - sempre di Comencini e con la ritrovata coppia De Sica-Lollobrigida - che riscuote il medesimo successo del primo capitolo; tuttavia, l’attrice rifiuta di girare il terzo, nel 1955 e viene sostituita da Sophia Loren. La carriera della Lollobrigida prosegue ricca di successi per molti anni: in età più matura, nel 1972, riveste i panni della Fata Turchina in Le avventure di Pinocchio, film per la televisione che le offre la possibilità di tornare a lavorare con Luigi Comencini. Verso la metà degli anni Settanta la diva si concede con maggiore riluttanza alla macchina da presa, dedicandosi, invece, a tre sue grandi passioni: il giornalismo (nel 1973 intervista in esclusiva il leader Fidel Castro), la fotografia (nel suo carnet ci sono tra gli altri, David Cassidy, Salvador Dalí, Ella Fitzgerald, Audrey Hepburn, Henry Kissinger e Paul Newman) e la scultura, con esposizioni in Cina, Francia, Qatar, Russia, Spagna, Stati Uniti. Nel 1984 la Lollobrigida partecipa ad alcune puntate del serial americano Falcon Crest, mentre nel 1986 è sul set di Love Boat. Nel 1988 accetta di interpretare il ruolo della madre della protagonista in La Romana di Giuseppe Patroni Griffi, remake dell’omonimo film da lei interpretato nel 1954. Il 2 febbraio del 2018 le viene dedicata una stella sulla celebre Hollywood Walk of Fame di Los Angeles. Negli ultimi anni è sempre più rarefatta la presenza della Lollo sia nel mondo della settima arte che della televisione: quest’ultima la ospita ripetutamente per raccoglierne le memorie cinematografiche e di vita, che comprendono anche l’amicizia con Marilyn Monroe e un duro lavoro su se stessa per apprendere il più possibile dalle star che la circondavano: «Dal momento in cui decisi che avrei voluto fare carriera nel mondo del cinema, ho guardato quanti più film possibile. Li guardavo e riguardavo, imparando dagli errori degli attori meno bravi e delle mie icone preferite, Bette Davis, Katharine Hepburn e Lilli Palmer».

Barbara Rossi

da diaricineclub_082.pdf

Intervista a FRANCESCO VONA regista di Esperienza

FRANCESCO VONA esperienza filmMANIFESTO 0:

Com'è nata l'idea di "Esperienza"?

FRANCESCO VONA:

"Esperienza" nasce da un’idea che avevo da tempo: volevo realizzare un film che avesse un carattere introspettivo, fatto di silenzi ed atmosfere, ma soprattutto che fosse chiuso in sé stesso, nichilista, ermetico e criptico. Già il titolo Esperienza, un termine dai molteplici significati, ne anticipa il carattere introverso e silenzioso, difatti il ritmo del film è decisamente statico, quasi immobile, apatico, una sorta di stato comatoso della protagonista e di conseguenza dello spettatore. Lo trovo molto elegante come concetto da proporre nel cinema omologato di oggi, ma so che non è un film affatto facile da seguire.

MANIFESTO 0:

Scegliendo di realizzare un thriller/horror (se tale si può cercare di definire) senza sangue, che al posto della suspance usa contrariamente un ritmo politicamente avverso allo standard dei blockbuster statunitensi non ti ha fatto sorgere dubbi o preoccupazioni nel momento in cui il film avrebbe incontrato un pubblico abituato ad altro?

FRANCESCO VONA:

No, non ci ho mai pensato.

Il cinema è una forma d’arte e come tale ha il diritto e, da un certo punto di vista, anche il dovere, di proporre qualsiasi stato percettivo ed emotivo, anche quelli più ostici.

"Esperienza" si basa sulla catatonia, sulla paranoia e sull’alienazione; concetti difficili sia da assorbire sia da interpretare, ma che possono ancora essere presenti nel cinema odierno se vogliamo continuare a considerarlo una forma d’espressione.

Non avevo preoccupazioni. Sapevo che "Esperienza" non è un film facile da seguire, ne sono sempre stato cosciente. 

MANIFESTO 0:

Quali sono stati i caratteri determinanti nel processo di realizzazione dell'accuratissima realizzazione del tappeto sonoro? 

FRANCESCO VONA:

Insieme al compositore, Jacopo Bimbi, abbiamo lavorato a lungo per ottenere un tappeto sonoro minimalista, così come lo è tutto il film, che avesse una personalità propria. I suoni infatti, non hanno lo scopo tipico di accompagnare le immagini, ma sono parte integrante e attiva della storia. Una sorta di metalinguaggio sonoro.

Ne sono molto soddisfatto. La colonna sonora è talmente complessa che potrebbe addirittura essere un’opera a sé stante all’interno del film e i suoni realizzati da Jacopo mi piacciono moltissimo perché riescono a immergermi ogni volta in quell’atmosfera alienante che volevo proporre.

MANIFESTO 0:

In fase di produzione e distribuzione come ti sei comportato? Immagino che entrambe le strade non siano state facili, ma piene di difficoltà, specialmente per chi opera nell'indipendente..

FRANCESCO VONA:

Quando ho cominciato a scrivere la sceneggiatura di "Esperienza" sapevo che avrei incontrato grosse difficoltà a trovare un produttore, quindi ho optato per una sceneggiatura che si potesse produrre anche con un minimo sforzo economico.

Insieme a Gabrio Contino, il DOP, ho formato una troupe di giovani professionisti che hanno accettato di prendere parte al film.

Dopo aver finalmente trovato un’attrice, Loredana De Luca, che fosse in grado di dare forti emozioni con il solo aiuto della propria espressività, ci siamo rinchiusi tutti quanti al Carlton Hotel a Chianciano Terme, in chiusura invernale, ospitati da uno dei gestori più fantastici che abbia mai incontrato, e siamo rimasti lì dentro per cinque settimane. Sono stato fortunato: il meccanismo di produzione è stato inaspettatamente perfetto, e sul set ho lavorato con un’armonia e una coesione che raramente ho visto su un set di un lungometraggio. La fase di ricerca della distribuzione invece è stata piuttosto rapida. Sapevo che proiettarlo al cinema era fuori discussione, perché è un circuito troppo complesso ed esclusivo, inoltre richiede conoscenze che io non ho, quindi mi sono dedicato fin da subito all’home video. Alla CG Entertiment si sono mostrati subito interessati, forse anche grazie al premio come migliore opera prima vinto al Terra di Siena Film Festival, e dopo un periodo relativamente breve il film è stato distribuito.

MANIFESTO 0:

Cosa ne pensi del cinema italiano?

FRANCESCO VONA:

Al cinema italiano purtroppo manca il coraggio.

In generale facciamo bei film, ma abbiamo solo due tipologie di cinema: drammatico o commedia. Non c’è altro, non esiste nient’altro e con il tempo siamo diventati noiosi e ripetitivi: se vado a vedere un film drammatico so cosa aspettarmi e lo stesso vale per una commedia, a cominciare dai nomi degli attori. Ci servirebbe un po’ più di audacia, in modo da creare, come in tutti gli altri paesi europei, un’industria cinematografica che sia in grado di realizzare film di genere.


da https://emme0mzero.wixsite.com/manifesto0/esperienza

 

Monicelli, l'addio di un grande

Mario Monicelli regista 1Quali nuovi progetti ha in mente?  "Ormai non mi sento più creativo. Non intendo esserlo. Nel mio mestiere ci sono tanti giovani che vogliono raccontare il loro tempo - spero, almeno, che ci siano - ma non dispongono dei mezzi per farlo. Non voglio che, vedendomi lavorare ancora a un film, mi mandino a dire: 'Stia calmo, si metta tranquillo, si riposi'".  In che modo lei, da giovane, si accostò al cinema? C'erano precedenti familiari?  "In un certo senso sì. Mio padre, prima della Grande Guerra, fondò una rivista di cinema, 'In Penombra', che raccontava al pubblico questa nuova forma espressiva: le immagini in movimento. All'epoca non ero ancora nato. Poco più tardi, dal 1920 in poi, mia madre, che aveva cinque figli, quasi ogni pomeriggio prendeva me e mio fratello Franco, d'un paio d'anni più grande di me, e ci portava al cinema. Passavamo mezza giornata in quelle sale fumose, sporche, affollatissime, con gente seduta per terra.

Mario Monicelli regista 2Donne che allattavano i bambini fissavano le scene che passavano sul lenzuolo. Era come se in sala si esibisse una seconda compagnia d'arte. Si faceva il tifo per i 'nostri' che stavano arrivando, si difendeva la ragazza innocente e si condannava quella 'perversa', s' inveiva contro il traditore e il nemico. Ci si commuoveva. Si gioiva. Si urlava e piangeva con molto rumore. Posso dire di non aver mai visto film più sonori dei film muti. Ne ero conquistato".

Il sonoro stava comunque per arrivare: diciamo, fra il '29 e il '30.
"Essendo io del 1915, per lungo tempo mi sono abbeverato a quegli spettacoli. Di fronte agli occhi di un pubblico ingenuo transitavano vicende tenere, romantiche, pietose, allegre, crudeli. Per gustarle non era necessario conoscere alcuna lingua, nemmeno la propria. Fluttuava per l'aria un linguaggio universale. Come la musica".

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Ma spostiamoci nel dopoguerra. Per lungo tempo la commedia all'italiana, veniva ufficialmente considerata spazzatura. Poi ha trionfato anche in sede critica. Perché?
"I primi ad apprezzare quei film furono i francesi. Li trovavano realistici, polemici, sferzanti. Fu l'inizio d'una consacrazione. Oggi siamo addirittura al panegirico: un'esagerazione".

Come considera i padri del cinema italiano: Rossellini, De Sica, Visconti. Chi fra loro ha frequentato più da vicino?
"De Sica. Oltre che un regista celebre era un ottimo attore. L'ho diretto in due o tre film".

È meglio Fellini o Antonioni?
"Sono così diversi. Ma una preferenza personale ce l'ho: Antonioni. Vorrei aver fatto i film che ha fatto lui: 'L'avventura', 'Blow Up', 'Professione reporter'".

Ci sarà qualche mostro sacro del cinema mondiale che non la entusiasma.
"Ingmar Bergman, un grande regista di pellicole odiose. Racconta in maniera magistrale una società miserabile, depravata. Si specchia nell'alta borghesia del nord Europa, che è del tutto priva di pietà sociale".
Mi ricordi gli attori più grandi con i quali ha lavorato.

"Oltre a De Sica, Sordi, Mastroianni, Gassman, Tognazzi, Claudia Cardinale, Monica Vitti. Ne dimentico qualcuno?".

Uno dei meriti della commedia all'italiana è di aver trasformato attori drammatici in personaggi, appunto, da commedia.
"Anche a me è capitato di farlo. Prima di diventare quel pugile suonato e un po' sbruffone dei 'Soliti ignoti', Gassman si esibiva nel grande teatro. Al cinema faceva il cattivo, l'Antagonista. Ricorda 'Riso amaro'? La Vitti, che era stata con Antonioni un'interprete dell'incomunicabilità aggrappandosi spesso alle tende, nella 'Ragazza con la pistola' diventò una donna sedotta e abbandonata che vuole vendicarsi. Liv Ullmann, quella dei film di Bergman, quando nell'85 la chiamai per 'Speriamo che sia femmina' quasi non riusciva a crederci".

Si sa che Mario Monicelli non si è mai innamorato d'una sua attrice. Come ci è riuscito?
"Ho fatto per molti anni l'assistente alla regìa. Vedevo a quali guai si esponevano i registi quando gli capitava di mettersi con un'attrice. Gelosie non tanto sentimentali quanto d'immagine, di presenza, di locandina e manifesto. Dio ce ne guardi. Mi sono astenuto. Ci sono donne bellissime anche fuori dello spettacolo".

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Un estratto dall'intervista 'Mondo Monicelli' di Nello Ajello, pubblicata su  'L'Espresso' n. 19 del 14 maggio 2009

Stanley Kubrick: genio e sregolatezza

Ricordo di un geniale, visionario e immaginifico regista a vent’anni dalla scomparsa. “Le sue opere sono tra i più importanti contributi alla cinematografia mondiale del Ventesimo secolo” (Michel Ciment). “Amato o odiato, Stanley Kubrick è forse l’unico regista della vecchia generazione, quella di Orson Welles per intenderci, che è riuscito a fare esattamente ciò che voleva fare con il cinema in un sogno megalomane e solitario di onnipotenza. “ (Marco Giusti).

Stanley Kubrick 1Stanley Kubrick muore e va in Paradiso. Anche Steven Spielberg è appena morto (è solo un exemplum fictum, ché il grande regista è vivo e gode di buona salute) e viene accolto dall’Arcangelo Gabriele, che gli dice: - “Dio ha apprezzato moltissimo i tuoi film e vuole esser certo che ti troverai bene qui da noi. Per qualsiasi cosa tu abbia bisogno, chiamami pure.” E Steven: - “Vedi, mi piacerebbe tanto incontrare Stanley Kubrick. Pensi di poterlo fare?”. Gabriele lo guarda e fa: - “Ma Steven, con tutte le cose che potevi chiedermi, perché proprio questa? Lo sai che Stanley odia i meeting”. - “Ma tu mi avevi detto che per qualsiasi cosa...”- “Mi dispiace davvero, ma questo non mi è possibile.” Così, Gabriele lo accompagna in giro per il Paradiso e a un certo punto Steven vede un tizio con la barba, capelli lunghi, una divisa militare e scarpe da tennis, che se ne va in giro in bicicletta. Allora Steven dice a Gabriele: -“Mio Dio, guarda, quello è Stanley Kubrick! Possiamo salutarlo?!?...”. Gabriele prende da parte Steven e gli dice: - “Ma no! Quello non è Stanley Kubrick; è Dio! Dio che crede di essere Stanley Kubrick!...”.

Stanley Kubrick 2Questa barzelletta, che non si sa come nacque, ma che fu raccontata a Kubrick da Matthew Modine (l’attore protagonista di Full Metal Jacket), a Kubrick piaceva moltissimo. E non c’è da meravigliarsi, se si considera la sua personalità: megalomane, maniaco della perfezione, ingegnoso, oltre che – specie negli ultimi anni, quando dalla nativa New York si trasferì in Inghilterra – paranoico, misantropo, ossessionato dalla propria “privacy” e dal desiderio di vivere isolato nella sua fattoria; anche se – come dice Peter Bogdanovih – molti amici lo consideravano, al contrario, sereno, divertente ed affettuoso. In ogni caso, stiamo parlando di un grande maestro del cinema, di un genio, di cui ricorre il ventennale della scomparsa, essendo nato a Manhattan / New York (Usa) il 26 luglio 1928, e morto ad Harpeden (Regno Unito) il 7 marzo 1999, all’età di 70 anni. Ricordiamo, en passant, titoli come Orizzonti di gloria, Spartacus, Lolita, Dr. Stranamore, 2001 Odissea nello spazio, Arancia Meccanica, Shining, che sono entrati nell’immaginario collettivo della gente (non solo dei “cinefili” e degli “addetti ai lavori”) e impreziosiscono la sua filmografia, composta solo da 13 titoli, che, però, hanno lasciato tutti una traccia indelebile nella storia del cinema mondiale.
Stanley Kubrick giovaneKubrick ebbe una personalità eclettica, poliedrica: fu regista, direttore della fotografia, montatore, scenografo, creatore di effetti speciali, ecc.; ma anche un bravissimo fotografo, con cui iniziò la sua carriera prima di passare dietro la macchina da presa. E fu un perfezionista ai massimi livelli: basti pensare che seguiva i suoi film interamente, in tutte le fasi della produzione, che faceva ripetere una scena della quale non era soddisfatto anche centinaia di volte (Tom Cruise e Nicole Kidman ne sanno qualcosa relativamente al suo ultimo film, Eyes Wide Shut; e vi furono attori, anche famosi, che esasperati dalla sua meticolosità, abbandonarono il set a riprese iniziate e dovettero essere sostituiti); inoltre, seguiva le sorti dei suoi film anche nei vari Paesi in cui uscivano, quindi – praticamente – in tutto il mondo, occupandosi perfino del doppiaggio. Ecco perché, quando si dice “un film di Stanley Kubrick”, parliamo davvero di un’opera che è tutta sua, interamente sua!... Una caratteristica che contraddistingue la sua breve, ma intensa carriera è la sua abile capacità di reinventare, reinterpretare secondo la sua visione del mondo tutti i “generi” cinematografici: i “film di guerra”, con il suo primo lungometraggio, Paura e desiderio (Fear and Desire, 1953), film sulla psicologia dei soldati in guerra, in bilico tra follia ed orrore, e prima metafora filosofica sulla realtà drammatica della guerra, che, però, Kubrick detestava, ritenendolo un immaturo esercizio di stile, “noioso e pretenzioso”; stupendo, invece, Orizzonti di gloria (Pants of Glory, 1957), prodotto ed interpretato da Kirk Douglas, film anti-militarista e pacifista, che si svolge nelle trincee francesi della grande guerra (anche se, per il divieto della Francia, è girato in Germania); e Full Metal Jacket (1987), che, invece, fa vedere la drammatica crudeltà della guerra attraverso l’intervento armato degli Americani nel Vietnam.
Stanley Kubrick 3Ed ancora: il “noir”, con Il bacio dell’assassino (Killer’s Kiss, 1955); il “thriller”, con Rapina a mano armata (The Killing, 1956), incentrato stilisticamente sulla frammentazione narrativa, in cui non viene più seguito l’ordine cronologico, temporale, di svolgimento delle azioni (anticipando, in tal modo, il Tarantino de Le Jene, di Pulp fiction e di altri suoi film); il “peplum”, con un ”kolossal” come Spartacus (1960, tratto dall’omonimo romanzo di Howard Fast), una delle produzioni più imponenti di Hollywood, con un budget di 6 milioni di dollari, divenuti, alla fine 12 (quindi, esattamente il doppio dell’investimento preventivato), che si avvale dell’interpretazione di un cast eccezionale di attori (Kirk Douglas, Jean Simmons, Tony Curtis, Laurence Olivier, Peter Ustinov, Charles Laughton, Woody Strode, John Gavin ed altri) e che vinse un “Golden Globe” e ben 4 Premi Oscar (Scenografia, Fotografia, Costumi, Migliore Attore Non Protagonista Peter Ustinov); la “commedia nera” o “dramma” che dir si voglia, con lo “scandaloso” (per quei tempi) Lolita (1962), tratto da un romanzo di Vladimir Nabokov, con James Mason, Sue Lyon e Shelley Winters; la “satira politica”, con Il Dottor Stranamore, ovvero come ho imparato a non preoccuparmi e ad amare la bomba (Dr. Strangelove…, 1968, dal romanzo Red Alert di Peter George), interpretato da un eccezionale Peter Sellers (che dà vita a diversi personaggi); la “fantascienza”, con lo stupendo (e, quando uscì, poco capito) 2001 - Odissea nello spazio (2001: A Space Odissey, 1968), riflessione “filosofica” sul significato stesso dell’esistenza, sulla natura dell’uomo nella sua evoluzione e sul suo futuro in rapporto con l’universo che ci circonda, che si avvale di una serie di avveniristici “effetti speciali”, da lui stesso realizzati (insieme con Douglas Trumbull) e così ben congegnati che coloro i quali, ancora oggi, ritengono che l’uomo non abbia mai messo piede sulla luna, attribuiscono alla maestrìa di Kubrick le scene dell’allunaggio e del paesaggio lunare (e fu l’unica “categoria” per la quale Kubrick vinse un Premio Oscar; il film, nel 1969, ha vinto anche Stanley Kubrick 4il “David di Donatello” come migliore film straniero); memorabile la sequenza iniziale in cui, con un salto di millenni, nell’ellissi più ardita della storia del cinema, l’osso lanciato in aria da uno scimpanzé si trasforma in un’astronave, che si libra, quasi danzando, nello spazio, accompagnata dalle musiche di Strauss (notevole l’influenza delle musiche scelte, in genere dal repertorio classico, che accompagnano tutte le opere di Kubrick); il soggetto era dello scrittore di fantascienza Arthur C. Clarke, basato sul suo racconto La Sentinella; ma Kubrick lo stravolse a tal punto che Clarke, dopo l’uscita del film, ne trasse un suo romanzo, in cui, in maniera meno ermetica rispetto all’opera cinematografica, spiegava il significato e l’assunto del racconto; ricordiamo, inoltre, che il film è stato restaurato nel 2018, a cinquant’anni dalla sua uscita nei cinema, proposto a Cannes ed uscito di nuovo nella sale, per le “nuove generazioni, che si spera l’abbiano adeguatamente apprezzato; il genere, per così dire, “sociologico”, con un altro film “cult”, come Arancia meccanica (Clockwork Orange, 1971, dal romanzo di Anthony Burgess), che fu perfino proibito in alcuni Paesi per l’impatto e l’influenza negativa che avrebbe potuto avere sulle giovani generazioni; il film “storico”, in costume, con l’immaginifico e scenografico Barry Lyndon (1975), che si svolge in un Settecento, di cui Kubrick, con la meticolosa preparazione che sta alla base delle sue opere, ha studiato i quadri, i paesaggi, la musica, dando vita ad un’opera in cui nulla è lasciato al caso (basti pensare che gli interni sono davvero girati a lume di candela, senza il supporto di altre luci, grazie alle super-luminose ottiche avute dalla Nasa e dalla Zeiss); l’”horror” con Shining (1980), rivisitazione geniale di un romanzo di Stephen King, in cui tre soli personaggi (marito, moglie e figlio), chiusi nell’ambiente circoscritto di un hotel, in seguito allo svilupparsi degli eventi e alla crescente follia del protagonista (un superbo Jack Nicholson), riescono a creare negli spettatori un profondo senso di inquietudine, un’atmosfera da incubo; il “dramma psicologico”, con Eyes Wide Shut (1999, dal romanzo Doppio sogno di Arthur Schnitzler), ultima, ermetica, ma suggestiva opera del grande Maestro.

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dall'articolo di Nino Genovese per DiariCineclub_071

40 anni fa Profondo Rosso Dario Argento: “Bellissima storia scritta d’un fiato”

Profondo rosso dario argentoProfondo rosso 40 anni dopo. Il capolavoro di Dario Argento uscì nelle sale il 7 marzo 1975 e il thriller italiano non fu più lo stesso. L’immaginario e le coordinate di quel racconto di suspense e paura girato in pochi mesi (settembre-dicembre 1974) fanno ancora oggi scuola per chi anche solo lontanamente si avvicina al genere. Profondo rosso spaventa sempre lo spettatore, da qualsiasi latitudine esso provenga. È un dato di fatto. Nel novembre scorso al festival di Torino per la proiezione speciale del film nessun gridolino davanti alla sequenza di David Hammings nel corridoio degli specchi, nessuna risata di fronte ai più macabri e sanguinolenti omicidi di molti protagonisti del film, ma solo mani davanti agli occhi e salti sulla poltroncina. Probabile che nel #ProfondoRossoDay che si svolgerà a Torino per l’intera giornata di sabato 7 marzo 2015 le reazioni saranno le stesse. La copia del film restaurata digitalmente verrà proiettata alle 20 e alle 22 al cinema Massimo sala tre, mentre durante il giorno all’interno dell’Aula del Tempio della Mole Antonelliana, dove a sede il Museo del Cinema, potranno essere visionati materiali di scena originali, locandine, fotobuste, libri e riproduzioni di oggetti scenici di Profondo Rosso. Tra i cimeli da non perdere la mannaia dell’assassina Clara Calamai e il tavolo dove trova la morte Glauco Mauri, entrambi realizzati da Germano Natali.

Profondo rosso dario argento 1“Mentre giravo quel film sapevo esattamente ciò che volevo”, spiega Dario Argento al fattoquotidiano.it. “Ero molto rilassato, non sentivo lo stress. E poi la storia è bellissima. L’ho scritta in pochi giorni tutta d’un fiato. Fu miracoloso. Basta guardare un film per capire come sta il regista nel momento in cui l’ha girato”. Sua la sceneggiatura di Profondo Rosso, sua la regia, sua la scelta dei Goblin e della filastrocca nenia di Giorgio Gaslini come leitmotiv terrificante della presenza dell’assassino, sue le mani che stringono colli, accoltellano, spingono teste contro gli spigoli dei caminetti per spappolare dentature e crani: “Ho seguito il mio istinto – continua Argento – anche per il titolo che, per molto tempo, prima delle riprese e a sceneggiatura già finita con attori pronti a girare, non c’era. Prima ho sviato la stampa dicendo che si sarebbe dovuto intitolare La tigre con i denti a sciabola, poi mentre ero in macchina mi è venuto in mente Profondo Rosso. Ai produttori della CineRiz non piacque, dissero che era sbagliato, suggerivano al massimo Rosso Profondo. Per fortuna che m’impuntai”.

Sul set del film, girato in alcuni studi di posa ed esterni a Roma, ma soprattutto in memorabili esterni notte a Torino – si veda la sequenza del primo omicidio in piazza C.L.N. con tanto di baretto alla Hopper ricostruito in un angolo -, Argento conobbe l’attrice Daria Nicolodi e se ne innamorò: “È il film più bello di Dario”, racconta al fattoquotidiano.it Gabriele Lavia, nel film è Carlo l’amico del protagonista Marc/David Hemmings. “Nella regia si avverte qualcosa in più, una strana cosa che credo sia l’amore, quello di Dario per Paura profondo rosso dario argentoDaria”. L’attore di origine siciliana che proprio in quegli anni interpretò parecchi titoli thriller e horror (Zeder di Avati e ancora Inferno di Argento) ricorda con affetto il set di Profondo Rosso: “Mi alzavo alle 6 del mattino a Milano per girare lo sceneggiato tv Marco Visconti e alle 17 arrivava una Lancia della produzione di Dario per portarmi a Torino sul set del film. Giravamo sempre di notte e per almeno una settimana credo di non aver mai dormito – continua Lavia -. La scena in piazza CLN fu molto complessa e spettacolare. Venne usato un innovativo dolly Chapman lasciato in Italia da una produzione americana. Comunque Profondo Rosso è davvero bello, e lo posso dire da poco tempo perché il film non l’ho mai voluto vedere se non pochi anni fa assieme a mia figlia”.

Numerosi gli aneddoti di scena del film che ultimamente si possono ritrovare anche nel libro autobiografico di Dario Argento, Paura, edito da Einaudi. Tra i tanti, come l’uso di cocaina sul set o la microcamera snodabile Snorkel per carrellate ravvicinate sugli oggetti, ne va ricordato uno davvero singolare: dopo aver tolto l’intervallo durante Quattro mosche di velluto grigio, Argento non volle che si entrasse in sala a Profondo Rosso iniziato. La paura è un sentimento che va servito per bene, senza troppe distrazioni, perché come l’oramai 75enne regista romano ha sempre raccontato: “Finché là fuori c’è una persona da spaventare potrò dirmi una persona felice”.

di Davide Turrini per ilfattoquotidiano.it

Ermanno Olmi: Il mio film sulla Prima Guerra Mondiale è un inno alla pace

Ermanno Olmi grande guerraErmanno Olmi ha voluto vere facce da freddo per 'Torneranno i prati', film sulla guerra del '15-'18 che ha appena finito di girare. E così, invece di utilizzare uno studio, si è esposto a quasi 83 anni al gelo della neve dell'Altopiano dei Sette Comuni (Asiago, Vicenza) per girare una sola notte di trincea. Ma oggi sul set del film il regista vola su tutti i temi: onestà, coraggio, disubbidienza e aggiunge: "Vorrei che questo film fosse più che bello, soprattutto utile contro la guerra".

Tutto si svolge su l'altopiano innevato dei Sette Comuni dove sono state ricostruite due trincee, una a circa 1.100 metri d'altezza e una ancora più in alto, a 1.800 metri in località Dosso di Sopra, Val Formica. Creato e scritto dallo stesso Olmi, interpretato da Claudio Santamaria, Jacopo Crovella, Andrea Di Maria, Francesco Formichetti, Camillo Grassi e Niccolò Senni, racconta una storia realmente accaduta. Riconosciuto di Interesse Culturale con il sostegno del Ministero per i Beni Culturali e con il sostegno della Presidenza del Consiglio dei Ministri è stato realizzato nell'ambito delle celebrazioni del Centenario della Prima Guerra Mondiale.

In 'Torneranno i prati', prodotto da Cinema Undici e Ipotesi Cinema con Rai Cinema, tutto parte dai ricordi di un vecchio pastore, chiamato 'Toni matto' che visse da giovane soldato i combattimenti della prima guerra mondiale. Combattimenti avvenuti là dove da anziano fa pascolare i suoi animali e da bambino aveva giocato e vissuto. "Vorrei che più che un bel film sia un film utile. Un film che ci faccia chiedere - dice Ermanno Olmi - perchè questa guerra mondiale è accaduta. Le versioni ufficiali su queste cose non sono mai davvero credibili. Così, a 100 anni di distanza, il miglior modo di festeggiarlo è capire quello che è successo come capire perché oggi si parli ancora di conflitti". Per il regista de 'Il mestiere delle armi' ci sono ancora "nubi burrascose.

Nubi che preludono a un conflitto mondiale, ma ce la faremo". E aggiunge: "Ognuno di noi può fare qualcosa per evitare la guerra. L'onestà dovrebbe essere un dovere e tutti dovrebbero praticarla perchè le cose vadano avanti meglio. Chi non sopporto proprio sono quelli che non vanno a votare, perchè non capiscono quanto è stato doloroso per molti conquistare questo diritto". La storia, quella vera, aggiunge Olmi, "è quella raccontata da anonimi. Da persone che sono soli dati anagrafici. Non quella raccontata dagli scrittori famosi".

Del film, costato 3,5 milioni di euro per 7 settimane di riprese e girato in condizioni ambientali spesso avverse, Olmi tiene riservata la trama. Solo alla fine rivela che in 'Torneranno i prati' che si svolge nell'autunno del 1917 poco prima di Caporetto (24 ottobre), ci sarà un atto di disobbedienza: "Quello di un alto ufficiale e quello di un soldato semplice. La disubbidienza è giusta - dice il regista -.
Questi due personaggi, infatti, fanno valere la propria coscienza sulle esigenze militari. La disubbidienza in questo caso è un atto morale che diventa eroicità quando si porta avanti fino alla morte".

E, sempre riguardo alla guerra, Olmi aggiunge citando Einstein: "Non possiamo pensare che lo cose cambino se noi tutti continuiamo a fare le stesse cose". Mentre per quanto riguarda il suo ritorno dietro la macchina da presa, dopo che aveva annunciato nel 2007 il suo ritiro, dice: "a questo impegno non potevo sottrarmi. Raccontare la prima guerra mondiale in cui anche mio padre aveva partecipato come bersagliere e mi faceva capire, in memoria della guerra, come fosse importante anche un boccone avanzato".
La guerra comunque, aggiunge: "non è un'epidemia ma a volte è una cosa che nasce da piccole difficoltà, bisogna dunque cominciare a lavorare su sè stessi per evitare che ce ne siano ancora. 'Torneranno i prati', ormai in postproduzione (sarà pronto solo in autunno), potrebbe a tutto diritto partecipare al prossimo Festival di Venezia mentre per quello di Cannes i tempi sarebbero davvero ristretti.

Spaghetti Story: Ciro De Caro dai corti al film

Spaghetti story Ciro De CaroQuattro “giovani adulti” dei nostri tempi, alle prese col Problema dei nostri tempi: la crisi. Il regista quasi loro coetaneo Ciro De Caro racconta con originalità e spirito scanzonato una storia in cui i trentenni d’oggi possano riconoscersi, con un sorriso amaro che sfocia spesso in risata. E si avvale coerentemente di attori poco conosciuti e di un budget pressoché simbolico. Valerio è un attore ventinovenne, che non riesce a trovare ruoli all’altezza del suo idealismo e delle sue aspirazioni e quindi accetta frustranti impieghi part-time. Il suo amico Scheggia vive ancora con la nonna, e cerca di nobilitare la sua attività di pusher con un pragmatismo simpatico che annacqua l’amoralità delle sue scelte. Serena persegue un dottorato e tenta invano di sondare se anche il suo compagno Valerio voglia mettere su famiglia. Giovanna, la sorella di Valerio, continua a prestargli soldi rimproverandolo per la sua inconcretezza, e fra una stancante seduta e l’altra di massoterapia coltiva il sogno di diventare chef di cucina cinese.
Quattro “giovani adulti” dei nostri tempi, alle prese col Problema dei nostri tempi: la crisi. Il regista quasi loro coetaneo Ciro De Caro racconta con originalità e spirito scanzonato una storia in cui i trentenni d’oggi possano riconoscersi, con un sorriso amaro che sfocia spesso in risata.
E si avvale coerentemente di attori poco conosciuti e di un budget pressoché simbolico, dimostrando che un film per vedere la luce necessita solamente dell’urgenza di essere realizzato. I continui jump-cut sembrano sottolineare stilisticamente le aspettative puntualmente abortite dei quattro personaggi, che nell’arco della storia compiranno, insieme e individualmente, un’evoluzione e, forse, avranno più chiara la direzione da prendere. Perché quando un quinto personaggio più sfortunato di loro, una prostituta cinese, incrocerà le loro vite, ognuno capirà se temporeggiare ancora o autoresponsabilizzarsi.
Nella solida sceneggiatura si alternano siparietti gustosi con coppie di personaggi antitetici: Valerio e Scheggia in primis. L’uno ingenuo, l’altro spensieratamente cinico, formano un duo collaudato, con tempi comici perfetti e dialoghi esilaranti quanto veritieri. La scena in cui Scheggia accompagna Valerio a un provino, per esempio, riesce a divertire ritraendo realisticamente la situazione lavorativa attuale: per fare carriera, più della professionalità e della competenza, pagano la disinvoltura e la sfacciataggine. Così, quando Valerio snocciola le sue esperienze teatrali con registi dal nome pretenzioso a un regista che ostenta la propria noia, non possiamo fare a meno di ridere e arrabbiarci.
Allora perdoniamo anche il finale vagamente buonista, che allevia la frustrazione di immedesimarci con tanta facilità in personaggi perennemente in bilico.  (da sentieriselvaggi.it)

Di seguito l'articolo di Francesco Persili per Dagospia

Solo posti in piedi. Ma fuori c'è ancora gente, che si fa? Aggiungi un posto in sala. Uno, due, tre. Alla fine, si aggiungerà un'intera fila di sedie color nostalgia. Come fossimo in qualche nuovo cinema Paradiso o in una arena estiva. E, invece, siamo al cinema Aquila di Roma, in mezzo alla bohème del Pigneto, in fuga da tombolate e calcio inglese ché è pur sempre il 26 dicembre, ad aspettare l'inizio di ‘Spaghetti Story', il film indipendente sui trentenni di oggi che qui ha battuto anche il cinepanettone dei record.

Come sia possibile che una commedia generazionale ‘costata come un'utilitaria' diventi un piccolo caso cinematografico è qualcosa da cercare in quella formula magica chiamata passaparola. Sold out all'Aquila e al Tiziano (l'altro cinema di Roma in cui il film viene proiettato), il numero degli spettacoli quotidiani raddoppiati fino al 2 gennaio, applausi in sala che nemmeno alla prima di Ritorno al Futuro, un blabla che non è più circoscritto alla scena off. Una sorpresa anche per il regista, Ciro De Caro, quello di ‘Salame milanese', che nel 2011 ha passato 6 mesi a scrivere il suo primo lungo e poi ha impiegato 11 giorni per girarlo.

spaghetti story

Dopo averlo portato in giro per il mondo (Mosca, Rekyavik), adesso officia con il resto del cast tutti gli spettacoli. E coglie ogni occasione per ribadire che il film è ‘no budget' e di come ‘la mancanza di mezzi può diventare un'opportunità' prima di cercare la didascalia giusta per una commedia che è stata celebrata perfino in Russia dall'Izvestia come ‘una boccata d'aria fresca'. Una storia contemporanea - spiega De Caro - che racconta un modo tutto italiano di fare le cose: semplice ma non privo di creatività, appassionato e popolare. Alla portata di tutti, come un piatto di spaghetti, appunto. Spaghetti way of life.

spaghetti story

Una pellicola che si tiene lontano dagli orizzonti di boria e dalle velleità pseudo-intellò dei noiosissimi circuiti alternativi: il sospetto di un crepuscolarismo due camere e cucina viene tenuto a bada da una comicità perfido- romanesca che attenua il drammone esistenziale di questi 4 trentenni in cerca d'autore: il pusher post-pasoliniano ‘Scheggia' imbottito di Tavor e realismo (Cristian Di Sante), l'aspirante attore senza arte, né parte (Valerio Di Benedetto) con annessa fidanzatina che sogna un bambino e la famiglia (Sara Tosti), la massoterapista chef (Rossella D'Andrea).

spaghetti story

‘Giovani, carini e disoccupati in salsa capitolina', ma nemmeno troppo. Neorealismo sfig e vena ‘malincomica', autoironia e difetti speciali, lagne e magagne di una combriccola di giovani adulti. Non senza forzature: così dopo il Coso di Argentero (vedi ‘Un Boss in salotto') anche qui c'è un altro trentenne irrisolto che fugge le responsabilità e si ritrova a giocare la sera col trenino: psyco-commedia all'italiana.

SPAGHETTI STORY

Dopo la proiezione, segue ancora dibattito. Non sono solo demi-monde cinematografaro e artistoidi in ordine sparso, tra gli spettatori molte persone comuni che incalzano i protagonisti. "Ma sei un attore vero? E se non sei attore, che fai?", chiedono a ‘Scheggia'. "Non faccio il pusher, tranquillo", replica lui, con ironia. "E' un film anche per i bambini?". "Sì, nel gatto della fortuna non c'è la droga ma il Nesquik"...

spaghetti story

Battute, dialogo senza rete, risate. Poi c'è ancora tempo per qualche rivelazione del regista sulla selezione degli attori, a partire dalla strepitosa ‘nonna' incontrata a Trastevere e convinta con un cesto di frutta', e sul montaggio, ‘volutamente imperfetto'.

Mentre sulla scelta di ridurre la profondità di campo, arriva impietoso il contrappunto popolare: ‘Ahò, io faccio er tassinaro, mi diverto a riconoscere i posti in cui viene girato un film ma stavolta non c'ho capito ‘na mazza'...

Regia: Ciro De Caro
Interpreti: Valerio Di Benedetto, Cristian Di Sante, Sara Tosti, Rossella D’Andrea, Deng Xueying, Tsang Wei Min
Origine: Italia, 2013
Distribuzione: Distribuzione Indipendente
Durata: 82’

I quindici cortometraggi mai girati

Giorgio ScerbanencoQuindici cortometraggi per la tivù. Da girare a colori tra Roma e dintorni, benché la Rai di allora trasmettesse ancora rigorosamente in bianco e nero. Gli spunti li forniva la cronaca nera ma ancor più il costume dell’epoca, con temi che ormai avevano fatto irruzione nell’Italia post-boom di fine Anni Sessanta: la moda, la grande distribuzione commerciale, gli sport d’élite, il turismo, la stessa televisione.  Per quanto possa sembrar strano Giorgio Scerbanenco, il padre del noir italiano, autore strettamente legato all’immagine della mala milanese e agli orizzonti polizieschi della costiera adriatica veneto-romagnola, stava per dare una svolta romana alla sua carriera di scrittore. E soprattutto, dopo aver avuto rapporti controversi con il cinema, aveva deciso di puntare tutto sulla televisione, di cui aveva intravisto le grandi potenzialità narrative. 

Lo conferma la figlia dello scrittore, Cecilia, che in occasione del festival letterario Grado Giallo, parlerà proprio del rapporto fra il padre e il piccolo schermo. Un rapporto appena abbozzato, che si interruppe il 27 ottobre del 1969 a causa della prematura morte dell’autore di origine ucraina.  «Papà credeva molto nel mezzo televisivo – sottolinea Cecilia Scerbanenco, che sta curando una monumentale biografia sul padre – Dopo tanti anni trascorsi nel mondo della carta stampata, fra giornalismo ed editoria, forse aveva voglia di cambiare. Anzi, stava pensando di lasciare Milano e trasferirsi a Roma proprio per seguire meglio questo progetto televisivo e altre iniziative legate al cinema».

Difficile per i fan immaginare uno Scerbanenco che abbandona i navigli e la nebbia delle periferie milanesi per far muovere i suoi cupi personaggi in riva al Tevere. Eppure, per lui, sarebbe stato un ritorno a casa, nella città dove visse fino all’età di quindici anni dopo una travagliata e traumatica infanzia russa (il padre fu ucciso nel corso della rivoluzione sovietica).  

Benché a Roma avesse trascorso gli anni dell’adolescenza, Scerbanenco non vi ambientò mai nessuno dei suoi numerosissimi romanzi a sfondo noir. «La Capitale compare solo in due titoli degli Anni Quaranta - conferma la figlia - Opere di genere “rosa”, non certo poliziesco: Si vive bene in due e Quando ameremo un angelo». 

Nel 1969 l’incontro con il produttore cinematografico Gigi Martello convinse Scerbanenco a rimodulare la sua produzione letteraria. E soprattutto a dare una svolta televisiva alla sua carriera di scrittore. Il progetto «Televisione a colori» era già definito e le quindici sceneggiature pronte per essere girate. I soggetti originali si trovano ora nell’archivio della biblioteca civica di Lignano Sabbiadoro, la cittadina friulana che l’aveva «adottato» e dove vive la figlia.  

Fitte pagine di appunti scritti a mano, forse al Bar Gabbiano, di fronte al mare, dove Scerbanenco trascorreva le sue mattinate. E poi ricopiati dall’autore con la macchina per scrivere.  

Quindici sceneggiature con titoli che portano l’inconfondibile marchio del maestro del noir: A Fregene col cadavere, Come uccidere una giornalista, Supermorte al supermercato, All’Olgiata si muore meglio, Requiem per un cavallo, La clinica che uccide, Allah a Fiumicino, I milioni delle Mantellate.  

La narrazione è volutamente scarna, sincopata, sommariamente descrittiva come si conviene a una sceneggiatura. Ma i lettori di Scerbanenco vi riconosceranno senza difficoltà lo stile dell’autore di Venere privata e I milanesi ammazzano il sabato. Ecco un breve estratto dalla sceneggiatura di A Fregene col cadavere:  

«Antonio e Cristina sulla Mercedes, che vagano per Fregene. La povera Maria Giovanna è sempre nel baule. Sole, sole e frenesia di corpi e di nudo anche per la strada. Antonio: Ti ho detto che adesso vado dai carabinieri e gli consegno la ragazza. Io sono solo un ladro, non voglio aver niente a che fare con gli assassini. Cristina: ma ti mettono in galera per trent’anni. Antonio: Spero di no. Tu scendi e torna al tuo ente provinciale del turismo, scemetta – le fa una carezza, mentre lei ha una smorfia di pianto, e quasi la butta fuori dalla macchina. Poi Antonio riparte subito, MdP (macchina da presa, ndr) inquadra Cristina dall’alto, Cristina diviene sempre più piccola».  

«Il muso della Mercedes adesso corre in un vialetto secondario, sullo sfondo si vede una targa: Carabinieri. Antonio guida deciso verso la caserma dei carabinieri, deciso a confessare tutto pur sapendo che saranno mesi e mesi di galera, se va bene, se no forse anni. Un uomo all’improvviso gli sbarra la strada. È Michelone che girella per Fregene alla ricerca della “sua” Mercedes, e ora l’ha vista. Antonio è costretto a fermarsi, Michelone sale, impugna la rivoltella, la punta contro Antonio – Vai senza storie. Dove hai trovato questa Mercedes? Sulla strada da Macconese (sic, probabilmente si tratta di Maccarese, ndr) a qui, a Fregene? Hai per caso guardato nel baule? Sì – Antonio sussulta per la rivoltella che Michelone gli affonda nel fianco. E cosa hai trovato? Una ragazza morta. È Maria Giovanna, ne parlano tutti i giornali... Bravo, sei informato. Adesso mi aiuterai a sistemare la ragazza...».

di Giorgio Ballario per lastampa.it

Intervista con Cristina Comencini: “Essere donne nel cinema non è facile, ma non si può fermare il cambiamento”

Sabato, 26 novembre, all’apertura di Verso Sud, il festival di cinema italiano di Francoforte, la proiezione serale era dedicata all’ospite d’onore di quest’anno. Ogni edizione il festival decide di approfondire l’opera di un grande autore o autrice del nostro paese.

Questa volta si tratta di Cristina Comencini, regista tra le più apprezzate anche all’estero come testimonia la candidatura all’Oscar nel 2006 con il film la Bestia nel cuore e i cui film purtroppo in Germania sebbene sia conosciuta e riconosciuta, non sempre hanno trovato un distributore per le sale.

Abbiamo avuto il piacere di incontrarla poco prima della proiezione del suo film Latin Lover, uscito nel 2015.

Ai tavolini del Filmmuseum iniziamo un’intervista che si trasforma in una breve e rilassata conversazione. Le domande di rito sulla sua impressione riguardo a Francoforte e alla Germania sono una pratica sbrigata in fretta. Ci dice che a Francoforte è la prima volta ma è appena arrivata: “ho visto solo una grande e bella città, tutta natalizia”. In Germania invece non è la prima volta, è stata a Berlino che, si capisce, le piace molto: “Sono stata a Berlino per La bestia nel cuore, che ha anche vinto un premio, quindi diciamo che ho un buon rapporto col pubblico tedesco. Vorrei conoscerla di più, mi piace molto”.

La presenza nel cuore della Germania è occasione per discutere, se non della città, almeno della sua impressione sulle differenze “cinematografiche” con l’Italia. Ci dice che “il festival di Berlino è un festival molto impegnato. C’è una differenza forse a livello popolare. Ho la sensazione che ci sia una grande organizzazione molto buona per il cinema d’essay e per i festival, ma poi a livello popolare invece vada più il cinema americano. Noi invece abbiamo un cinema popolare, il nostro cinema è stato storicamente un cinema popolare anche se ha avuto un calo”. Ci fa notare così che questa è un’arte che ha bisogno di rinnovarsi continuamente, così se vogliamo trovare una ragione  alla diminuzione degli spettatori di film italiani avanza l’ipotesi che poi ribadirà anche alla fine della proiezione, quando risponde alle domande del pubblico “io ho l’impressione che in Italia abbiamo fatto troppe commedie, le produzioni hanno visto che funzionavano e ne abbiamo fatte tantissime” e poi di nuovo sollecitata ammette il dubbio che “se in Germania il cinema francese riesce a venire distribuito e quello italiano no, non è perchè manca l’interesse ma forse perchè qualcuno sbaglia a promuovere i nostri film all’estero“.

Ci chiediamo se non sia anche un problema di regolamentazione. Altri, sempre nel contesto del festival del cinema italiano ci hanno esposto lamentele, non particolarmente originali, sull’inefficienza del sostegno delle istituzioni all’arte cinematografica e soprattutto alla sua diffusione. “Io sono contro le lamentele” taglia corto, “hanno appena passato una legge, da poco, che dovrebbe riordinare un po’ le cose, ora stiamo a vedere. Io sono contro il lamento, la mia filosofia è quella di capire cosa anche in noi cineasti non funziona”.

Poi il discorso verte abbastanza velocemente sul tema delle relazioni tra donne e uomini nella nostra società. “Al cinema le donne si sono avvicinate molto tardi, perché è un lavoro di comando, è sempre stato un lavoro maschile”.

Traccia poi un parallelo con la letteratura, l’altra sua grande passione. Cristina Comencini infatti è anche scrittrice, l’ultimo suo libro è Essere vivi e poi è anche autrice di teatro alcune di esse da lei stessa trasposte sul grande schermo. “In letteratura le donne hanno iniziato ad essere presenti già nell’Ottocento. Nel cinema dobbiamo ancora fare questo lavoro. D’altronde la storia delle donne è una storia millenaria. È una trasformazione epocale, è la prima volta nella storia.”

Il tema è affrontato nell’opera di Cristina Comencini, anche nel film proiettato quella sera stessa. La questione di genere però non è un semplice oggetto da spulciare, ma parlando con l’autrice, emerge in maniera chiara che si tratti di qualcosa di più. Come una cornice generale che permette e pervade il suo lavoro, non come semplice scelta: “Il cinema rispecchia la società e quando nella società le donne riprendono la scena, aumentano anche i film girati da donne. Ma non è che le donne debbano affrontare solo questioni ‘da donne’. Io penso che lo sguardo femminile sia su tutto”.

Ne ha anche per gli uomini, soggetti evaporati – come si sente dire a volte – un po’ come il Latin Lover del film, morto e idealizzato che da “fantasma” continua a condizionare le vite dei suoi amori e delle figlie tramite un’immagine di cui egli stesso è in parte imprigionato. Un film la cui lettura più volte, anche dopo la proiezione, la regista identifica e rimanda alla rappresentazione e all’omaggio al grande cinema italiano del passato, ma che si presta facilmente per essere letto come uno smascheramento della figura classica del latin lover.

“Io credo che siamo arrivati ad un punto in cui le donne non possono più andare avanti da sole. Siamo ad un punto in cui non c’è avanzamento se non con gli uomini. Gli uomini devono fare un lavoro su di sé che ancora non è cominciato. Gli uomini dicono che son solidali con le donne ma è come se non volessero vedersi”. L’idea è che le donne che sempre di più acquisiscono sicurezza e potere non solo impauriscono l’uomo ma ne scatenano la reazione.

Ma le cose stanno cambiando: “Avanza lentamente una cosa gigantesca e ci vuole del tempo. E non si torna indietro mai” ci dice. Riporta un ricordo di uno dei fratelli Taviani, “Una volta durante un dibattito uno dei fratelli Taviani mi disse: “Cristina la verità è che un po’ di sangue deve scorrere” cioè le cose cambiano ma non possono farlo morbidamente”. Ci vorrà del tempo.

Alessandro Grassi

di Alessandro Grassi  per https://ilmitte.com/

IL MESTIERE DI SCRIVERE SECONDO MURAKAMI

Uno scrittore è un po’ come l’E.T. del film di Steven Spielberg. Quando deve costruire una ricetrasmittente improvvisata per ricollegarsi con i confratelli va in un ripostiglio e assembla creativamente quel che trova: un ombrello, una lampada a piede, dei piatti, un giradischi. Un romanzo si può costruire in un modo analogo, con uno stock di buon ciarpame. La qualità degli ingredienti non è molto importante, quel che conta è avere accumulato un gruzzolo di dettagli concreti e peculiari, quelli che attirano la nostra attenzione, tanto meglio se inspiegabili. Occorre collezionare questi frammenti, metterci un’etichetta e chiuderli in un’apposita cassettiera mentale, da dove la memoria si incarica di ricuperarli e utilizzarli al momento giusto. Ad animarli penserà la magia, quella non può mancare. “Si possono utilizzare rozzi materiali d’uso quotidiano, semplici parole disadorne, ma se c’è la magia, riusciamo a creare un apparecchio sorprendentemente raffinato”, o almeno efficace.
Così parlò Murakami Haruki, il più occidentale e il più tradotto dei narratori giapponesi, l’autore di Norwegian Wood, Kafka sulla spiaggia e 1Q84, best-seller mondiale e oggetto di culto (molti suoi adepti dichiarano di adorarlo anche se non sanno spiegare perché, ma a lui va benissimo così, tenendo in sovrano disdegno la critica togata, che talvolta è arrivata a dargli del venditore di fumo). La notizia è che uno scrittore ombroso e riservato, che non ama la socialità e fa di tutto per non apparire, che rifiuta festival e sedute di firma-copie, vive autorecluso e si rallegra quando al ristorante non solo non lo riconoscono ma gli danno anche il tavolo peggiore, si sia deciso a parlare di sé, con abbondanza di dettagli autobiografici, e addirittura del Mestiere di scrittore, come suona il titolo del volume ora tradotto in italiano da Antonietta Pastore per Einaudi (pp.190, euro 18,00). Dove più che di letteratura e di tecniche narrative si finisce per parlare di precetti per vivere in sano equilibrio tra corpo e mente. Perché l’E.T. nipponico è un maratoneta convinto e praticante (ne ha corse a decine), un cultore di triathlon, uno che tutti i giorni corre o nuota per almeno un’ora. Scrivere, dice, è un pratica lenta e faticosa, che richiede pazienza, determinazione, energia, come qualsiasi altro lavoro usurante. La buona condizione fisica è indispensabile alla forza morale e spirituale, quella che ti fa superare i dubbi, le critiche feroci, gli insuccessi, gli amici che ti voltano le spalle. Kafka, anche se morto a quarant’anni di tisi, era vegetariano, nuotava ogni giorno nella Moldava per un miglio e faceva lunghe sedute di ginnastica. (Ma come faceva il povero Proust, tormentato dall’asma?).
Le scuole di scrittura si moltiplicano (numerosi i giovani scrittori che, arrivati al secondo libro, si sentono autorizzati all’insegnamento), continuano a uscire volumi che dispensano buoni consigli sul “come si fa”. Ancora recentemente sono state edite, con tanto di annesso cd audio, le classiche, insuperabili lezioni di Peppo Pontiggia, in cui il gran lombardo dispensa amabilmente il suo sapere (Dentro la sera. Conversazioni sullo scrivere, Belleville editore, pp. 320, euro 21,00). Guido Conti è ricorso al magistero dei classici. In Imparare a scrivere con i grandi antologizza i big per dimostrare come si affrontano i problemi legati agli incipit, alla trama, a stile e forma, montaggio e ritmo, colpi di scena e generi, da Puskin e Cechov a Jack London e a Carver (Bur, pp. 550, euro 15,00).
Murakami batte tutt’altre strade. Stile, forma, scrittura non gli interessano più che tanto. Sembra accentrare la sua attenzione su tutto quello che precede l’atto dello scrivere, sulle condizioni esistenziali che fanno scattare la scintilla. Per lui scrivere romanzi non richiede un’intelligenza superiore, solo un livello minimo di talento, istruzione, e conoscenze. E la pazienza che ci vuole per costruire navi in bottiglia. Un lavoro non poi molto dissimile da altri che si compiono ripetitivamente nel chiuso di una stanza, giorno dopo giorno. Tutto il contrario dell’immagine romantica dell’artista maledetto, bohémien, incline alle droghe, gran bevitore e donnaiolo, che finisce per autodistruggersi. Il suo ideale è il metodico Anthony Trollope, lo scrittore inglese dell’Ottocento che lavorava alle Poste e continuò a farlo anche dopo il successo, inventando la famosa cassetta rossa per imbucare la corrispondenza. Ma anche Kafka, scrupoloso impiegato delle Assicurazioni Generali, ramo infortuni sul lavoro, apprezzato dai colleghi per il suo puntiglio. Lo diceva già Flaubert: “Siate borghesi nella vita per essere rivoluzionari nell’arte”.
Al romanzo Murakami arriva sui trent’anni. Prima si è sposato, e a prezzo di pesanti sacrifici ha aperto un locale a Tokyo dove faceva ascoltare musica jazz e serviva caffè e alcolici. Un giorno porta da casa un vecchio piano verticale che suonava da ragazzo e nei weekend fa un po’ di musica live. Sin da piccolo adorava la lettura, dai classici russi agli hard boiled americani. Poi nel 1978 durante una partita di baseball una sorta di folgorazione. Una voce interiore gli annuncia di avere accumulato le energie interne necessarie per cominciare a scrivere. In un’altra occasione, ha anche detto di essere stato ispirato dalla pallina di un flipper, dai suoi scatti imprevedibili, emblema delle traiettorie capricciose che incrociano i destini degli uomini. Palla da baseball o flipper che sia, si attacca a una vecchia Olivetti e comincia a darci dentro. Portare a termine il primo romanzo breve, Ascolta la canzone del vento, è stata una fatica improba, confessa. Nessuna idea di come scriverlo, nessun indirizzo programmatico. Semplicemente un procedere per tentativi, un “raccontare le cose come le sentivo, come le avevo nella testa, liberamente, come più mi piaceva”
Incomincia a scrivere in inglese, che non padroneggia nemmeno tanto bene, perché vuole esprimersi in un linguaggio essenziale, togliendo tutto il grasso superfluo. Capisce la cosa fondamentale: bisogna trovare il ritmo giusto, congeniale, quello che definisce uno stile personale: “una narrazione che vada dritta al punto senza divagazioni, con descrizioni precise ma non contemplative”.
Scrivere rientra allora qualcosa di assai vicino al fare musica: “Mantenere il ritmo, trovare begli accordi, credere nella forza dell’improvvisazione” . Trovare l’originalità che si impone, quella stessa che aveva colpito lui ragazzo ascoltando per la prima volta Please please me dei Beatles o Surfin’ USA dei Beach Boys, e sapendo che si può non essere accettati subito, basti pensare allo sconcerto che nel 1913 accolse La sagra della primavera di Stravinskij o alle stroncature della musica di Mahler, definita “triste, brutta, incompleta e circonvoluta”.
Come arrivare all’originalità? Bisogna soddisfare alcuni criteri di base. Prima cosa, distinguersi dagli altri ed elaborare uno stile unico e immediatamente riconoscibile. Secondo punto, migliorare quello stile, farlo evolvere, non accontentarsi dei risultati raggiunti. Terzo, con il passare del tempo diventare fonte d’ispirazione per le generazioni che seguono. Come diceva il poeta polacco Zbigniew Herbert, “per arrivare alla sorgente bisogna nuotare risalendo la corrente. A scendere galleggiando sull’acqua è solo la spazzatura”. Conseguentemente, Murakami rigetta le tradizionali categorie di avanguardia o retroguardia, destra o sinistra, letteratura pura o di intrattenimento. Uscito dalla generazione delle rivolte studentesche fine anni 60 ha sviluppato una forte avversione al sistema, da cui si è sempre chiamato fuori.
Come diceva Thelonius Monk, non potendo piacere a tutti, meglio piacere a se stessi, almeno uno si diverte. Più che sul divertimento, Murakami sembra però insistere sulla fatica operaia che la scrittura comporta. Per arrivare a configurare uno stile riconoscibile occorre procedere per sottrazione, fare piazza pulita dei troppi carichi, perché la sovrabbondanza di contenuti finisce per provocare ingorghi. Capire cosa è necessario e cosa non lo è, per lui è facile: bisogna provare piacere, una sorta di allegria naturale e spontanea, l’impulso a trasmettere a un gran numero di persone un sentimento di libertà, una gioia che non conosce restrizioni. Se questa eccitazione virtuosa non si produce, meglio tornare al punto di partenza e ripensare tutto. La domanda da farsi non è “Che cosa sto cercando?”, quanto piuttosto: “Prima di cercare qualcosa, come sono fatto io?”. La scrittura può e deve diventare autoanalisi per essere in grado di trasmettere al lettore l’emozione primigenia, lo stupore e la grata meraviglia con la quale accogliamo le opere che cambiano la nostra percezione del mondo.
Torna l’idea pirandelliana dei personaggi che, una volta creati, se ne vanno poi per conto loro e fanno quello che vogliono. Torna l’idea dello scrittore sciamano, che si lascia attraversare da flussi di sensazioni e di immagini che sgorgano dalle profondità dell’inconscio e riproducono il flusso ingovernabile dell’esistenza. La porta tra mondo reale e mondo fantastico è sempre aperta, e Murakami la attraversa quando vuole, in sovrana libertà. L’onirico e il surreale dei mondi alternativi si nutrono di dettagli realistici anche minimi, creando quei cortocircuiti mentali che sconcertano e affascinano i suoi lettori: si sentono sempre sul punto di risolvere il mistero, e ne rimangono ogni volta esclusi. Ma l’avrà contata giusta, il maratoneta maniaco-depressivo (parole sue) giustamente restio a parlare di sé, perché sono sempre le opere che devono dire quel che c’è da dire? Non è che questi precetti a metà tra il fitness e le illuminazioni iniziatiche sono un modo, molto gentile e molto giapponese, per depistarci e difendere ancor meglio il proprio diritto alla privacy? Diavolo d’un uomo ordinato, controllato e metodico, non lo sapremo mai.


Articolo di Ernesto Ferrero per “Sette/Corriere della sera”, 24 febbraio 2017

Haruki Murakami è stato tradotto in circa cinquanta lingue e i suoi best seller hanno venduto milioni di copie. Le sue opere di narrativa si sono guadagnate il consenso della critica e numerosi premi, sia in Giappone che a livello internazionale, come il premio World Fantasy (2006), il Frank O'Connor International Short Story Award (2006), il Premio Franz Kafka (2006) e il Jerusalem Prize (2009).  Fra i suoi titoli più celebri si ricordano Nel segno della pecora (1982), Norwegian Wood (1987), L'uccello che girava le viti del mondo (1994-1995), Kafka sulla spiaggia (2002) e 1Q84 (2009–2010). da wikipedia.org

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