"Al fine di fornire la migliore esperienza online questo sito utilizza i cookies". Elimina i cookie

"Al fine di fornire la migliore esperienza online questo sito utilizza i cookies".

Utilizzando il nostro sito, l'utente accetta il nostro utilizzo da parte dei cookie. Scopri di più

Accetto
Cookie: ora obbligatorio il consenso attivo

Una sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea ha stabilito che tutti siti web devono ottenere il consenso esplicito degli utenti all’utilizzo dei cookie del sito in cui entrano. Cosa cambia per gli utenti? Che gli utenti devono attivarsi nella scelta di condivisione dei propri dati di utilizzo del sito. E che detto consenso deve essere dato dall'utente all’accesso dei cookie prima della loro memorizzazione ovvero ogni utente deve decidere cosa il sito può memorizzare, obbligandolo quindi a leggere e scegliere da un lungo elenco di cookie quali selezionare e quali deselezionare. Tutto da fare prima che il sito memorizzi i dati personali dell'utente.

Per l’installazione di cookie è necessario il consenso attivo degli utenti di Internet. Una casella di spunta preselezionata è pertanto insufficiente.

In termini tecnici occorre utilizzare l'opt-in. L'Opt-in descrive il consenso preventivo ed esplicito dato da un individuo a ricevere informazioni da una società, di solito di natura commerciale. Un esempio tipico è quando un visitatore del sito compila il modulo della newsletter per accettare di ricevere le email dal sito.

Il nostro sito non ha mai chiesto e mai chiederà informazioni come l'email per inviare informazioni di tipo commerciale, tutto al più di natura informativa gratuita che si riferisca al mondo dei cortometraggi.

QUI le Linee guida 5/2020 sul consenso ai sensi del regolamento (UE) 2016/679

 

IlCorto.eu

Incontri ed Interviste

5 caratteristiche dei film di John Carpenter

film di John CarpenterSai che stai guardando un film di John Carpenter quando... Non si diventa iconici come John Carpenter quando si tratta di cinema di genere. Il lavoro di genere di Carpenter negli anni '70, '80 e fino agli anni '90 è stato magistrale. Film iconici come Halloween, Fuga da New York e La cosa hanno consolidato la sua reputazione non solo come maestro dell'horror e della suspense contenuti e di piccole dimensioni, ma anche come pioniere della fusione di generi con la sua miscela di motivi di azione, horror, thriller e fantascienza.

Leggi tutto: 5 caratteristiche dei film di John Carpenter

Zoe Vitale: Come ho imparato ad amare i film Horror

Amare i film Horror Perché ti piace così tanto l'horror? Abbastanza per provare a farne la tua carriera? Perché vorresti guardare cose che sono tanto spaventose, cruente o dolorose? Perchè ti piace guardare tutto sulla tortura? Immagino sia per te più positivo se lo fai conoscere attraverso la tua scrittura, o no?

Leggi tutto: Zoe Vitale: Come ho imparato ad amare i film Horror

Le Fotografie di Leo Fuchs

Leo Fuchs Special Photographer from the Golden Age of HollywoodPer 30 anni, Leo Fuchs ha fotografato le più grandi star di Hollywood: icone come Paul Newman, Sean Connery, Shirley MacLaine, Frank Sinatra, Marlon Brando, Cary Grant. Collaboratore di importanti riviste, Fuchs ha immortalato la vita dei divi sui set cinematografici e nella vita privata. Questa retrospettiva include ritratti di celebrità come Rock Hudson, Doris Day, Gregroy Peck, Audrey Hepburn e molti altri ancora. Nel 2010 è stata pubblicata una raccolta di sue fotografie: Leo Fuchs: Special Photographer from the Golden Age of Hollywood.

Leggi tutto: Le Fotografie di Leo Fuchs

IL GIARDINO DEI FINZI CONTINI - Ricordo di Manuel De Sica

il giardino dei finzi contini film 3Una sera d'inverno del lontano 1968, venne a far visita un mio ‘quasi' parente (suo padre era stato marito della mia nonna materna), Fausto Saraceni, allora produttore esecutivo della Documento Film di Gianni Hecht Lucari, recante sotto il braccio il romanzo Il Giardino dei Finzi-Contini di Giorgio Bassani. Ricordo quel primo approccio a cui fui anch'io accolto, data la ‘familiarità' dell'ospite, come un momento memorabile. Il piccolo studio di papà si riscaldò di un'aura diversa dal solito, intensa, presagente qualcosa di grande importanza. Saraceni propose a mio padre la direzione del film tratto da quel libro.

Leggi tutto: IL GIARDINO DEI FINZI CONTINI - Ricordo di Manuel De Sica

Come 5 sceneggiatori hanno avuto la loro occasione di diventare famosi

quentin tarantino 02I famosi sceneggiatori che stanno scrivendo alcuni dei film più famosi di Hollywood non hanno avuto un successo immediato quando hanno deciso di intraprendere il loro viaggio come sceneggiatori. Come tutti gli sceneggiatori, provenivano da percorsi di vita diversi con anni e anni di lotte. Anche se conoscere il loro processo e le curiosità dietro le quinte dei loro famosi progetti può essere utile e darti un punto di riferimento generale da perseguire, ciò che è più stimolante è imparare cosa hanno dovuto sopportare per arrivare dove sono oggi. Qui presentiamo cinque scorci delle prime vite di alcuni degli sceneggiatori più richiesti e acclamati di oggi.

Leggi tutto: Come 5 sceneggiatori hanno avuto la loro occasione di diventare famosi

Filmografia di PIETRO FRANCISCI

Firenze a Primavera 1936 di Pietro FrancisciRegista cinematografico, nato a Roma il 9 settembre 1906. Dotato di padronanza tecnica e sicuro nella messinscena, PIETRO FRANCISCI si affermò nel secondo dopoguerra legando il proprio nome al genere mitologico all'italiana, cui diede uno straordinario impulso realizzando nel 1958 Le fatiche di Ercole, tratto da un suo soggetto liberamente ispirato alle Argonautiche di Apollonio Rodio e sceneggiato dal regista con Ennio De Concini e Gaio Fratini. Avvicinatosi al cinema da dilettante, dopo la laurea in giurisprudenza Pietro Francisci cominciò a lavorare come regista di documentari, debuttando nel 1934 con Sinfonie di Roma.

Leggi tutto: Filmografia di PIETRO FRANCISCI

"Capii soltanto allora che cosa volesse dire Regia" (di Giuseppe Rotunno)

Giuseppe Rotunno e la RegiaIniziai a lavorare in Senso dopo una breve esperienza con Visconti come operatore alla macchina in un episodio con la Magnani — Anna — del film Noi donne. Il rapporto cominciò mettendo subito in chiaro certi aspetti del nostro carattere. Si girava al Teatro Sistina ed io arrivai tardi sul posto di lavoro. Avevo viaggiato tutta la notte proveniente da Venezia, dove stavo girando un documentario sul Carpaccio e dove Aldó [Aldo Graziati] mi aveva chiamato con urgenza, essendo egli stesso sollecitato all'ultimo momento da Visconti per terminare le riprese di quell'episodio.

Leggi tutto: "Capii soltanto allora che cosa volesse dire Regia" (di Giuseppe Rotunno)

Charlie Chaplin ha detto

"Parecchi intervistatori mi hanno chiesto dove vado a prendere le idee per i miei film, e ancora oggi non sono in grado di dare una risposta soddisfacente. Col passare degli anni ho scoperto che le idee vengono quando se ne ha un intenso desiderio; a forza di desiderare, la mente diventa una specie di osservatorio sempre all’erta per cogliere gli incidenti capaci di stimolare l’immaginazione."

Addio a Francesco Nuti, attore , regista, produttore, scrittore, sceneggiatore, musicista

Francesco Nuti attore regista sceneggiatoreEra il pomeriggio di Natale. L’anno, il 1994. Verso le cinque. Squilla il telefono di casa. Era il centralino del giornale per il quale lavoravo. “Le passo una chiamata”. “Oh! Giornalista!”. Era la voce di Francesco Nuti. “Non t’è piaciuto, i’ mi’ film?”. Il film era “OcchioPinocchio”: il film realizzato da Francesco Nuti fra mille difficoltà, girato negli Stati Uniti, con le spese lievitate oltre ogni previsione. Non succede quasi mai, che un regista ti chiami a casa. Il pomeriggio di Natale, poi. “No, Francesco, ci sono delle cose belle, nel film, ma altre che…”. Rimanemmo a parlare mentre il tramonto si faceva crepuscolo, e il crepuscolo si faceva sera. “Ma io ce l’ho messa tutta, vedi, il film costa tanti soldi perché doveva essere bello, il più bello di tutti…”.

Leggi tutto: Addio a Francesco Nuti, attore , regista, produttore, scrittore, sceneggiatore, musicista

Intervista con Kristina Reed, produttrice dell'Animazione Disney e vincitrice di 2 Oscar con i suoi Cortometraggi

Kristina Reed è produttrice da oltre 20 anni di animazione ed effetti visivi per lungometraggi, cortometraggi, pubblicità e attrazioni nei parchi a tema. Negli ultimi 7 anni, ha fatto parte dello Studio Leadership Team dei Disney Animation Studios, la squadra di dirigenti e produttori che ha progettato la completa reinvenzione creativa, culturale e finanziaria della divisione. I suoi cortometraggi, Paperman e Feast hanno vinto gli Oscar nel 2013 e nel 2015, e ha co-prodotto il premio Oscar Big Hero 6. 

Leggi tutto: Intervista con Kristina Reed, produttrice dell'Animazione Disney e vincitrice di 2 Oscar con i...

Intervista a Tonino Guerra

So che ti consideri, prima di tutto e innanzitutto, un poeta.  Puoi raccontarci come è nato l’interesse per la poesia?  È vero, io mi considero innanzitutto un poeta, per me il cinema è un gioco laterale anche se, a occhio e croce, penso di aver scritto una novantina di film, guadagnando molti premi e diverse nomination all’Oscar: Amarcord l’Oscar lo ha vinto. Per capire però bisogna sempre partire dal fatto che io sono stato prigioniero in Germania durante la guerra. Lo sono stato dall’agosto del 1944 all’agosto del 1945. Durante quest’anno di prigionia, gli altri prigionieri, che erano quasi tutti romagnoli, per superare quei momenti difficilissimi mi chiedevano la sera di raccontare qualche cosa, fossero storie o poesie.

Leggi tutto: Intervista a Tonino Guerra

SUSO CECCHI D’AMICO è la sceneggiatrice che ha scritto la STORIA DEL CINEMA ITALIANO

Federico Fellini Suso Cecchi dAmico e Luchino Visconti 1970Chiunque abbia un po’ di passione per il cinema italiano sa bene che dal Dopoguerra a metà anni Settanta c’è stato come un allineamento di pianeti che ha fatto sì che tutto filasse per il verso giusto. Non che dopo quel periodo non ci siano stati altri registi, sceneggiatori e attori meritevoli di aver portato la nostra tradizione cinematografica a vette molto alte, ma la fertilità di questa frangia di tempo è davvero unica e per il momento non ha avuto eguali. Non si trattava infatti solo di uno splendore settoriale, ma di una vera e propria miscela culturale che aveva luogo a Roma, città che all’epoca era ben lontana dall’essere chiamata in causa dal resto d’Italia quasi esclusivamente come esempio di disastro urbano. In via Veneto, la famosa strada de La dolce vita, intesa non solo come titolo del film più famoso di Federico Fellini ma come vero e proprio modus vivendi, c’erano diversi luoghi di aggregazione per cineasti, attori, scrittori, giornalisti, intellettuali, musicisti. La vita del bar, quella di posti come Rosati, era la base su cui cresceva florida la creatività di generazioni che hanno fatto sì che l’Italia diventasse un modello culturale da imitare e seguire per il resto dell’Occidente.

Leggi tutto: SUSO CECCHI D’AMICO è la sceneggiatrice che ha scritto la STORIA DEL CINEMA ITALIANO

Come scrivere un dramma erotico complesso come "Babygirl"

La sceneggiatrice e regista di "Babygirl", Halina Reijn, e la star Nicole Kidman parlano di come è nata questa bollente storia d'amore aziendale. Se un team creativo non fosse attento, un film sulla relazione bollente di un CEO di un'azienda tecnologica con un uomo più giovane potrebbe facilmente rischiare di scivolare nel territorio del banale thriller erotico. Ma la nuova uscita di "Babygirl" è una nuova esplorazione del sesso, del potere e dell'esaurimento di cercare sempre di essere all'altezza delle aspettative della società.

Leggi tutto: Come scrivere un dramma erotico complesso come "Babygirl"

Intervista al regista JOHN CAMERON MITCHELL

Hedwig and the Angry Inch 2001John Cameron Mitchell ha diretto, scritto e interpretato il personaggio principale del film Hedwig and the Angry Inch, un musical rock epico sulle prove e le avventure di un artista transessuale. Il suo lavoro è notevole in quanto ha successo a tutti i livelli; drammaticamente, comicamente, musicalmente e cinematograficamente. Il film è stato uno dei preferiti del concorso Sundance del 2001 e ha meritatamente vinto sia il premio del pubblico che il premio per il miglior regista esordiente. Il film presenta anche canzoni memorabili e contagiose scritte da Stephen Trask.

Leggi tutto: Intervista al regista JOHN CAMERON MITCHELL

Intervista con la sceneggiatrice di "Brokeback Mountain" DIANA OSSANA

Ossana, di origine italo-irlandese, è nata e cresciuta a St. Louis, Missouri. Nel 1992, su richiesta di Larry McMurtry, ha lasciato la carriera legale per iniziare una collaborazione di scrittura con Larry, che continua ancora oggi. Diana e Larry hanno ricevuto l'Oscar per la migliore sceneggiatura non originale per Brokeback Mountain (che hanno adattato da un racconto di Annie Proulx). Il film è stato diretto da Ang Lee.

Leggi tutto: Intervista con la sceneggiatrice di "Brokeback Mountain" DIANA OSSANA

Jenna Serbu: Uno sguardo alla sceneggiatura e regia di un Film Indipendente

Jenna Serbu è una sceneggiatrice, regista e artista visiva con sede a Los Angeles. Prima di dirigere, è stata scenografa e ha prodotto oltre 20 cortometraggi e innumerevoli spettacoli ed eventi teatrali, tra cui "Drunken Spelling Bee", finito nella sezione sportiva del London Guardian. Smartass è il suo primo lungometraggio.

Leggi tutto: Jenna Serbu: Uno sguardo alla sceneggiatura e regia di un Film Indipendente

Incontro con lo sceneggiatore premio Oscar GEOFFREY FLETCHER

Inizialmente lavorando con una videocamera e un cast di action figure (modelli snodabili giocattoli), Geoffrey ha iniziato a girare film da bambino. Dopo la laurea presso l'Università di Harvard, Geoffrey ha conseguito il MFA in regia cinematografica presso la Tisch School of the Arts della New York University. Ha anche lavorato come apprendista con Martin Scorsese e Spike Lee. Magic Markers, un cortometraggio scritto, diretto, girato e montato da Geoffrey, ha ricevuto riconoscimenti da numerose organizzazioni tra cui la Director's Guild of America e il Sundance Film Festival.

Leggi tutto: Incontro con lo sceneggiatore premio Oscar GEOFFREY FLETCHER

Intervista ad Anna Novion la regista di "Il teorema di Margherita"

La regista dimostra che il mondo molto particolare della matematica d'élite può far ridere e persino diventare una commedia romantica. "Non volevo cadere in un cliché o in una caricatura del genio matematico autistico".

Leggi tutto: Intervista ad Anna Novion la regista di "Il teorema di Margherita"

Intervista allo Sceneggiatore e Regista JOHN MILIUS

John Milius sceneggiatore registaJohn Milius è una leggenda di Hollywood. Con quasi 30 crediti cinematografici e televisivi come sceneggiatore, il suo lavoro di scriba più famoso è stato quello di scrivere Apocalypse Now (1979) di Francis Ford Coppola. Come sceneggiatore e regista, ci ha regalato drammi come Farewell to the King (1989), l'amato film epico sul surf Big Wednesday (1978) e il famigerato Red Dawn (1984), film che spesso avevano molto da dire sull'identità maschile. Eppure il suo contributo più duraturo alla cultura popolare potrebbe essere Conan il Barbaro (1982), che fa il miglior uso cinematografico della carne tesa e increspata di Arnold Schwarzenegger e che può vantarsi di essere l'unica versione del personaggio e dell'ambientazione di Robert E. Howard che arriva ovunque vicino alle storie pulp originali.

Leggi tutto: Intervista allo Sceneggiatore e Regista JOHN MILIUS

Il fashion designer Karl Lagerfeld, guida di Chanel, è stato anche un regista di Cortometraggi

Karl Lagerfeld registaLo sapevi che Karl Lagerfeld è stato anche un regista e ha disegnato i costumi di tantissimi film? Il genio creativo che ha guidato Chanel è stato protagonista di film e documentari. E ne ha disegnato i costumi! Karl Lagerfeld ci ha lasciati, ma il suo genio immortale resterà sempre con noi. Non solo nella storia del costume, ma anche in quella del cinema.

Leggi tutto: Il fashion designer Karl Lagerfeld, guida di Chanel, è stato anche un regista di Cortometraggi

Intervista allo sceneggiatore e regista JOHN MILIUS

John Milius è una leggenda di Hollywood. Con quasi 30 crediti cinematografici e televisivi come sceneggiatore, il suo lavoro di scriba più famoso è stato quello di scrivere Apocalypse Now (1979) di Francis Ford Coppola. Come sceneggiatore e regista, ci ha regalato drammi come Farewell to the King (1989), l'amato film epico sul surf Big Wednesday (1978) e il famigerato Red Dawn (1984), film che spesso avevano molto da dire sull'identità maschile. Eppure il suo contributo più duraturo alla cultura popolare potrebbe essere Conan il Barbaro (1982), che fa il miglior uso cinematografico della carne tesa e increspata di Arnold Schwarzenegger e che può vantarsi di essere l'unica versione del personaggio e dell'ambientazione di Robert E. Howard che arriva ovunque vicino alle storie pulp originali.

Leggi tutto: Intervista allo sceneggiatore e regista JOHN MILIUS

Intervista doppia ad ALESSIO FAVA e MARCO SCOGNAMIGLIO di Guido Del Duca

“Sono ancora in movimento, ancora in macchina sulla strada dove quelli che vanno piano sembrano vogliano bloccarti, quelli che vanno forte vogliano solo superarti. Ma io, anche questa notte, tengo la mia andatura”

Leggi tutto: Intervista doppia ad ALESSIO FAVA e MARCO SCOGNAMIGLIO di Guido Del Duca

SCHINDLER'S LIST di Steven Spielberg

SCHINDLERS LIST 0"Stop", urla Steven Spielberg un'ultima volta sui sette e poi, sfinito, si abbandona sulla macchina da presa. Quando la moglie, Kate Capshaw, abbraccia il regista, ormai prosciugato di ogni energia, sia fisica e psichica, un fotografo di scena cattura, in una sola immagine, il momento preciso in cui si comprime un'ossessione decennale: la realizzazione di "Schindler's List". 
Durante le riprese di "Schindler's List", Spielberg disse a un giornalista: "mai prima d'ora ho versato tante lacrime girando un film. E ho pianto non solo perché si trattava dell'Olocausto, ma anche perché io ero consapevole del fatto che tutto si è svolto nel luogo preciso in cui stavamo girando. Perché, quando si fa un film ad Auschwitz, si percepisce la presenza dello spirito dei morti".

Leggi tutto: SCHINDLER'S LIST di Steven Spielberg

Intervista a Michelangelo Buffa di Fabrizio Fuochi

Domanda: quali sono le origini del tuo lavoro con il cinema… della tua passione per il cinema.
M.B.: Le origini come tutte le origini è un pò incerta, inconsapevole direi e anche doppia. Da un lato la passione per la visione dei film per il cinema proiettato, che credo nasca dal fatto…Non lo so, in realtà non so da dove nasca questa passione. C’è stata si è sviluppata è stata travolgente, ma non
saprei dire l’origine è stata una passione istintiva immediata.
Mentre invece per quanto riguarda la ripresa credo che…di aver subito il fascino della machina, della meccanica, della meccanica dell’oggetto. La cinepresa come oggetto, credo che sia stato il motore di tutto. E certamente poi il piacere di riprendere, di filmare, però il piacere soprattutto di avere questa specie di motorino in mano  che ricreava la vita, era una sorta di mondo parallelo che veniva fuori dalla macchina
Domanda: ma c’è stato un momento particolare, per esempio ti hanno regalato…
MB:Certo, certo, si avevo circa quattordici anni è ho chiesto a mio padre di regalarmi una cinepresa, e così la scelsi ed era una piccola Bolex-Paillard 8mm a fuoco fisso che è stata per alcuni anni la mia cinepresa.
Poi in seguito me ne feci comprare un’altra sempre una Bolex-Paillard 8mm,
questa volta con lo zoom perché dovevo andare in Spagna e volevo filmare la corrida…e allora volevo lo zoom.
Domanda: Ma l’hai filmata dopo la corrida?
M.B.: Certo, certo.
Domanda: Bene… e poi dopo la corrida cos’è che hai continuato a filmare?
M.B.: Poi mi sono reso conto che la cinepresa stava diventando la compagna della mia vita, stava diventando il mio terzo occhio. Un occhio privilegiato con cui io guardavo il mondo, guardavo gli altri. In realtà subito ho cominciato aguardare me stesso, perché il primo periodo della mia filmografia, se così vogliamo chiamarla, è un periodo dedicato alla osservazione di me stesso. Io mi auto-filmavo, mi raccontavo le mie angosce esistenziali, il mio onirismo, il mio disagio giovanile che come già ho avuto modo di dirti, andavo spessissimo al cinema. Avevo poco tempo per la vita normale. Molto parte della mia giornata la passavo nella sala buia, soprattutto al pomeriggio, la sera. Per cui questo creava anche un certo disagio esistenziale, perché dicevo “io dove vivo? Vivo nella finzione dello schermo e cesso di vivere la vita che fanno tutti gli altri”. Questo m creava una dimensione un po’ schizzoide che credo di aver ben rappresentato nel film Alphaville. 
Domanda: Quando facevi queste cose le prime riprese le portavi a sviluppare e poi? Montavi da solo?
M.B.: I primi tempi ovviamente avevo pochi soldi. Le pellicole costavano abbastanza. Mi ricordo che a quel tempo una pellicola 8mm costava 2500 lire e durava 2 minuti e mezzo. Per cui compravo, mi facevo comprare due o tre  pellicole e quindi centellinavo le inquadrature, non sprecavo nulla, e poi mandavo tutto a sviluppare. Dopo quindici, venti giorni mi ritornava la pellicola sviluppata. I primi tempi la guardavo contro luce, poi finalmente mi sono fatto comprare il proiettore e la potevo proiettare. Il montaggio è intervenuto dopo quando ho incominciato a fare dei film a tema, a raccontare delle storie, benchè siano state delle storie autobiografiche.
Domanda: Quando vedevi il tuo girato e facevi delle proiezioni del tuo girato, le vedevi da solo o in compagnia?
M.B.:In genere questa è stata tutta una attività diciamo molto individualista, solitaria molto privata. Direi totalmente privata. Si ci sono state occasioni in cui io facevo vedere questi film ad amici  conoscenti, ma tutta l’attività produttiva , diciamo così, era completamente solitaria e individuale e non avrei saputo condividerla con nessuno. Era un’attività molto narcisista anche.
Domanda: Ci sono  autori di riferimento? E se si che cosa ti ha colpito di questi autori?
M.B.: Per i primi anni, devo dire che io andavo al cinema per il piacere del cinema, non avevo ancora acquisito una dimensione critica. La dimensione critica l’ho acquisita incontrando un mio amico, un mio coetaneo, con il quale si è stretto una forte amicizia. Cinefilo, era stato il mio compagno di cinefilia che mi ha introdotto in una dimensione critica del cinema. Essenzialmente mi ha fatto leggere il cinema da un punto di vista simbolico. Mentre io prima non giungevo a questo livello di lettura.  Da quel momento in poi, è nata la mia  vera  passione cinefilica, quando io ho incominciato a interpretare a leggere le immagini ed è iniziato anche tutto il discorso della lettura critica dei film; quindi la lettura di riviste, come ad esempio le Cahiers du Cinèma che mi hanno aperto nuovi orizzonti di lettura, hanno buttato giù tante barriere.
Io mi ricordo che nel primo periodo, diciamo di spettatore inconsapevole, io non andavo mai a vedere le commedie americane, perché le consideravo delle stupidaggini, mentre per esempio andavo a vedere i western all’italiana o i film di spionaggio che erano poca cosa rispetto al cinema di autore. Quindi in questo secondo periodo più critico il livello si è innalzato  tantissimo, e ho conosciuto quindi tutta una serie di grandi registi che ho amato… In realtà io amo il cinema in generale, non posso dire di amare più John Ford rispetto a Bunuel, o Fellini più di Bergman. Io li amo tutti quanti, e da tutti o preso qualcosa credo. Soprattutto direi chi  forse mi ha segnato di più, da un punto di vista della mia pratica, è stato John Ford nell’idea di inquadratura. Io sento molto questa idea di inquadratura che è tipica del cinema ed è molto poco usata nel video. Dove il video è più fluido, dove questo concetto di inquadratura quasi non esiste, ma che io continuo a praticare, anche usando la video camera, proprio perché sono legato a questo concetto di scrittura che nasce molto dal concetto di inquadratura, come spazio simbolico della rappresentazione. Dicevo John Ford e per parlare di un cinema più attuale il cinema di Straub-Huillet che io trovo un cinema assolutamente sublime.
Domanda: Facendo un passo indietro mi interessava capire…questo amico che ti apre la via alla lettura simbolica del film, potresti essere più preciso?
M.B.: Si potrei fare un’esempio. Ricordo benissimo che stupendomi, mi parlava dell’erotismo del vampiro, mi parlava della bellezza del cinema di Terence Fisher, disquisendo sulla dimensione erotica del vampiro. “Il vampiro è una figura erotica, nella sua pratica vampiresca”. Io sono caduto dalle nuvole quando mi raccontava queste cose. Poi andando al cinema e vedendo questi meravigliosi film di Terence Fisher Dracula il vampiro, La mummia, ecc., ho veramente verificato che non mi stava raccontando stupidaggini che il livello simbolico esisteva in questi film e funzionava proprio così.
Domanda: quale è stato il momento in cui tu hai realizzato che potevi fare del cinema?
M.B.: A parte il primo periodo di pratica inconsapevole, in cui io filmavo qualsiasi cosa, qualche scenetta familiare, l’amico o qualche immagine di vita contadina che mi sembrava interessante, un matrimonio, piccole cose del genere senza  la presunzione di dover  raccontare  una storia conclusa.
Nel secondo periodo, io sono sempre stato convinto e lo sono ancora, di fare del cinema. Io ho sempre creduto di fare un cinema. Io ho sempre creduto di fare un cinema, non un cinema dei grandi, il cinema professionale, il cinema commerciale, ma un “cinèma de poche” lo chiamerei. Un cinema tascabile, un cinema a mio uso e consumo anche perché…dico a mio uso e consumo, perchè non ho mai pensato a degli spettatori. Quando giravo delle cose o raccontavo la mia storia, le mie storie, lo facevo per me l’ho sempre fatto per me questo cinema che poi qualcuno l’abbia visto, questo era  un fatto secondario.
Domanda: Quando entra in gioco lo spettatore?
M.B.: Lo spettatore entra in gioco casualmente, quando qualcuno mi chiede di poter vedere, mi chiede che vengano proiettate queste cose.  In realtà io non sono mai andato verso lo spettatore. Ritenendo il fatto che ogni film fa parte come in un puzzle di una grande unità. Io in fondo faccio sempre lo stesso film, o faccio parti diverse di uno stesso film. Frammenti di uno stesso film, faccio un unico grande film che in fondo è il film della mia vita. Quindi personaggi che sono entrati e usciti dalla mia vita, il tempo che passa, le cose che cambiano. E’ sempre la stessa storia che si ingrandisce si gonfia, si arricchisce che in fondo non ha bisogno di nessuno spettatore. Sono io il primo spettatore forse l’unico. C’è una sorta di totale…un circolo vizioso, una forma di narcisismo, non so…si può chiamare come si vuole…Ma essendo la cinepresa la mia compagna privilegiata, il mio terzo occhio, ciò che ne è scaturito è questa dimensione un po’ ombelicale se vuoi, della pratica filmica privata.
Lo spettatore non poteva esistere come funzione prima, perché ciò che volevo raccontare, volevo sintetizzare erano le mie emozioni, le mie storie personali, le mie visioni. Questo non necessariamente doveva interessare qualcun’altro. Diciamo che questi video sono una sorta di residuo della mia vita, ciò che resta, una consapevolezza anche di ciò che il tempo ha consumato.
Domanda: E’ anche vero che questo rapporto con lo spettatore un po’ si è modificato, è entrato nell’inquadratura, se mi concedi il paragone.
M.B.:Si, lentamente lo spettatore è entrato, non su tutti i film, direi su alcuni.
Per esempio su quei film…, finito il primo periodo autobiografico, mi sono rivolto verso gli altri. Mi sono messo a guardare gli altri, affascinato dagli altri, affascinato dai volti soprattutto. Da questi esseri che io facevo parlare, ma che in realtà non ascoltavo affatto, perché ciò che mi interessava era semplicemente il piacere di guardarli esistere davanti alla cinepresa. Ecco da
quel punto di vista lì lo spettatore può essere coinvolto, perché quella visione può essere condivisa facilmente con altre. Così come anche alcuni documentari che ho realizzato su i racconti di mia madre,  oppure il villaggio di montagna abbandonato o un viaggio in India.
Domanda: Ecco volevo parlare un momento di questa evoluzione: la nascita di questa passione, poi la passione si trasforma in un’azione di riprendere, poi c’è questa presa di coscienza del gesto di riprendere e quindi c’è anche il bisogno di mostrare il proprio percorso di sguardo…
M.B.: Tutto questo è vero, però come forma primaria impulsiva c’è solo quella di filmare proprio per il piacere, per la necessità di riprendere  e di filmare, al di là del fine, della finalità, di chi avrebbe guardato queste cose, non ho mai pensato a quello. Il primo impulso è proprio il piacere di riprendere il piacere di arrivare a filmare quella cosa lì che magari mi ossessionava da tanto tempo.
Domanda:Vorrei che tu mi parlassi del tuo bisogno di uscire da te e come attraverso i tuoi film hai realizzato questa cosa, il percorso, come hai vissuto questo momento.
M.B.: La mia attrazione verso gli altri e qualcosa che sta all’interno della mia attrazione in generale per la realtà, quella che noi chiamiamo realtà. Chi sono questi individui, come si muovono cosa fanno?E’ comunque un’attrazione per la forma del documentario, cioè il documentario come documentazione,  come lettura della realtà. Quindi io potevo essere affascinato da alcuni temi, ad esempio il mondo contadino, le memorie, il tempo che passa, le cose che si dissolvono. Oppure gli impatti violenti con le realtà altre, come ad esempio nel caso dell’India: in cui io mi trovo immerso in un mondo che mi è completamente estraneo, e nel quale cercavo di avere una sorta di collocazione, di collocarmi in qualche maniera, cercare di farmi accettare e nello stesso tempo, cercare di  assorbirlo completamente di sentirne tutta l’emozione nella sua intensità.
Domanda: In questo senso gli approcci verso gli altri si possono sintetizzare nei film 8 volte Godard e Andy Warhol…
M.B.: Poi c’è Coppie poi Io,io e gli altri. In Io, io e gli altri il pretesto era quello per cui queste persone che sono conoscenti amici parenti dovevano parlare di me. Mentre invece in Coppie, io filmo semplicemente delle coppie, frammenti di tempo di una coppia.
Domanda. Presupposti generali di Andy Warhol film’s e 8 volte Godard…
M.B.: Andy Warhol viene prime di 8 volte Godard. Andy Warhol come artista mi ha sempre affascinato, l’ho sempre considerato un grande artista e ho sempre amato i suoi film. Questa idea geniale di registrare la realtà di lasciare scorrere la pellicola di filmare i tempi morti, mi ha sempre affascinato.
Per cui volevo fare qualcosa alla “maniera di”, nel piccolo dei miei caricatori super 8. Quindi ogni personaggio aveva a disposizione quei tot. Minuti, corrispondenti alla durata di un caricatore, circa due minuti e mezzo. Il pretesto era i film di Andy Warhol che la maggior parte di questi personaggi ripresi non conosceva affatto. Alcuni di questi non conoscevano neanche Andy Warhol. Perché? Perchè volevo camuffare attraverso le loro parole il mio desiderio di osservarli, di scrutarli. Io volevo quasi nella mia illusione, catturare l’anima di questi personaggi. In realtà  fra me e loro, fra loro e la cinepresa, creavano questa barriera di parole, tanto vero che quando finiscono le parole  e la cinepresa continua a girare, sono quelli i momenti più eccitanti per me, più straordinari. Loro sono come degli acrobati che cadono senza la rete di protezione, non sanno più come esistere, come affrontare la cinepresa che continua a filmarli. Perché tutti hanno bisogno di protezione di crearsi delle barriere. Io avrei voluto incontrare qualcuno che proprio in quei momenti li, sapesse superare l’impatto dell’obbiettivo della cinepresa, e sfolgorante di energia e di vitalità, mostrasse la propria anima, ma questo non è mai successo.
Domanda: Qui c’è già una parte di audio?
M.B.: Si questi sono super 8 sonori certo. Per me è stato traumatico il passaggio dall’8mm al super 8, perché è stato il passaggio dal muto al sonoro. Quando ho comprato questa Nizo sonora, mi sono detto: “adesso cosa incido su questa pista sonora? Quali mai saranno le parole dei miei film?”. E infatti io non ho mai saputo mettere delle mie parole, ho sempre cercato le parole degli altri, ho sempre cercato, stimolato negli altri un discorso, ho creato dei pretesti perché qualcuno parlasse. Ma io non sono mai stato in grado di mettere delle mie parole sulle mie immagini, solo ora sto cercando, faticosamente di mettere delle parole molto centellinate, molto brevi, appena accennate, come commento di certe mie immagini. Perché non ho fiducia nella parola trovo che abituati alla televisione che è un frullatore di parole che ci sommerge di parole inutili, oggi ritrovare il valore della parola sia una operazione difficilissima da farsi.
Domanda: In questo senso anche 8 volte Godard ricalca un po’ questa idea di Andy Warhol Film’s…( l’autore offre un testo, una sorta di copione, il commento di altri registi su Godard, in modo tale che le persone intervistate, leggendolo possono rispondere)
M.B.:Ovviamente anche qui c’è un ventaglio di situazioni diverse, perché c’è colui che semplicemente ha memorizzato questo testo e lo dice, c’è quello che lo recita lo interpreta. Ovviamente chi lo recita lo interpreta sono i primi che sono caduti nella trappola, perché io non cercavo affatto degli attori. Io cercavo degli esseri, cercavo delle anime, cercavo delle persone, ancora una volta da guardare da osservare, non cercavo degli attori.
A proposito di Andy Warhol Fim’s, 8 volte Godard e di tutti gli altri,  costruiti su questa tipologia; cioè coppie, Io, io e gli altri , India e America, (ne ho fatto anche uno sui viaggiatori in India e i viaggiatori in America), devo dire che oggi, purtroppo non mi sarebbe più possibile fare una cosa del genere, anche se mi piacerebbe molto, perché decade la magia del caricatore a tempo chiuso. Con questi nastri dei video: in base a che cosa dovrei decidere che filmo questo personaggio per 10 minuti, per un quarto  d’ora, per venticinque minuti, diventerebbe tutto arbitrario, e non avrebbe più senso.
Io personalmente trovo che l’uso del video, per questa tipologia di filmati, diventa insensato perché il tempo diventa infinito. Si perde, la fragilità, la temporalità, la dimensione finita del tempo. Il cinema diceva Cocteau è “la morte al lavoro”, questo concetto mi ha sempre affascinato, e la pellicola filma “la morte al lavoro”, il video non filma più niente.
Domanda: Mi sembra che il piacere di filmare sia una condizione che ti contraddistingue.
M.B.:Si, io credo che questo sia un elemento trasversale di tutto il cinema privato, questo di filmare per il piacere di filmare e non per altri fini per altri scopi, su commissione. Questo sia l’elemento fondamentale che caratterizza il cinema privato, filmare per il proprio piacere, per un’intima necessità.
Domanda: come sei arrivato al cinema privato?
M.B.: Il cinema privato è un’etichetta che è stata coniata da qualcuno in maniera geniale trovo, e che ha dato riparo a tutti quei personaggi che come me, si sono trovati come in una sorta di limbo, perché non eravamo ne dei cineamatori familiari, quelli che fanno i filmini familiari, ne eravamo dei professionisti, quelli che fanno il cinema commerciale, o il documentario commerciale. Eravamo in questa situazione di mezzo molto indefinita molto vaga, in una sorta di limbo. Ora ritrovarci sotto questa etichetta di cinema privato, ci da una connotazione, ci da un senso di essere riconosciuti per quello che crediamo di essere.
Domanda: Quando noi guardiamo un film tradizionale, di sala la distanza tra noi e il film è una distanza molto grande, puoi parlarmi di questo?
M.B.: E’ una distanza molto grande, che però  presuppone  l’assenza totale di, distanza,perché se non c’è assenza di distanza  tu che tipo di spettatore sei?  Il coinvolgimento totale durante la proiezione fa si che la distanza venga annullata. Infatti se ci pensi bene la condizione dello spettatore è una condizione completamente assurda, perché sei in uno stato di ipnosi. A me piace a volte al cinema voltarmi, guardare il vicino guardare chi mi sta dietro. E vedo tutte queste teste immobilizzate con gli occhi sbarrati che guardano lo schermo, e mi spavento e dico “possibile che anch’io sono così?. Totalmente ipnotizzato per due ore da delle immagini che scorrono su uno schermo, è una follia questa?” E’ una follia meravigliosa.
Domanda: Il modo in cui un’immagine viene prodotta fa si che crei questa distanza tra te e l’immagine. Nel cinema privato non c’è questa distanza tra lo spettatore e l’immagine, perché è un’immagine molto più diretta, molto meno artefatta, non è costruita…
M.B.:E’ un’immagine più quotidiana, nel cinema commerciale il quotidiano scompare, viene epicizzato, diventa leggendario, diventa onirico. Al cinema oggi manca la realtà, manca la realtà primaria, manca Lumière. Lumière non esiste più, se vuoi vedere Lumière al cinema oggi dove vai? Non ti rimane che Straub-Huillet, forse Godard e qualcun altro che ti mostrano questa realtà rivissuta dal cinema. Tutto il resto del cinema è fantasia è onirismo è surrealtà. Nel cinema privato invece, ritroviamo una certa quotidianità un’immediatezza come dicevi tu, una dimensione riconoscibile in cui tu ti puoi riconfrontare, confrontare.
E’ anche prezioso (il cinema privato, nell’ottica della realtà) dal momento in cui la televisione che dovrebbe mostrarci la realtà non ce la mostra affatto. Ci mostra universi di finzione di programmi fittizi, manipolati che non hanno più nulla a che vedere con la realtà essenziale, pura delle cose.
A proposito di avanguardia volevo dire che tra i miei riferimenti iniziali, ho parlato di Andy Warhol, ma anche di tutto il New American Cinema che era ricchissimo di stimoli di invenzioni. E’ stato veramente uno scoprire un mondo nuovo liberato e liberatorio… Era la rivendicazione che era possibile fare un cinema tascabile, un cinema quotidiano, un cinema privato.
C’era la necessità del cinema diaristico che documenta la vita, Mekas Brakhage, e poi tutte le sperimentazioni tecnologiche di Michael Snow La Rrégion Centrale.
Domanda:  Torniamo alle produzioni, I film a carattere etnografico che  rientrano nel cinema privato in quanto cinema di prossimità, poiché parlano anche  della vita dell’autore, delle sue esperienze. Potresti parlarmi di Ritorno a Bringuez ?
M.B.: Ritorno a Bringuez, se vogliamo portarlo all’interno della mia  dimensione soggettiva, rientra in quella che in me potrei chiamare, la nostalgia della fine del mondo contadino. Mondo contadino che io ho vissuto e di cui ho visto la fine, e in particolare questo villaggio è un villaggio che io considero un villaggio  molto simbolico, una sorta di monumento alla vita contadina, un villaggio abbandonato, un villaggio dalle case ormai cadenti, in una magnifica posizione. Un luogo che per me è diventato un luogo di pellegrinaggio, proprio perché queste mura queste pietre vibrano ancora della vita contadina che c’è stata e non c’è più. Per cui in questo senso questo documentario che potrebbe passare come un normale documentario, diventa qualcosa di mio personale di soggettivo, affettivamente legato non tanto ai personaggi che compaiono nel video, quanto alle pietre di quel villaggio.
Domanda: Hai fatto diversi lavori su tua madre, potresti parlarmi di Una metrèssa a Grand Ville?
M.B.: Mia madre, mio padre li ho filmati spesso proprio dentro quest’ottica della vita che decade, della famiglia che svanisce, della casa che va in rovina, dentro quest’ottica del cinema che documenta il tempo che passa, la vita che muore, “la morte al lavoro” di nuovo.
Una metrèssa a Grand Ville, è un’intervista un po’ a se che può funzionare benissimo in maniera isolata, perché li mia madre racconta un frammento della sua vita passata. In particolare il primo anno d’insegnamento nel 1932 in questo villaggio di montagna, lei che veniva dalla città, si trova immersa in una realtà completamente inconcepibile per noi oggi. Il video in realtà, è estremamente semplice, perché consiste in queste inquadrature su di lei che racconta, e di alcune immagini del villaggio rivisitato oggi. E’ uno dei video più semplici, però cattura la capacità di mia madre di raccontare, di far rivivere quei momenti di vita passata, descrivendoli in maniera molto articolata  e molto divertita. Questo video, Una Metressa a Grand Ville è il mio video più visto e più apprezzato dagli spettatori, in realtà è il video che meno mi interessa personalmente, perchè per tutto l’affetto che ho per mia madre, non è un video che mi ha coinvolto più di tanto. Non ho messo in scena nessuna tipologia di racconto o di produzione particolare, e una cosa estremamente semplice che è andata bene.
Domanda: Che differenza c’è tra questa intervista Una metrèssa a Grand Ville e ciò che passa normalmente in televisione?
M.B.: In genere nei programmi televisivi poiché si teme di annoiare lo spettatore, si cambia spesso l’inquadratura, si cambia spesso argomento, si rende la cosa più fluida più veloce. Io quando ho fatto questo video non mi sono assolutamente posto questi problemi, anzi l’intervista l’ho fatta in un certo periodo, e poi forse un anno o due dopo, sono andato a filmare i luoghi di questo villaggio, come si trova nelle condizioni attuali, e poi ho messo insieme le due cose, e quindi ho fatto il video. Un po’ come sempre mi succede, io tengo sempre un po’ in tasca la cinepresa o la videocamera, improvvisamente la tiro fuori e comincio a filmare senza una premeditazione.
Sono sempre stato così impulsivo nelle mie riprese, improvvisamente, e da li derivano certe mie carenze tecniche, per cui non faccio mai a tempo a preparare tutte le cose bene, affinché tutto funzioni, perché mi butto improvvisamente sul soggetto, nel momento in cui mi sembra più opportuno, senza neanche pensare, se costruire una storia che magari verrà, oppure non verrà affatto. Moltissime immagini familiari io le ho girate per il solo gusto o piacere di registrarle, sapendo che poi  avrebbero trovato una collocazione in questo grande puzzle che è la mia vita filmata.
Domanda: Puoi parlarmi della potenzialità del cinema privato come stimolatore di azione di filmare, (non essendoci più  distanza tra lo spettatore e l’immagine che viene rappresentata), come stimolatore di soggettività. Lo spettatore attraverso queste immagini non artefatte del cinema privato, viene incentivato  a utilizzare la telecamera, a raccontare qualcosa.
M.B. : Nel cinema commerciale nel cinema che andiamo a vedere sul grande schermo, non si sa mai bene di chi sia il punto di vista. Di chi è il punto di vista di queste inquadrature?  Di  Dio? Di chi? Non si sa. E’ un punto di vista indeterminato, non si sa chi sta guardando che cosa. Mentre invece, io sto parlando del mio caso, il punto di vista è sempre il mio punto di vista. Io non posso immaginare una neutralità, e ho sempre considerato l’occhio della cinepresa come il mio terzo occhio, il mio sguardo sulla realtà, sul mondo.
A proposito della stimolo della voglia di girare, non lo so.  Sono già coinvolto. Dovrei azzerare tutto trovarmi vergine e poi risponderti.
Devo dire che quando io vedevo questi film dell’Underground americano, ne uscivo sempre stimolato, ne uscivo sempre pieno di idee di progetti che poi magari svanivano col tempo, però era un grande stimolo per me .
Mentre invece i film di finzione  che vedevo sul grande schermo, erano un piacere e basta, non potevano esser uno stimolo. L’’idea di raccontare una storia mi è sempre sfuggita. Benché in tutti i film, i video che ho fatto, in qualche modo io racconto una storia anche non raccontandola. Raccontare una storia nei termini classici con degli attori dei personaggi, l’ho fatto forse una volta o due, però non è una cosa che mi abbia coinvolto o che mi attragga.
Penso che sarebbe bellissimo se tutti quanti possedessero una telecamera o una cinepresa e filmassero frammenti della propria vita.  Tutte le vite sono fantastiche, sono bellissime, sono interessantissime da rivedere da vedere anche se apparentemente sembrano tutte uguali.
Domanda:  Potresti parlare del video Benares?
M.B.: Dò per scontato che il mio punto di vista non può  che essere  soggettivo. Lo so che si può pensare…” questo qui è un folle narcisista”. Ma in realtà io non l’interpreto  affatto così, che ci sia un po’ di narcisismo,  soprattutto quando mi auto-riprendo, non lo posso negare. Ma io parto dal presupposto che l’unica consapevolezza che ho è la mia. Quale altra consapevolezza del mondo posso avere se non la mia? L’unico punto di vista non può che  essere il mio, mentre filmo, sulla realtà.
Io mi trovavo a Benares in mezzo a questo traffico incredibile che mi ha affascinato immediatamente, anche se il mio desiderio era di lasciare l’albergo e di raggiungere il Gange. Fra me e il Gange c’era quella folla immensa, questo via vai di biciclette, di moto, di macchine, di pedoni così straordinario che io mi sono detto “devo filmarlo”. Mentre filmavo mi rendevo conto che c’erano questi personaggi isolati. Questi volti, questi esseri che vagavano in questo traffico e che mi affascinavano, cercavo questi volti.  Per cui tutto il documentario diventa la ricerca di un’incontro. Un’incontro che si realizza alla fine quando uno di questi uomini in bicicletta, si accorge di essere filmato, mi guarda e mi sorride…, quel sorriso è stata una cosa bellissima.
Io mi trovavo a Benares con la mia maestra di Yoga e una discepola, alloggiavamo in questo grande albergo di lusso a Benares. Era tale la mia voglia di incontrare la realtà vera dell’India, e a Benares c’è un’India ancora autentica vera, non occidentalizzata. Era tale il mio desiderio di arrivare al Gange, di visitare questo mito, perchè ormai Benares era diventato un mito per me, e mi sono quindi tuffato più volte in questo mondo. L’idea centrale era quella di filmare il mio incontro, la mia soggettività che penetrava in questo mondo e voleva incontrare gli altri, questi volti, questi esseri, questi indiani, superando la mia alterità, superando il mio statuto mediocre di turista, di visitatore inconsapevole. Potevo fare questo attraverso l’occhio della telecamera.
Domanda: C’è l’aggiunta del testo nel video Benares che è una novità nell’ambito della tua produzione, vero?
M.B.: Si, ho sentito la necessità di mettere questa voce fuori campo per cercare di indirizzare l’eventuale spettatore, verso uno stato d’animo che  assomigliasse un po’ al mio, affinché capisse la mia operazione, affinché capisse la mia insistenza su quei luoghi, perché capisse il mio modo di rapportarmi alla città
Domanda: Benares è montato in machina, vero?
M.B.: SI. Sempre io detesto le manipolazioni, sempre io rispetto la cronologia della ripresa, la si ritrova  magari con delle sottrazioni di materiale, la stessa cronologia la si ritrova poi nel filmato. Io non potrei mai invertire l’ordine temporale delle riprese, è qualcosa che mi ripugna,  la troverei una sorta di inganno proprio per il mio estremo rispetto della realtà.
Domanda: L’episodio di estinzione?
M.B.:L’estinzione è una bolla onirica è una sorta di sogno contenuto nel mito di Benares, perchè a Benares si va per morire, anche. Ci sono le cremazioni, i cadaveri vengono buttati nel Gange.
Domanda: Queste tre volte del Gance che senso hanno?
M.B.: E’ la ripetizione di questo desiderio un po’ ossessivo di arrivare sul  “ fiume sacro”, l’abbiamo visitato di sera e trovi una certa realtà, l’abbiamo visitato all’alba e ne trovi un’altra, l’abbiamo visitato a mezzogiorno e ne trovi un’altra ancora. Una dimensione sempre cangiante, sempre nuova, sempre diversa, assolutamente affascinante.
Domanda: Una caratteristica del cinema privato è il rimettere le mani sui lavori precedenti, cosa ne pensi?
M.B.: E’ una possibilità straordinaria che ci viene offerta dal digitale. Nel senso in cui riversando i vecchi filmati aggiungendoli ai nuovi che sono già in digitale e inserendo tutto in un computer, praticamente tu hai tutti i filmati che
hai fatto nel corso del tempo della tua vita, ce li hai li presenti. Sono tutti compresenti nello stesso hard-disk, per cui puoi riprendere  qualsiasi frammento, qualsiasi immagine, ricomporla e ricostruire delle nuove storie. Quindi questo discorso del grande puzzle continua a esistere e ad ampliarsi sempre più.
Domanda: Questo da un punto di vista tecnologico, ma c’è anche  un aspetto che riguarda l’autonomia della ripresa e l’essere il committente di te stesso.
M.B.: Io sono il committente di me stesso. Ho provato ad avere un committente: ho fatto quindici documentari per la Rai d’Aosta, però non mi sono trovato affatto bene, nel senso che mi condizionavano tantissimo. Innanzi tutto c’era il condizionamento del tempo, dovevano durare tutti ventidue, ventitre minuti, dovevano essere in Francese o in Italiano, tutta una serie di condizionamenti anche tecnici per cui non mi sono sentito affatto libero. Il piacere di filmare sta anche nello scegliere il momento, le condizioni, i modi, il tema. Lavorare su condizione non mi è favorevole.
Domanda: Scarti di memoria è una bellissima sintesi del cinema privato, se puoi illustrare il processo creativo di questo video?
M.B.: Filmando come filmo io, sull’impulso del momento, ho filmato tantissime cose che poi non hanno avuto esito, non hanno avuto storia, non si sono collegate a niente altro, sono rimaste isolate. Ci sono immagini che sono tecnicamente dubbie, sfuocate, sgranate, discutibili, per cui questo materiale è finito in una scatola. Un bel giorno ricercando,rivedendo, digitalizzando, ecc,
ho rivisto queste immagini, e mi sono detto benché nella loro piccolezza, nella loro esiguità narrativa, potevano essere riutilizzate. Mi è sembrato che l’unico modo per riutilizzarle era quello di sposarle a dei commenti musicali, alla musica, e così ho fatto. Mi sono divertito molto. Il risultato mi è piaciuto molto. Mi sono molto divertito, però non gli ho dato quel peso, quel valore che gli stai dando tu adesso  che però mi sembra effettivamente condivisibile.
Le immagini  sono molto materiche, si vede la pellicola molto sgranata, molto lavorata,si sente la pellicola. Questo mi piace molto, quando l’effetto della trasparenza scompare, io non amo la trasparenza, queste immagini perfette, dove tu perdi la percezione dell’immagine, del mezzo, della materia ed entri nel rappresentato. Io detesto questo e lo trovo anche immorale, lo trovo un po’ osceno, pornografico. A me piace ia visione che si deve schiacciare sull’immagine, perché è quello che noi vediamo, la bidimensionalità dell’immagine. Invece ci facciamo irretire dalla tridimensionalità illusoria che è puramente onirica.
Se potessi righerei la pellicola la bucherei come facevano gli americani degli anni ’60 che ci facevano sentire la fisicità della pellicola.
Domanda: Cosa ne pensi del potere terapeutico del cinema privato, un cinema come terapia che serve per curare le proprie…
M.B.: Certo soprattutto nel mio caso, tutto il primo periodo quello autoreferenziale, quello esistenziale, con tutte le mie angosce giovanili, quello è stato fondamentale per me. Tirar fuori queste cose trasformarle in immagini, mi ha evitato di andare dallo psicanalista, su questo non c’è dubbio. Io mi liberavo continuamente attraverso le immagini di tutto un bagaglio psichico che cedeva nella mia mente, un potere curativo per chi lo pratica, anzi da consigliare.
Domanda: Un’ultima domanda quale potrebbe essere lo spazio, un luogo per il cinema privato?
M.B.: Questo è quello che dobbiamo inventarci. Probabilmente riproporre queste rassegne come quella di Siena, e cercare di coinvolgere qualche editore tipo Raro Video, visto che loro sono piuttosto aperti al cinema d’autore, al cinema sperimentale.
Grazie Michelangelo !
M.B.. Grazie a te.

Odori e sapori di Giuseppe Rocca, a cura di Paola Musarra

Odori e sapori di Giuseppe Rocca (a cura di Paola Musarra). No, Paola, non mi disturba affatto la tua lettura del mio film. Anzi, mi ha molto divertito la frase del babà nel rhum.

Leggi tutto: Odori e sapori di Giuseppe Rocca, a cura di Paola Musarra

Intervista a SILVIA FESSIA di Francesca De Sanctis

Come mai hai scelto di fare una tesi di laurea su Silvio Soldini?  L'idea principale era di fare qualcosa sul cinema italiano contemporaneo. Avevo pensato a diversi autori, per esempio a Martone, ma in quel momento Soldini era il regista che mi interessava di più. Avevo visto da poco "Le acrobate" del '97 e mi era piaciuto molto. Inoltre, su Martone c'era già una tesi in corso. Poi nel '98 ho incontrato Soldini a Bellaria, gli ho parlato della mia idea di fare una tesi sul suo cinema e mi ha risposto: "Ma non hai nient'altro di meglio da fare?".

Leggi tutto: Intervista a SILVIA FESSIA di Francesca De Sanctis

INTERVISTA esclusiva a ACHILLE ZAINO di Michelangelo Gregori

Quando sento parlare di nuovi progetti cinematografici mi si innalzano le antenne e vado subito a constatare. E questa volta ho fatto veramente bene. Ho visto un mediometraggio girato da due giovani che merita veramente di essere visionato. Un'opera che è stata concepita con lo spirito puro del cinema e che è stata portata avanti grazie allo spirito di sacrificio (ed all'aiuto del digitale) contro uno strapotere visivo fatto solo di soldi (che magari non guastano) e attori “famosi”. Per questo voglio far spostare la vostra attenzione su PHANTOM IL RITORNO, intervistando uno dei due registi che ne è anche il protagonista, Achille Zaino…

Leggi tutto: INTERVISTA esclusiva a ACHILLE ZAINO di Michelangelo Gregori

L'importanza nel Cinema di un regista come Steven Spielberg

Steven Spielberg registaSteven Spielberg è senza dubbio uno dei registi più influenti e riconosciuti del cinema mondiale. La sua carriera, che abbraccia oltre cinque decenni, è segnata da una serie di film che non solo hanno ottenuto un enorme successo commerciale ma hanno anche lasciato un'impronta indelebile sulla cultura popolare e sull'industria cinematografica. Spielberg è noto per la sua abilità nel raccontare storie, la sua versatilità come regista, e per aver introdotto o perfezionato numerose tecniche cinematografiche.

Leggi tutto: L'importanza nel Cinema di un regista come Steven Spielberg

Davide Marengo e Michele Ieri, autori di cortometraggi

Un bagno pubblico abbastanza degradato, una donna paranoica per l'igiene, una mosca, compongono una mistura che si rivela esplosiva. La difficoltà nel distinguere la realtà dalla finzione, le aspettative di aspiranti ballerine, mimi, attori, i loro provini che divengono momento di esternazione dei propri problemi esistenziali. Stiamo parlando di due film, entrambi di registi campani: Shit di Davide Marengo e Provini di Michele Ieri. Sono due film di 7'30" e 10', due cortometraggi. Entrambi molto giovani, gli autori si avvicinano al mondo dello spettacolo. Michele Ieri comincia al liceo «per gioco con alcuni spettacoli teatrali», poi finisce per collaborare come dialoghista di opere radiofoniche. Nei primissimi anni '80 mette in scena la sua prima commedia teatrale, Rosa pallido, prima dello scioglimento del suo gruppo. Passeggiata nei campi flegrei e Cuma, città morta? segnano, in super 8, il suo ingresso nel cinema nell'81 e gli danno modo di «cercare la pellicola, la luce» ed «eseguire esercitazioni sul tema». Poi una lunga pausa di cui approfitta per studiarlo, il cinema, perché ha «bisogno di leggere tutto con voracità», fino ad Amici, il suo primo lungometraggio (`93) e Provini, cortometraggio prodotto nel '96.
Anche Davide Marengo comincia presto. A 16 anni frequenta i set cinematografici, lavorando come assistente alla regia o assistente alla produzione, fino a film come Ninfa plebea della Wertmiiller. Approfitta di queste situazioni per «portare una telecamera e realizzare backstage». Così è stato per Marianna Ucria come per Uomo d'acqua dolce: insomma, «è un pretesto per stare sul set». Entrambi amano Kubrick, che pongono al «vertice perché esprime l'essenza del mezzo cinematografico» come sostiene Marengo. Per quanto riguarda il cinema italiano, c'è senz'altro Pasolini per ieri, «ma si conosce poco» e poi Totò, le cui storie reputa «molto gradevoli, a volte più di certo cinema d'autore». E dei contemporanei napoletani che cosa ne pensano? «Francesco Rosi è rigoroso», piace a Michele Ieri perché riesce a «definire un certo periodo degli anni Settanta» mentre quasi per niente Squitieri, considerando «il suo modo di fare cinema ideologicamente grossolano». E i più giovani come Manone, Corsicato, Incerti? «Bisogna riportare la gente al cinema. Si crede spesso di essere portatori di verità. Al cinema bisogna portare la gente», sapendo «raccontare le cose», sostiene Ieri a proposito dei nuovi autori, che peraltro non disdegna. Marengo, invece, sostiene che per quanto
riguarda i nuovi autori italiani, quello dei «napoletani è l'unico gruppo emergente come identità cinematografica», anche se lui preferisce un «cinema più grottesco e surreale», dopo tanti grossi nomi che però vanno letti nella loro individualità. Marengo giudica «Martone un autore interessante, ma non è il suo cinema quello da me preferito, perché il realismo puro condiziona una visione della realtà ed è difficile da portare al cinema fedelmente. Una storia surrealista ti permette di mettere in luce cose in cui credi veramente. Corsicato con Libera è riuscito un po' a raccontare con ironia la realtà complessa: Libera prende in giro l'iconografia classica della napoletanità». Molti sono coloro che distinguono il termine film dal corto, attribuendo a quest'ultimo un ruolo di secondo piano e non riconoscendogli invece un linguaggio proprio. Che cosa pensano i due registi? Secondo Davide Marengo «il corto ha un linguaggio diverso. La storia è raccontata in breve tempo e ti impedisce di approfondire la psicologia dei personaggi; è un'esercitazione cinematografica che, però, stimola a raccontare una storia in pochi minuti e in cui la superficialità del racconto viene sostituita dalle tecniche cinematografiche» che via via vengono scelte. Michele Ieri sostiene che «un corto è più libero» di un lungo, forse proprio perché «ha meno mercato, e anche più facile; però i problemi da affrontare nel raccontare una storia in dieci minuti sono diversi dal lungometraggio». E ancora Ieri predilige «un'opera sporca, fatta con pochi mezzi, più che un'opera che strizzi l'occhio al grande film», rincorrendo i costi da sostenere per utilizzare certi movimenti di macchina con una certa fotografia. Quanto c'è del loro background culturale nei film realizzati, quanto incide essere nati in Campania? Michele Ieri risponde con il suo lungo Amici, la storia di quattro compagni che concepiscono l'amicizia come un alibi per non stare soli: «Volevo raccontare una Napoli non protagonista e dire alla gente che c'è una borghesia come nelle altre città». Marengo invece vive a Roma dall'età di cinque anni, ma, avendo genitori napoletani e i parenti nel capoluogo campano, rimane particolarmente legato a Napoli. Ma veniamo a Shit. Il cortometraggio, che Davide Marengo produce insieme a Tommaso Ragnesco, che si occupa degli effetti speciali, trae spunto «da una vignetta di Andrea Ricci» e un po' perché è piaciuta la vignetta, un po' per la voglia di provarsi, i due decidono di realizzarlo. Shit rappresenta l'ossessione, sintetizzata nella mania dell'igiene e nella «mosca che vola nel bagno, che viene alla luce e che esplode quando raggiunge il limite di non sopportazione». Dai disegni sulle pareti e dal modo in cui la protagonista si rapporta con loro, «affiora la sua perversione, la sua morbosità». Diversa è la storia di Provini. Nelle intenzioni di Michele Ieri c'era e c'è quella di «creare un premio e organizzare una sorta di concorso di sceneggiatura per le scuole da cui realizzare un corto da presentare, insieme ad altri cortometraggi fatti dai giovani, in una grande festa del cinema: un cinema di ragazzi fatto dai ragazzi stessi. Parlando con i giovani, si apprende come il cinema eserciti una irresistibile magia e la loro non è una città con situazioni felliniane. come nel finale di Provini. Tutto ciò, per Ieri, a seguito delle sue esperienze a contatto con gli studenti delle scuole. Scopre che, per partecipare a quei corti «si presenta una serie di persone che ti racconta il quotidiano». Ed ecco «la storia di questa gente e quella del falso meccanico-attore vero». E in queste storie la realtà e la finzione si mescolano e si confondono, come il mondo dello spettacolo: dov'è il confine tra il vero e il falso? «Nel cinema stare davanti la macchina da presa è duro, ma davanti allo schermo si sogna».
Qualcuno ventila la proposta di vincolare la durata dei corti per omologarli nel mercato internazionale, obbligando gli autori a un minutaggio a uso e consumo delle televisioni, facendo perdere al prodotto culturale cortometraggio la caratteristica di prototipo, cioè di prodotto a sé stante che distingue il film, per inserirlo in un contesto completamente diverso. Che cosa ne pensano i due registi? Per Marengo la proposta mira a poter «commercializzare il film. Non vuole essere tanto una limitazione per legge, quanto dare la possibilità alle persone di investire». È avvertibile inequivocabilmente che i due registi da noi avvicinati siano fautori di un cinema giovane, permeato dalla voglia di uscire dagli stereotipi. In certe situazioni la sopravvivenza materiale, ma anche esistenziale, continua a essere il nodo principale. Nelle storie, a cui siamo abituati, ricorre un'unica immagine di Napoli e del Sud, ma, come dice Michele Ieri, anche se «il racconto è sempre parziale», l'organizzazione delinquenziale presente ormai nel nostro immaginario, «nasce da rapporti di comunicazione difficili». Questo significa guardare oltre e aprire nuovi orizzonti: «Sento il bisogno di uscire dal quotidiano», diceva ancora Michele Ieri, «e preferisco più fare cose brutte che inutili». Così va avanti il nuovo cinema e nei progetti di Davide Marengo ci sono ben due nuovi cortometraggi.

Shit di Davide Marengo

Tony Gilroy: Linee guida per scrivere una sceneggiatura originale

Gilroy ammette che, nonostante sia uno sceneggiatore in attività, le linee guida che offre sono quelle che anche lui ha bisogno di ricordare a se stesso, sottolineando il fatto che anche gli sceneggiatori nominati all'Oscar lottano tanto quanto gli sceneggiatori alle prime armi. Abbiamo ricavato sette linee guida da questo eccellente discorso e dalla sessione di domande e risposte - che possono essere visualizzate sotto questa analisi - e aggiunto alcune ulteriori elaborazioni sui punti che ha sottolineato così bene.

Leggi tutto: Tony Gilroy: Linee guida per scrivere una sceneggiatura originale

Il 95% della scrittura è finalizzata alla risoluzione dei Problemi

Billy Ray, sceneggiatore di Captain Phillips  e The Hunger Games, è stato intervistato lo scorso anno. Tra le altre parole di saggezza che aveva riguardo alla sceneggiatura c'era questa citazione

Leggi tutto: Il 95% della scrittura è finalizzata alla risoluzione dei Problemi

Intervista al regista MARIO COSENTINO

Intervista di Mario Cosentino, sceneggiatore e regista del cortometraggio "Capolinea" vincitore del Concorso "ilCORTO.it 2004"

Leggi tutto: Intervista al regista MARIO COSENTINO

Christian De Sica: “Il POLITICALLY CORRECT è una stronzata"

de sica 1 1097841«Non se ne può più di personaggi negativi e vincenti». In vena di ricordi Christian De Sica liquida, a sorpresa, la sua ampia galleria di personaggi sboccati, maleducati, insopportabili: «Se facessi oggi un film come quelli con Aurelio De Laurentiis produttore, mi arresterebbero». 

Leggi tutto: Christian De Sica: “Il POLITICALLY CORRECT è una stronzata"

Intervista alla Casting Director Laura Muccino

Lunedì 10 Luglio 2023, Roma, presso il Black Lodge project, splendida e suggestiva location, che fonde in una magica alchimia, musica, fotografia e cinema, abbiamo avuto il piacere di incontrare ed intervistare, Laura Muccino, sorella del celebre regista Gabriele, oggi figura importante e di prim’ordine come Casting director italiana. (con video)

Leggi tutto: Intervista alla Casting Director Laura Muccino

Ata Mojabi regista iraniano sceneggiatore e regista di molti cortometraggi

Il cortometraggio italo-iraniano “Psychicken” (2023) del regista Ata Mojabi è un corto surreale e muto fantasy che mostra la crudeltà del destino dando una lezione di vita a un vagabondo. Racconta la storia di un ladro che commette un crimine orribile durante una rapina e poi scappa, ma si accorge che qualcuno lo sta inseguendo.

Leggi tutto: Ata Mojabi regista iraniano sceneggiatore e regista di molti cortometraggi

STENO nome d´arte di Stefano Vanzina

Il 13 marzo 1988 moriva a settantatrè anni Steno, nome d´arte che Stefano Vanzina aveva scelto iniziando la sua carriera di umorista al Marc´Aurelio, autentica fucina (il giornalismo satirico con la radio e il teatro leggero) di innumerevoli futuri talenti del cinema italiano del dopoguerra.

Leggi tutto: STENO nome d´arte di Stefano Vanzina

Giuseppe Rotunno: "Capii soltanto allora che cosa volesse dire regia"

Giuseppe Rotunno direttore fotografia Iniziai a lavorare in Senso dopo una breve esperienza con Visconti come operatore alla macchina in un episodio con la Magnani — Anna — del film Noi donne. Il rapporto cominciò mettendo subito in chiaro certi aspetti del nostro carattere. Si girava al Teatro Sistina ed io arrivai tardi sul posto di lavoro. Avevo viaggiato tutta la notte proveniente da Venezia, dove stavo girando un documentario sul Carpaccio e dove Aldó [Aldo Graziati] mi aveva chiamato con urgenza, essendo egli stesso sollecitato all'ultimo momento da Visconti per terminare le riprese di quell'episodio.

Leggi tutto: Giuseppe Rotunno: "Capii soltanto allora che cosa volesse dire regia"

Alfio D'Agata i suoi lavori

“Aria. Elaborazione di una violenza”: il cortometraggio di Barbara Sirotti

Aria. Elaborazione di una violenza Cortometraggio ViolenzaL’anteprima è avvenuta presso lo Spazio Roma Lazio Film Commission, moderatore il giornalista Marco Bonardelli, che, salutando il pubblico e presentando i relatori, ha mandato in visione un contributo di Luca Ward, assente giustificato: “Era una mattina di qualche mese fa, squilla il telefono, un numero che non conosco, la voce di una donna, che subito mi dice: sono Barbara, ho bisogno di te. Mi racconta la sua storia, agghiacciante, confesso che mi sono spaventato, ma un uomo degno di questo nome non può tirarsi indietro, ecco perché ho aderito subito al progetto di Barbara… grazie Barbara per avermi coinvolto”.

“Aria – commenta Marco Bonardelli – è un racconto di una violenza inaudita, che ha segnato il corpo e l’anima di Barbara, ma che per fortuna non si è concluso tragicamente come tante altre volte… io non le ho mai chiesto di raccontarmi la sua storia, per sentirla per la prima volta assieme a voi, ma una frase mi è rimasta impressa, quando mi ha detto di “poter affrontare tutto, niente è troppo, niente mi fa paura”, ci ho visto quella rabbia positiva per una rinascita per ritrovare se stessi; la ringrazio di farsi testimone di un problema così terribile”.

Il viso di Barbara è dolcissimo e la voce, pacata e affascinante, viene accolta dalla sala gremita, con grande attenzione, quasi in apnea: “…quella della violenza è una piaga sociale e dobbiamo combatterla tutti, io mi sono ritrovata con una storia da raccontare; avrei preferito come attrice raccontare un film, una commedia, invece sono qui con la mia storia vera, traumatica, che ho ancora sulla mia pelle, ma che mi ha dato una forza incredibile; se sono qui è perché devo raccontarla, io voglio raccontarla; sono una sopravvissuta di un atto indicibile, inaspettato da parte di una persona di cui mi fidavo, il mio ex compagno ed ho rischiato di morire, per questo ho intitolato ‘Aria’, perché mi mancava l’aria davvero. Ringrazio la Fidapa di Sabaudia, perché ha creduto subito nel mio progetto, che ha avuto più di 60 premi, addirittura un premio anche in Iran. Durante la pandemia le chiamate di soccorso delle donne alle forze dell’ordine sono aumentate del 79%, quindi mi sono detta, la violenza non riguarda solo me, devo fare qualcosa che duri più del solo 25 novembre, allorquando c’è un improvviso risveglio delle testate giornalistiche”.

Marco Bonardelli, nel precisare che il manipolatore affettivo è colui che dalla gentilezza passa all’aggressione sia verbale che fisica, introduce l’aspetto psicologico tramite la dottoressa Sabrina Melpignano: “…sono una psicoterapeuta e mi occupo di persone affette da stress postraumatico; sono socia della Fidapa di Sabaudia, che si occupa anche della violenza sulle donne; lo scopo che ci proponiamo come associazione è quello di sensibilizzare i giovani; abbiamo coinvolto i rappresentanti delle forze dell’ordine perché siamo convinte dell’importanza della prevenzione; la donna che viene dalla psicoterapeuta lo fa inconsciamente o perché viene accompagnata da qualche familiare, questi disturbi della psiche li definiamo amnesie dissociative, che servono per salvaguardare la donna, permettendole la sopravvivenza, ma che è anche un meccanismo inadeguato perché la distacca dalla realtà e non le fa più sentire le emozioni, non la fa sentire più viva; la vita di chi subisce una violenza è completamente dissociata; ci vuole tanta pazienza e tanto amore da parte della psicoterapeuta per rimarginare quella ferita profondissima”.

L’avvocato penalista, Monica Nassisi, ha tenuto a sottolineare: “…l’arte, il cinema, la musica sono straordinari strumenti di comunicazione, catturando l’attenzione di chi può essere distratto; mi occupo di donne e bambini vittime di violenze di ogni genere; il 25 novembre è una grande occasione per occuparci di violenza sulle donne, ma gli altri 364 giorni cosa succede? Normalmente quando una donna va a denunciare i maltrattamenti, viene rimandata a casa…non ci sono case per accogliere le donne prima della denuncia; in Polizia ci sono persone preparate, ma è sempre difficile convincere le vittime a denunciare…quando vedi il dolore di un padre che si sente colpevole per non aver adeguatamente protetto la propria figlia, capisci che a essere coinvolte non sono soltanto le donne, ma riguarda tutti, ci sono tanti uomini che hanno dedicato la propria vita a contrastare la violenza”.

Barbara Sirotti ha già preparato un sequel di “Aria” ed è “Libera”, dove la voce del violentatore è quella di Alex Poli: “…l’attore deve fare di tutto, anche la parte del cattivo, non posso tollerare la violenza sulle donne, sono onorato di aver partecipato a questo progetto”. Altri doppiatori di “Libera” sono Francesco Pannofino e Benedetta Degli Innocenti, che ha ammesso di aver interpretato la parte terribile di chi va a giustificare il violentatore con la classica frase: “in qualche modo te la sei andata a cercare, qualcosa avrai detto o fatto; devo ammettere che sono soprattutto le donne a pensarla così; sono onorata anch’io di aver dato il mio contributo, perché la violenza di genere riguarda tutti”.

“Libera” è il cortometraggio che racconta della difficile “rinascita” di Barbara, vissuta durante il lockdown: “…siamo in zona rossa, il medico può riceverla solo on line…avrei voluto tornare indietro e cancellare quel ricordo…vedo ancora lo sguardo della morte …ho dovuto attraversare il deserto per arrivare alla liberazione…ho dovuto uccidere me stessa, la Barbara precedente…vai avanti mi dicevano tutti…con una fatica inenarrabile”.

Il racconto di Barbara ha lasciato in tutto il pubblico una profonda amarezza, sgomenti di tanta indifferenza, eppure è proprio il volto radioso da romagnola a darci la speranza per un futuro migliore, senza incomprensioni e violenze di ogni genere.

Un grazie particolare a Marco Bonardelli per aver condotto la conferenza stampa con delicatezza e rara maestria.

Articolo di Henos Palmisano per sezione cultura di abitarearoma.it

Donatella Mascia: il mio "corto" tra vizi capitali, gatti e invenzioni

Aveva un nonno inventore e col pallino per la meccanica. Lei, da ingegnere, ama la tecnologia, ma ha scoperto che la sua grande passione è la scrittura e intanto sogna di scrivere sceneggiati per la tv. Da qui nascono le storie di Donatella Mascia, in cui il nonno, ma anche gli animali, sono protagonisti di avventure gialle e romanzi storici, prevalentemente per ragazzi. Ha vinto numerosi premi e riconoscimenti – finalista nel concorso Giovane Holden, secondo classificato al Premio Letterario Città di Recco 2016, finalista al Premio Acquistoria 2016 e altri ancora – fino ad arrivare all’ultimo, il premio “Racconti per corti” con il suo “Vizio capitale”, che diventerà un cortometraggio.

.....  

Come hai scoperto che scrivere è la tua passione?

Ho iniziato, appunto nel 2013, decidendo di scrivendo del fratello di mio padre, che a quindici anni è scappato nelle Camice Nere: ho voluto così raccontare dei perdenti che ci credevano, e questo è stato pubblicato anche dal Secolo XIX, dandomi soddisfazione e iniziando a scrivere romanzi e racconti.

Il ricordo dei familiari e la passione per la tecnologia sono un fil rouge dei tuoi romanzi?

Sì, infatti il primo romanzo, “Magnifica Vis(i)one”, rappresenta l’incontro tra la nuova tecnica, la meccanica, e la realtà contadina del 1920, che in Piemonte e ha avuto come tramite i miei nonni da giovani. Le sorelle Gaslino, infatti, incontrano i fratelli Caffarena, facendo capire come la mancanza di rapporti fosse dovuta alla mancanza di comunicazione, che poi è stata superata poi col treno e i mezzi di trasporto propri: infatti mio nonno, che amante della meccanica e un inventore, aveva la moto e raggiungeva il Piemonte così. Al primo contatto con mia nonna non si capivano nemmeno, perché parlavano uno genovese e l’altra piemontese. Si capisce l’isolamento all’epoca dovuto al Passo del Turchino. E poi la meccanica che arriva nella tradizione contadina, quindi il trattore, e tutto ruota intorno a un tesoro, e al Castello di Visone, che è il paese di mia nonna. Nel paese, l’uomo amante della meccanica e dell’invenzione cerca il tesoro della leggenda e inventa una macchina per trovare i metalli senza avere energia elettrica. Il tesoro bisogna vedere se è proprio quello che si cercava o se è metaforico, e in tutto questo contesto il deus ex machina è il parroco. La ricerca del tesoro è una scusa per raccontare abitudini contadine di allora, che non erano molto cambiate negli anni Cinquanta rispetto al 1920.

L’invenzione ricorre anche nel secondo romanzo storico?

Sì, finalista ad Acquistoria 2016, “Lo spione di Piazza Leopardi” si svolge negli anni Trenta a Genova, appunto in Piazza Leopardi, ed è un giallo che parla di falsari, scritto con una certa ironia. Il richiamo alla tecnica nel romanzo è dato dal sistema di registrazione della voce, servito a una delle prime indagini ambientali dell’epoca, e naturalmente è fatto dall’inventore, quello del primo romanzo, che se la costruisce. Poi ci sono le indagini, le storie di denaro falso e una velata storia d’amore. Ma i miei libri sono per ragazzi.

Anche in “Quel gran signore del gatto Aldo” ci sono giallo e tecnologia.

Sì, Gatto Aldo si svolge ai giorni nostri, e racconta di un gatto raccolto da una pianista in pensione, Eugenia, cui è molto grato, perché salvato da morte certa, e quindi per ringraziarla le porta un dono al giorno, finché le porta uno strano oggetto. Sarà Oscar, il ragazzo cui dà lezioni di pianoforte, a capire che si tratta di una pennetta usb. Da qui, guardandone il contenuto, si sviluppa il giallo. Questo libro ha vinto il Primo Premio dell’Antico Borgo e ha ricevuto una bella recensione al Premio Italo Calvino. Il 14 luglio lo presenterò a Viareggio.

E ora “Vizio capitale” diventerà un cortometraggio.

Sì, nell’ambito di “Racconti nella Rete” ho vinto la sezione “Racconti per corti 2018” e il cortometraggio sarà realizzato dalla Scuola di Cinema Immagina di Lucca. È un racconto, ma dal momento che i miei racconti hanno sempre molto dialogo, è facile trasformare “Vizio capitale” in una sceneggiatura. Sarà proiettato a Lucca in occasione della XXIV edizione del festival LuccAutori in programma dal 21 settembre al 7 ottobre 2018.

Possiamo rivelare la trama di “Vizio capitale”?

In una piccola chiesa di campagna è quasi l’ora del desinare, ma Giuseppina, una vecchia contadina, decide di mettersi a posto la coscienza, perché ha commesso un grave peccato. Quale migliore occasione di una confessione per lavarsi l’anima? Don Giacomo, schiacciato dentro il confessionale non vede l’ora di uscirne, visto che il suo stomaco reclama, e pensa di cavarsela rapidamente. Ma non sarà così. Un grande dilemma si abbatte sui due personaggi. Saranno capaci di risolverlo?

Cosa rappresenta per te vedere un tuo racconto trasformato in video?

Il mio sogno è scrivere sceneggiati per la tv, quindi per me è molto importante e avrò la possibilità di seguire le riprese a Lucca. Ho cercato anche i bandi della Rai, ma richiedono soggetti molto brevi, o essere affiancati da un regista, che conosca e indichi tutta la parte tecnica. Mi dispiace aver iniziato ora, senza aver fatto una scuola, perché che ora è tardi.

Hai altre opere nel cassetto?

Ho scritto una commedia, che ha vinto un premio, e nel cassetto ho una serie di racconti, che farò uscire, e che hanno gli animali come denominatore comune: animali che trionfano sempre, come in “Un tesoro di cane”, “Il risveglio” e “Laurea ad honorem”, finalisti del Premio Letterario Mario Soldati. Infine sto scrivendo un altro romanzo, “Ricostruzioni”, sullo scandalo negli anni Sessanta della Pedemontana; anche qui ci sono un’indagine e al centro un cane lupo, Uto, sempre presente, un po’ come il Gatto Aldo.

.......

dall'articolo da lavocedigenova.it

QUENTIN TARANTINO: “Ero un piccolo etologo che osservava gli adulti nel loro habitat naturale”

QUENTIN TARANTINO da piccolo al cinema filmAll’epoca i miei giovani genitori andavano spesso al cinema e di solito mi portavano con loro. Avrebbero potuto piazzarmi da qualche parte (mia nonna Dorothy era quasi sempre disponibile), ma invece mi portavano con loro. Un motivo era perché sapevo tenere la bocca chiusa.
Di giorno mi era consentito essere un bambino normale che faceva domande stupide ed era infantile, noioso ed egoista come di solito sono i bambini. Ma se la sera mi portavano al ristorante, in un pianobar dove suonava Curt, in un locale notturno (cosa che ogni tanto succedeva) o al cinema – a volte addirittura con un’altra coppia – sapevo che erano cose da grandi. E se volevo partecipare alle cose da grandi, era meglio che non rompessi troppo i coglioni.

Leggi tutto: QUENTIN TARANTINO: “Ero un piccolo etologo che osservava gli adulti nel loro habitat naturale”

Vi presento il mio MONET – Parla lo sceneggiatore GIORGIO D’INTRONO

Claude Monet Quando Claude Monet dipingeva – cioè quasi sempre – a nessuno era permesso interromperlo. Perfino il suo barbiere gli girava attorno con cautela, lasciandogli tra un colpo di forbici e l’altro lo spazio per muoversi, pennello in mano, nell’atelier en plein air di Giverny.
A raccontarcelo è Giorgio D’Introno, sceneggiatore di Le Ninfee di Monet. Un incantesimo di acqua e luce, che vedremo al cinema con la regia di Giovanni Troilo. Un rapporto quasi intimo ormai, quello tra Monet e D’Introno, scaturito da due anni di assidua “frequentazione”: da un episodio della serie Sky “Capolavori perduti”, cui Giorgio ha collaborato in veste di autore, fino al film targato Ballandi Art e Nexo Digital che, in un flusso di immagini cangianti, ci porta al cuore dell’arte di Monet attraverso la storia di un capolavoro unico, la Grand Décoration.
 
“Quando scopri l’uomo oltre l’opera, ti sembra di guardare per la prima volta la sua arte. Hai la sensazione surreale di essere lì al suo fianco”, spiega D’Introno: “Leggendo tutto quello che è stato detto su Monet, quanto lui stesso scriveva o lasciava trasparire nelle sue lettere, soffermandomi sulle relazioni che intesseva, ho scoperto un uomo dalla vita interessante, degna di un romanzo. Durante le riprese a Giverny ci sembrava quasi di essere i suoi vicini, liberi di entrare in casa e vedere che cosa stesse facendo. Questo ci ha dato uno straordinario senso di intimità, tanto più che Monet era molto restio a far entrare degli sconosciuti nel suo spazio privato”.

Che cosa ti ha colpito dell’uomo Monet?
“Sicuramente la grandissima determinazione di un uomo che non si è mai arreso di fronte agli insuccessi, alla vecchiaia, ai problemi di vista, alla guerra o ai lutti familiari. Proprio quando tutto sembrava perduto, ha trovato il modo di abbracciare quanto gli stava accadendo e avviare quella che forse è la più grande opera della sua vita, sicuramente una delle più grandiose della storia dell’arte di quel periodo. Una forza d’animo sconfinata che sarei felice di poter ritrovare alla sua età”.
 
Claude Monet 1Che tipo di taglio avete adottato per raccontare il padre dell’Impressionismo?
“Abbiamo scelto di concentrarci sulla figura artistica di Monet e su quello che aveva intorno, dalla temperie culturale al clima politico e sociale dell’epoca, tralasciando consapevolmente il gossip che può circondare un artista.
Ma per parlarne abbiamo usato un taglio speciale: l’amicizia con Georges Clemenceau, un uomo politico decisamente in vista, primo ministro e ministro della guerra francese negli anni caldi del primo Novecento. Conosciamo l’uomo Monet attraverso questa grandissima amicizia, per poi immergerci nell’impresa della Grand Décoration e nelle sue motivazioni”.
 
Quali sono gli aspetti più interessanti dell’amicizia tra Claude Monet e Georges Clemenceau?
“In primo luogo il fatto che non parlassero mai di politica. Pare che Monet non abbia mai votato in vita sua o che lo abbia fatto una sola volta. Frequentava l’uomo più potente di Francia, ma era un artista e la politica non gli interessava.
Clemenceau dal canto suo è stato il più grande sostenitore di Monet: è stato lui a voler portare la Grand Décoration al Musée de l’Orangerie, facendone non solo un monumento alla vittoria, ma anche un omaggio all’amico. Ha dedicato un libro alle Ninfee e ha continuato ad andare ad ammirarle anche quando le sale dell’Orangerie sono rimaste deserte e quest’opera magnifica abbandonata all’incuria.
Mi ha sorpreso l’umanità, la semplicità quotidiana con cui due uomini così in vista vivevano la loro amicizia. Clemenceau, per esempio, era uno dei pochi che potevano irrompere in casa di Monet in qualsiasi momento, spesso arrivando a gran velocità a bordo della sua automobile. I due avevano diverse passioni in comune, dal giardinaggio alle stampe giapponesi. Mi viene quasi da dire che Clemenceau fosse un Monet mancato, tanto simili al di là della politica erano i loro interessi”.
 
film Claude Monet Woman with a ParasolMonet è passato alla storia come il maestro dell’arte dell’istante. Come sei riuscito a trasformare il suo universo lirico in un racconto cinematografico?
“Trovo che l’immagine in movimento sia forse il modo migliore per raccontare Monet: in fondo è proprio quello che lui cercava di fare. Stiamo parlando del periodo in cui il cinema muove i primi passi, la fotografia evolve e inizia a sperimentare: l’immagine fissa è già quasi superata quando Monet decide di catturare i suoi istanti fugaci su tele che cambiano davanti a tuoi occhi, in base al tuo punto di vista e a seconda della luce.
L’impressione è che lui stesse cercando di coinvolgere lo spettatore in un’esperienza nuova, di mettere la pittura in rapporto con il tempo e con il movimento, ma non solo: la Grand Décoration è un’installazione immersiva ante litteram, quasi un esperimento di realtà virtuale o di realtà aumentata. Per accorgersene basta fermarsi davanti alle tele e lasciare che il tempo e la luce facciano la magia di trasportarti accanto all’artista sul lago delle ninfee. Come è successo a noi durante le riprese, quando abbiamo avuto il privilegio di contemplare i dipinti dell’Orangerie in totale solitudine. E con il nostro film proviamo a restituire agli spettatori proprio questa possibilità”.
 
A proposito di fotografia, la luce e il colore hanno un ruolo da protagonisti nel film... Che cosa puoi dirci del contributo della fotografa fiamminga Sanne De Wilde?
“Non è un caso che tra le persone intervistate durante le riprese ci sia una fotografa che ha realizzato una ricerca molto particolare: un progetto dedicato agli abitanti di un’isola del Pacifico che soffrono di acromatompsia, cioè totale assenza di percezione del colore.  Sanne è stato il link che cercavamo per parlare dei problemi di vista che in vecchiaia hanno alterato le percezioni di Monet, ma anche per collegarci al mondo della fotografia: gli impressionisti scomponevano lo spettro della luce in elementi più semplici, che è proprio quello che fa la fotografia”.
 
A un certo punto, la storia irrompe nell’incanto di Giverny con la violenza della Grande Guerra: Monet decide di fare delle Ninfee un monumento alla vittoria e alla pace…
“La guerra entra fisicamente in casa di Monet con le urla dei feriti del vicino ospedale da campo, mentre il villaggio di Giverny si svuota e il bellissimo giardino dell’artista va in malora perché anche i giardinieri sono spariti.
Tutta la Francia si mobilita, molti artisti sono impegnati sul campo di battaglia e Guirand de Scèvola inventa il camouflage militare sulla base della scomposizione impressionista del colore. Monet decide di dare il proprio contributo con la pittura, di opporre resistenza con l’arte a quelli che lui chiama i ‘barbari’ perché oltre alla popolazione francese minacciano icone di cultura come la cattedrale di Reims. In barba a tutte le difficoltà che gli si presentano, porta avanti con incredibile fermezza l’impresa della Grand Décoration, il lascito più importante che possa fare alla nazione. I salici piangenti e i ponti giapponesi insanguinati che dipinge in questo periodo portano i segni del suo disprezzo per la guerra”.
 
Quali sono state le fonti determinanti per questo progetto?
“Provo un sentimento di gratitudine immensa verso Ross King, autore di un’opera - Il mistero delle Ninfee. Monet e la nascita della pittura moderna - che ho letto prima di ricevere l’invito a collaborare a questo film. Un libro che poi mi ha aperto molte strade, eccezionale per la profondità e il modo di raccontare, ma anche inattaccabile dal punto di vista delle fonti. Nel mio lavoro la ricerca è spesso la parte più onerosa. Oltre che una fonte di ispirazione e una piacevole lettura, il libro di Ross King mi ha fornito una preziosa bibliografia, grazie alla quale, per esempio, ho potuto attingere all’opera di Daniel Wildenstein (Il trionfo dell’Impressionismo, n.d.r.), al corpus delle lettere di Monet e agli scritti di Clemenceau”.
 
Quali sono state le scoperte più intriganti in fase di ricerca?
“L’aspetto umano e terreno dell’autore di meraviglie così evanescenti da sembrare ultraterrene: i suoi vizi, i suoi capricci, la quotidianità. Una dimensione colorita che nel film abbiamo tralasciato per questioni di taglio e che tuttavia mi ha avvicinato moltissimo a Monet.
Per esempio ho appreso che era un fumatore accanito e che non lasciava mai spegnere una sigaretta prima di averne accesa un’altra. Mi sono chiesto come riuscisse ad avere tante sigarette anche in tempo di guerra e ho scoperto che a questo scopo Monet era capace di muovere attraverso fili invisibili personaggi anche molto potenti.
Come ho accennato, poi, l’artista non faceva entrare nessuno nel suo giardino al di fuori di pochi selezionatissimi ospiti e il suo attaccamento alla pittura era tale che tutto il resto della vita poteva solo scorrerle attorno rispettosamente: un’indicazione valida anche per il barbiere, a cui tra l’altro Monet aveva tassativamente proibito di toccare la sua barba”.
 
E sul set, com’è andata?
“Ho avuto la fortuna di essere sempre sul set e di girare il film insieme a Giovanni Troilo e a quelli che chiamo i nostri contributors: Ross King, Elisa Lasowki, Sanne De Wilde, Claire Hélène Marron. Giovanni è una persona che riesce sempre a sorprendermi: ha una visione molto personale degli argomenti che affronta. Dalla scrittura fino all’ultimo giorno delle riprese, abbiamo vissuto insieme un viaggio che mi ha arricchito moltissimo.
Uno degli aspetti più esaltanti è stato attraversare la Francia seguendo il corso della Senna, una sorta di spina dorsale della vita di Monet: un fiume che lo ha ossessionato fin da ragazzino e che lui si è portato dentro per sempre, fino a sentirsi in diritto di deviare un suo affluente per portarlo nel proprio giardino. Cercare di capire cosa lo avesse così ossessionato è stata una sfida interessante.
Ma l’impresa più difficile è stata seguire Monet nel suo sforzo di mostrare come il mondo cambi con la luce a ogni ora del giorno: ‘raggiungere l’irraggiungibile’ e ‘afferrare l’inafferrabile’ si è rivelato alquanto faticoso nelle lunghe giornate estive del Nord della Francia, dove il sole sorge alle 4.30 del mattino e tramonta del tutto dopo le 23. E pensare che per Monet questa era la norma, anche sotto la pioggia o con la neve”.
 
Dal tuo punto di vista, quali emozioni o messaggi possono comunicare al pubblico attuale l’arte e la storia di Monet?
“Probabilmente non c’è una risposta univoca. In un museo tu ti fermi mezz’ora davanti a un dipinto e gli altri passano oltre. Il segreto è tutto lì, nella maniera di fruire l’arte che è diversa per ciascuno di noi.
Con Le Ninfee di Monet. Un incantesimo di acqua e luce abbiamo cercato di offrire uno spettacolo per gli occhi, un godimento visivo concentrato in 90 minuti, che consenta a chi guarda il film di scoprire o riscoprire Monet e di innamorarsene. Sono estremamente felice e soddisfatto di quello che gli spettatori potranno vedere in sala, è davvero uno spettacolo strabiliante, una nuova lente per guardare Monet attraverso il cinema. C’è tanta bellezza in questo film: in buona parte è grazie Monet, il resto è merito di Giovanni Troilo”.
 
Articolo di  FRANCESCA GREGO per arte.it del 19/11/2018

Nel backstage di “MICHELANGELO INFINITO”. Parla la sceneggiatrice SARA MOSETTI

film MICHELANGELO INFINITO..... Prima di lasciarci travolgere dall’impeto di un genio in versione cinematografica, scopriamo con la sceneggiatrice Sara Mosetti i segreti di una produzione ambiziosa, che promette interessanti sorprese.
“Michelangelo infinito" è stato descritto come un punto d’arrivo nel dialogo tra il cinema e l’arte, che trova compimento in un “film di autorevole finzione”. Quali sono le novità di questo progetto?
Se ripercorriamo la storia del cinema d’arte di Sky, vediamo che è iniziata con documentari molto rigorosi, privi di elementi narrativi. Poi in “Raffaello – Il Principe delle Arti” abbiamo visto in scena attori muti e in “Caravaggio – L’Anima e il Sangue” abbiamo potuto ascoltare la voce intima dell’artista, il cui flusso era però interrotto dal commento dei critici.
Qui abbiamo provato a tenere voci e punti di vista differenti tutti dentro il racconto, senza mai uscire dal tempo di Michelangelo, e contemporaneamente a conservare l’autorevolezza di un documentario, grazie alla consulenza scientifica rigorosa dello storico dell’arte Vincenzo Farinella che ha garantito sulla veridicità storico-critica dei contenuti.
 
Quali sono gli aspetti della figura di Michelangelo Buonarroti che più hanno attratto la tua attenzione di donna e di sceneggiatrice?
Michelangelo mi ha colpita perché è un personaggio molto moderno, forse il primo artista nel senso attuale del termine: è tormentato, le sue energie sono interamente assorbite dall’attività creativa, ha una vita povera di relazioni ed è anche invidioso dei colleghi. Lui stesso racconta nelle sue lettere che ha problemi con il denaro e si dispera perché il suo talento non viene riconosciuto. Sono sentimenti molto vicini a quelli che prova oggi un creativo, come sono anch’io, e mi sembra che con Michelangelo compaiano per la prima volta nella storia.
 
Che effetto fa portare al cinema un gigante dell’arte? Che emozioni ti ha dato rapportarti a una figura così intensa?
Quando Cosetta Lagani (la direttrice creativa di “Michelangelo infinito" n.d.r.) mi ha telefonato per propormi questo lavoro, ho provato un terrore cieco: provengo dal mondo del cinema e della fiction televisiva e non mi mai ero mai occupata né di arte né di documentari. Però conoscevo gli altri meravigliosi lavori di Cosetta e la proposta mi ha subito galvanizzata. Anche se in modo nuovo, si trattava di costruire una storia, che è quello che ho sempre fatto.
La parte più interessante è stata entrare in relazione con il Michelangelo che pian piano prendeva forma nella mia immaginazione mentre andavo avanti nella lettura delle fonti, entrare in sintonia con lui come con una persona che avessi realmente incontrato. E anche tornare a studiare a quarant’anni è stato molto stimolante.
 
Quali sono le fonti su cui poggia la narrazione di “Michelangelo Infinito”?
Prima di tutto i racconti dei biografi contemporanei dell’artista, Giorgio Vasari e Ascanio Condivi. Abbiamo preso in esame le Vite di Vasari nelle due edizioni del 1550 e del 1564, tra le quali a fare la differenza è una cruciale revisione che riguarda proprio Michelangelo: nell’anno della morte del maestro, lo scrittore va orgoglioso dell’amicizia con colui che è già riconosciuto unanimemente come un genio.
Rispetto a Vasari, Condivi offre una versione alternativa di molti fatti: secondo alcuni scrive sotto dettatura dello stesso Michelangelo, che desidera correggere le verità riportate dal suo primo biografo.
E poi ci sono gli scritti autografi dell’artista: le lettere, conservate nell’Archivio Buonarroti, e le Rime. Uno spaccato dell’intimità e del quotidiano di Michelangelo, come spiega lui stesso a Vasari inviandogli i suoi componimenti: ‘Messer Giorgio, io vi mando due sonetti e benché sia cosa sciocca il fo perché veggiate ond’io tengo i miei pensieri’.
Tra le letture di autori contemporanei, invece, mi ha molto colpita Vita di Michelangelo del Premio Nobel per la Letteratura Romain Rolland: un romanzo dalla struttura meravigliosa, che sviluppa in forma di libro il nostro concetto di “autorevole finzione” e fa appassionare il lettore al personaggio come sanno fare i grandi scrittori.

Un universo composito e ricco di spunti. Come hai fatto a trasformarlo in una storia per il cinema?
La struttura del film ruota intorno a due “limbi”, due realtà sospese nel tempo in cui prendono forma il racconto di Vasari e quello di Michelangelo, ambientato nelle cave del marmo di Carrara: un orizzonte già ben definito da Cosetta Lagani e dal regista Emanuele Imbucci quando ho iniziato a lavorare alla sceneggiatura.
Da parte mia sono partita dallo studio delle opere ed è stata una scoperta. Oltre ad approfondirne la conoscenza ho dovuto mettere a punto un linguaggio nuovo, più caldo rispetto a quello dei critici ma autorevole e preciso, in una sfida per me assolutamente inedita.
Poi mi sono spostata in una dimensione che mi era più congeniale, quella del Michelangelo uomo, e ho iniziato a immaginarlo come personaggio. Tra le informazioni reperite nelle mie letture ho scelto quelle che ne esprimevano meglio l’umanità e i sentimenti.
Infine ho cercato in tutti i modi di mantenermi fedele alle fonti originali a partire dalla lingua: con leggeri interventi di italianizzazione, anche una prosa apparentemente poco fruibile come quella di Vasari è diventata scorrevole e facilmente comprensibile, pur conservando atmosfera ed espressività.
 
Mostrare, raccontare, coinvolgere: è stato difficile tenere insieme le molteplici dimensioni di quest’opera?
L’equilibrio è venuto da sé, come in una partitura musicale: ci si lascia guidare dall‘armonia. Nel film trovano spazio momenti emotivi, narrativi, momenti di alleggerimento… Ma il cuore di “Michelangelo Infinito” è nella descrizione delle opere e nello sguardo sui capolavori originali, che grazie a riprese in ultra definizione diventano visibili come se le di osservasse dal vivo e a distanza ravvicinata.

dall'Intervista di FRANCESCA GREGO per arte.it

Claude Lelouch: La vita è la più grande sceneggiatrice

Lelouch regista 2Ben 47 film all’attivo, due premi Oscar “nello zaino” (come dice lui) tre nuovi lungometraggi in preparazione. A 81 anni suonati Claude Lelouch, presidente di giuria al Festival di Montecarlo by Ezio Greggio, in gran forma, se la ride come un bambino. E con la semplicità di chi ama la vita («Amo tutto della vita: il freddo e il caldo, il mare e la montagna») si presta al “gioco” dell’ennesima intervista della giornata, tra una proiezione e l’altra, con un sorriso bonario.
Maestro, lei che è sempre dietro la macchina da presa, come si trova nel ruolo di presidente di giuria?
È il mio secondo mestiere: sono esperto di presidenze. Adoro vedere in anteprima i film degli altri che non sempre arrivano nelle sale francesi. Per questo quando me lo propongono, se non ho impegni già presi, dico sempre di sì.
Dopo tanti anni e tantissimi film, cosa rappresenta per lei il cinema oggi?
È la mia distrazione preferita: in pratica sono in vacanza da sessant’anni.
Domenica si assegnano gli Oscar: che ricordi ha della sua notte di gloria (nel 1966 vinse due statuette con “Un uomo, una donna”, ndr.)?
Lelouch registaAvevo 27 anni e non ho capito cosa stava succedendo. Arrivato a Los Angeles, dopo aver rifiutato il tour in Usa perché impegnato a girare, il fattorino che si occupò di portare le mie valigie in camera mi disse: «Stasera lei avrà ben due Oscar.  Ho portato il tè al Comitato, e ho sentito che avete vinto». Il tipo ha avuto una bella mancia… Così al momento della premiazione, avevo 5 nomination, ebbi la conferma. La serata di festa fu memorabile in compagnia di Steve McQueen e altre star del cinema. Alle 2 sono partito per Saigon dove giravo un film corale, con altri registi, sulla guerra del Vietnam. A Saigon salii sulla portaerei che ospitava undici amache per dormire: fu allora che tirai fuori le due statuette dallo zaino e la vista dei premi mi fece guadagnare la stanza d’onore del comandante.
Le capita di rivedere i suoi film?
Solo nei festival quando fanno qualche retrospettiva…
Lei ha sempre raccontato l’amore nel suo cinema. Perché?
Penso sia il soggetto principale dell’umanità. Mi sono sempre chiesto come mai ci si batta tanto per finire a letto insieme e, poi, si combatta altrettanto per uscire da quel letto. Tutto si fa per essere amati: è la storia del mondo.
Lelouch adora?
Le storie d’amore e le donne. Io faccio i film per loro che mi hanno insegnato tutto. Alle donne devo quel che sono oggi.
Come definirebbe le donne? Cosa rappresentano per lei?
Sono semplicemente degli uomini riusciti bene. Vede, io ho difficoltà ad avere amici uomini, non m’ispirano fiducia. Mentre, ogni tanto, posso avere fiducia in una donna.
Perché non si fida degli uomini?
Sono imbroglioni patentati, giocatori di poker camuffi…Sì, anche io sono un uomo e ne ho tutti i difetti. E, sì, anche le donne a volte giocano sporco, ma quando amano si danno completamente senza riserve.
Cos’è un film per lei?
Un reportage sul genere umano, un racconto sulla bellezza e sugli orrori di cui siamo capaci. È la vita la più grande sceneggiatrice: ma non è citata nei titoli di coda.
Nell’era del web, come vede il futuro del cinema?
Io credo solo nella sala e nel grande schermo: non potrei mai concepire i miei film altrove. Sono cresciuto nei cinema.
Lelouch regista 3La vita secondo Claude Lelouch?
Una corsa a ostacoli dove ogni volta c’è una “merda” da superare e se non combattiamo non abbiamo diritto alla felicità.
Progetti prossimi venturi?
Ho tre film in cantiere: uno, in particolare, l’ho iniziato 60 anni fa e spero di terminarlo presto. È un po’ il giornale della mia vita: ho avuto grandi amori con 5 donne e 7 figli ne ho da raccontare…
Fuori i titoli!
“I più begli anni della mia vita”, “La virtù dell’imponderabile”, “Oui et No” (le parole più usate dall’umanità).
Per fare un buon film occorre cosa?
La sincerità: parlare di ciò che si conosce è la prima regola. D’altronde con sette miliardi di persone al mondo abbiamo altrettanti scenari possibili e ben sette miliardi di sceneggiature. Ognuno ha almeno una vita da raccontare e ciascuno è protagonista della propria con sette miliardi di comparse intorno a sé.
 
Intervista di ORIETTA CICCHINELLI per metronews.it del 01-03-2018

Martín Desalvo adatta liberamente un racconto di Horacio Quiroga in "Figlia"

Girato a Misiones, il film racconta il rapporto teso tra una ragazza e suo padre dopo la misteriosa morte di sua madre. "Mi interessa fare un film che mescoli il fantastico e il drammatico, in modo che ci faccia pensare e ci metta alla prova come persone", dice il regista.

Come nasce la storia del legame familiare in questo particolare contesto?
FIGLIA di Martín DesalvoNel 2016 con Francisco Kosterlitz eravamo in pieno studio per sviluppare la sceneggiatura di El silencio del cazador  (2019) nella provincia di Misiones. A quel tempo si sapeva che l'INCAA avrebbe lanciato un bando per film a basso budget e il produttore ci ha chiesto se avevamo qualcosa da presentare. Ero interessato a lavorare di nuovo con il genere, poiché la mia esperienza con The Day ha portato l'oscurità (2013) è stato molto positivo. Con Francisco abbiamo iniziato a valutare le possibilità e tra i riferimenti testuali che avevamo abbiamo trovato il racconto di Quiroga “El hijo”. Il racconto ha quella meravigliosa capacità di Quiroga di trasmettere emozioni da una situazione fantastica che è il germe da cui mi piace partire quando lavoro con il genere. Così abbiamo deciso di fare un adattamento, abbastanza gratuito tra l'altro, e abbiamo iniziato a scrivere. Nella storia di Quiroga il protagonista è un ragazzo di circa 12 anni e ci sono solo il padre e il figlio. Ci è sembrato più interessante che sia un adolescente proprio per il conflitto di età, che è dove si è più concentrati sulla ricerca della propria identità e sul destino della propria vita. L'idea che fosse una giovane donna invece che un ragazzo è venuta a Mora Recalde e questo ha reso la sceneggiatura un colpo di scena ancora più interessante. Mettendo una donna in quel mondo scarno e tetro, ha reso più complesso l'atteggiamento di Juana nei confronti della vita in quel mondo solitario e isolato. E poi sorge la domanda ovvia; Cosa è successo alla madre, dov'è adesso? Quella figura importante, indispensabile per una famiglia, ci ha portato a immaginare i possibili scenari. E da questa assenza si comincia a costruire il conflitto familiare. La madre appare solo in una vecchia foto e non se ne parla mai. Sembra che ci sia una sorta di tabù sulla sua morte. E questo è precisamente l'innesco iniziale del conflitto interno di Juana. È a partire da questa domanda che il protagonista mobilita tutto il suo mondo e rivoluziona quel nucleo familiare. Ha reso più complesso l'atteggiamento di Juana nei confronti della vita in quel mondo solitario e isolato. E poi sorge la domanda ovvia; Cosa è successo alla madre, dov'è adesso? Quella figura importante, indispensabile per una famiglia, ci ha portato a immaginare i possibili scenari. E da questa assenza si comincia a costruire il conflitto familiare. La madre appare solo in una vecchia foto e non se ne parla mai. Sembra che ci sia una sorta di tabù sulla sua morte. E questo è precisamente l'innesco iniziale del conflitto interno di Juana. È a partire da questa domanda che il protagonista mobilita tutto il suo mondo e rivoluziona quel nucleo familiare. Ha reso più complesso l'atteggiamento di Juana nei confronti della vita in quel mondo solitario e isolato. E poi sorge la domanda ovvia; Cosa è successo alla madre, dov'è adesso? Quella figura importante, indispensabile per una famiglia, ci ha portato a immaginare i possibili scenari. E da questa assenza si comincia a costruire il conflitto familiare. La madre appare solo in una vecchia foto e non se ne parla mai. Sembra che ci sia una sorta di tabù sulla sua morte. E questo è precisamente l'innesco iniziale del conflitto interno di Juana. È a partire da questa domanda che il protagonista mobilita tutto il suo mondo e rivoluziona quel nucleo familiare. essenziale per una famiglia ci ha portato a immaginare i possibili scenari. E da questa assenza si comincia a costruire il conflitto familiare. La madre appare solo in una vecchia foto e non se ne parla mai. Sembra che ci sia una sorta di tabù sulla sua morte. E questo è precisamente l'innesco iniziale del conflitto interno di Juana. È a partire da questa domanda che il protagonista mobilita tutto il suo mondo e rivoluziona quel nucleo familiare. essenziale per una famiglia ci ha portato a immaginare i possibili scenari. E da questa assenza si comincia a costruire il conflitto familiare. La madre appare solo in una vecchia foto e non se ne parla mai. Sembra che ci sia una sorta di tabù sulla sua morte. E questo è precisamente l'innesco iniziale del conflitto interno di Juana. È a partire da questa domanda che il protagonista mobilita tutto il suo mondo e rivoluziona quel nucleo familiare.    

La descrizione della routine del luogo è molto genuina, quasi documentaristica, immagino che abbia richiesto molte ricerche preliminari.
Sì, la verità è che c'è molto lavoro investigativo, soprattutto da parte di Francisco che, oltre a indagare per El silencio del cazadorSviluppo anche diversi capitoli di documentari nell'area. Quando abbiamo iniziato con l'adattamento della storia, ci siamo trovati anche noi con la necessità di dare corpo a quella famiglia. di cosa vivono? A cosa servono e come funzionano o la mancanza di lavoro li modifica? Quindi farli lavorare con la produzione artigianale di carbone ci ha dato un doppio significato. Un senso pratico in cui questa dura vita di sussistenza nella zona viene raccontata in modo quasi documentaristico e anche un'importante possibilità metaforica. Carbone come elemento magico metaforico; È molto comune nella zona "leggere" il carbone. Il forno, il fuoco e le sue possibilità estetiche quando si tratta di generare immagini è anche qualcosa di molto interessante e unico da vedere in un film.

Ci parli della selezione degli attori
I tre attori principali hanno caratteristiche diverse e sono stati scelti per motivi diversi. Avevo lavorato con Jazmin in una serie che ho diretto Malicia ed è stato un suggerimento di Mora quando stavo pensando a un possibile cast. Aveva lavorato con Bruno in Il silenzio del cacciatore e ho pensato che potesse essere perfetto per il ruolo. E lavoro con Mora da cinque film e lei ha sempre una capacità di consegna, generosità e versatilità quando si tratta di comporre i suoi personaggi che la voglio sempre nella mia squadra. Ma se dovessi definire un'unica qualità che li racchiude tutti e tre, direi che tutti e tre sono ottimi attori. Il loro livello di impegno, il modo in cui mettono corpo e anima nel loro lavoro e il modo in cui riescono a trasmettere verità ed emozione nelle loro composizioni sono un fattore comune che li ha resi il cuore emotivo del film. 

La giungla acquista un'importanza particolare nella trama, come hai scelto la location?
La provincia di Misiones ha quel particolare magnetismo della terra rossa e l'esuberanza della giungla. È anche una delle particolarità che rendono così speciale il lavoro di Quiroga. Quando eravamo lì a fare ricerche per la creazione della sceneggiatura, abbiamo visitato la sua casa e poi abbiamo immaginato e compreso la vera dimensione di come doveva essere vivere nel mezzo della giungla in quel momento. È qui che si apprezza davvero la meravigliosa complessità del “monte” (come lo chiamano i locali). Addentrandosi nella giungla è impossibile non sentire l'energia vitale che emana da quel luogo e quanto sia difficile vivere in quell'ambiente. È anche notevole come una visione spirituale di quella giungla sia radicata nella cosmogonia del luogo, che è piena di miti e leggende pagane che sono una parte essenziale della vita e delle credenze del luogo. 

Il film inizia con la forma di un dramma familiare per diventare un thriller, hai pensato alla struttura del genere o è stata la storia a segnare la storia?
Sono consapevole di questo incrocio di generi e mi sembra che sia un bellissimo veicolo per contrabbandare emozioni in modo efficace, intrattenendo lo spettatore e allo stesso tempo facendolo riflettere. Mi interessa fare un cinema che mescoli il fantastico e il drammatico, in modo che ci faccia riflettere e ci interroghi come persone. Mi piace correre il rischio di mescolare i generi, anche se questo di solito è visto come un problema quando si definisce un film. Ma mi sembra più importante essere onesto con il proprio lavoro piuttosto che cercare di inserirsi nel mercato.

C'è un lavoro sensoriale di sperimentazione adolescenziale che si trasferisce alla sperimentazione formale, con montaggi e immagini surreali, quali sono state le linee guida per la post produzione in tal senso?
Questo è un aspetto che era delineato nella sceneggiatura ma che non ha avuto uno sviluppo concreto. Infatti, quando abbiamo iniziato le riprese a Misiones per mancanza di tempo, si è deciso di ridurre al minimo quella risorsa e si è girato molto poco. Poi, in fase di montaggio, non c'era modo di chiudere la storia senza quelle immagini, che sono frammenti di ricordi distorti dal tempo, che appaiono a Juana nella sua mente. Ricordo che dissi a Tambornino (il montatore) tutto ciò che credevo si potesse contare con queste immagini che non esistevano e che sentivamo che senza questo materiale il film non si poteva contare. Quindi abbiamo deciso di generare quel materiale, filmando le scene che ora sono nel montaggio finale e che si sono rivelate fondamentali per la comprensione.

Intervista di Emiliano Basile per escribiendocine.com

 

Una sfida, un sogno e un viaggio di Matías Desiderio attraverso "Car 24"

Matías Desiderio film cortometraggiPrimi passi del suo esordio. L'attore, regista e sceneggiatore ha parlato del film che lo vede davanti e dietro la macchina da presa. “Car 24 è il risultato di tutto quello che ho imparato durante la mia carriera”, ha sottolineato. Pablo in Palermo Hollywood (2004) è stato uno dei suoi primi e popolari personaggi sul grande schermo, mentre Nicolás in The Last Zombie (2022) è stato uno dei più recenti. Nel corso degli anni, Matías Desiderio ha interpretato molteplici ruoli attraverso diversi formati audiovisivi. Tuttavia, Car 24 ha un significato speciale, poiché, oltre ad essere il suo primo film da regista, è un progetto a cui ha partecipato anche come attore protagonista, produttore e co-sceneggiatore. Dialogando con EscribiendoCine , ha raccontato i dettagli della sua esperienza arricchente.

Car 24 nasce come cortometraggio e finisce per diventare un lungometraggio: cosa ha motivato l'estensione del racconto audiovisivo?
In realtà, venivo da un provino in cui ero stato molto vicino ad afferrare un personaggio. Mi sono trovato in un bar con un amico che fa il regista (Salvatore di Costanzo), gli ho detto un po' scoraggiato che volevo davvero girare in inglese e non mi era stato dato quel ruolo, e lui mi ha chiesto: ' Ho un'idea che mi piace molto per un cortometraggio'. Si trattava di due sicari molto diversi e sconosciuti che dovevano uccidere qualcuno, erano chiusi in un'auto per qualche motivo e non potevano andarsene finché il bersaglio non fosse uscito, era in ritardo, il che ha generato una specie di bomba a tempo, oltre nel caldo soffocante della California.

Ho pensato che fosse un'idea fantastica e ho proposto di farne un lungometraggio. Mi ha guardato, ha riso, e da quella notte ho cominciato a scrivere, e sono stato così, come un ossessivo, per tre mesi, dentro un appartamento a Los Angeles. Così è nata Car 24 ! Successivamente, abbiamo portato la sceneggiatura -che abbiamo co-scritto con Salvatore- a diversi produttori, pensando che forse non fosse successo niente, ma sono iniziate le prime conquiste, come l'ottenimento di finanziamenti.

Per me è stata una sfida tremenda, visto che fino a quel momento avevo diretto solo pochi videoclip e cortometraggi. Anche se avevamo una sceneggiatura, a volte era in qualche modo sperimentale.
Com'è stato il processo di ripresa?

Abbiamo girato il film nel corso di un mese. L'abbiamo girato in un posto molto pericoloso a Los Angeles: di giorno è un luogo di fabbriche e uffici, e di notte c'è molta prostituzione e spaccio di droga agli angoli. Ho sentito che dal momento che la storia si svolge lì, dovrebbe essere lì, e vediamo molti personaggi marginali nel film. Stavo facendo casting con persone reali e cercavo quelli che pulsavano che, in certi personaggi, potevano essere buoni. Per 15 giorni abbiamo girato le scene dell'auto, e poiché il film ha dei flashback e va in luoghi diversi, quelle sequenze sono state per le altre due settimane, più a Hollywood.

In una recente intervista a EscribiendoCine, in cui hai parlato del progetto, hai detto che non avresti ricoperto tutti quei ruoli contemporaneamente (recitazione, regia, sceneggiatura e produzione), ma hai consigliato di viverlo qualche volta perché è una grande scuola, cosa lezioni impari? hai preso?
Come regista, penso di dare molta importanza all'intuizione degli attori, ascoltando ciò che provano all'interno della scena, dando loro indicazioni, ma anche lasciandoli essere. D'altra parte, dai importanza a tutte le aree tecniche. Devi sapere quando lasciare andare il tuo ego e capire che qualcuno che ti è accanto può darti una soluzione a una scena, e quindi essere migliore di quello che stai vedendo. Si tratta di flessibilità alla ricerca dell'eccellenza, cercando di catturare una verità e trasmetterla. È successo qualcosa di collettivo, che ci ha fatto credere tutti nel progetto e spingere energicamente nella stessa direzione. Quanto ottenuto in Car 24 ha contribuito a raggiungere un risultato di cui sono orgoglioso.

Non esiste scuola migliore del campo. E salvo il giudizio se il film è buono o meno, per me è stata una grande scuola in cui ho imparato molto. Inoltre sono sempre stato molto curioso. Lavoro come attore da 20 anni e ho partecipato a molti set, quindi ho prestato attenzione a tutto ciò che c'è dentro, e questo mi ha dato un'idea delle varie aree all'interno di un film. Credo che Car 24 sia il risultato di tutto ciò che ho imparato durante la mia carriera, non solo come attore, ma anche guardando lavorare registi e altri ambiti. Ed è un sogno che si avvera, ho lottato molto per questo film, ci ho creduto molto fin dall'inizio. È stato un continuo convincere, e ho avuto la fortuna di incontrare persone che lo hanno fatto e che mi hanno accompagnato.

Prima della sua prima per il grande pubblico, il lungometraggio ha iniziato un percorso di festival...
Sì, l'abbiamo inviato a tre festival e ne abbiamo concordato uno, che è l'Arpa International Film Festival (Arpa IFF), che si tiene da 25 anni. Lì siamo stati nominati per "Miglior film", "Miglior regista" e "Miglior sceneggiatura". Quindi, siamo andati alla presentazione a Los Angeles, e abbiamo avuto la fortuna di incontrare alcuni noti personaggi di Hollywood, alcuni di loro dicevano 'Ho visto il film e l'ho adorato.' Abbiamo vinto il premio del pubblico che, secondo me, è uno dei più importanti. È stata davvero una carezza, una coccola che mi ha fatto capire che valeva la pena fare questo film, e che il mio impegno e quello di tutti i miei colleghi non era stato vano. Siamo saliti tutti sul palco ed è stata una serata meravigliosa. Per quanto riguarda la premiere, fortunatamente il film ha già una distribuzione.

Intervista di Matias E. Gonzalez per escribiendocine.com

 

La regista Kyndra Kennedy e i suoi consigli per i cineasti indecisi

Musicbed: Perché hai partecipato alla Musicbed Challenge 2020?

Kyndra Kennedy Cortometraggio cortoKyndra Kennedy: Il film che ho presentato per Musicbed Challenge era piuttosto personale. Il 2020 è stato un anno senza precedenti e stimolante, con tanta incertezza, emozioni accese e titoli polarizzanti. Musicbed Challenge è arrivata in un momento in cui avevo bisogno di uno sbocco creativo per ciò che stavo provando e osservando. Questa sfida mi ha permesso di creare un breve pezzo in cui sono stato in grado di esprimermi senza che nessuno mi interrompesse, tentasse di zittirmi o tentasse di invalidare la mia prospettiva. 

L'importanza del messaggio del film ha eclissato tutte le ambizioni di carriera che potevo avere in quel momento. Sono entrato perché avevo qualcosa da dire che potesse offrire un'idea di come si sentono le persone nella mia comunità. Musicbed Challenge mi ha dato uno sbocco e un motivo per fare un film che contava per me.

Qual è il vantaggio di partecipare a concorsi di cortometraggi?

Penso che sia un bene per la tua anima creativa creare qualcosa e pubblicarlo. 

Dal punto di vista sociale, penso che sia importante mostrare il tuo lavoro su una piattaforma con altri creativi in ​​modo da poter entrare in contatto con una comunità più ampia di registi. Ho incontrato e connesso a così tante persone dopo aver presentato un film in Musicbed Challenge. 

Dal punto di vista professionale, penso che sia un bene per la tua crescita vedere il tuo film guardato in modo critico. Ottenere feedback e incoraggiamento è positivo per la crescita. 

Alcuni feedback dei giudici sono stati davvero interessanti da ascoltare, così come critiche costruttive, che sostanzialmente dicevano "less is more" e che avrei potuto accorciare il mio film e avere un impatto ancora maggiore. E per un altro festival cinematografico, ho presentato una versione di 3 minuti dello stesso film e ho finito per vincere un premio. 

Penso che quello che scoprirai è che anche il giudice più critico ti mostrerà ancora un po' di amore e rispetto. Siamo tutti creativi. Conosciamo tutte le sfide del cinema, quindi vedremo cosa stai facendo senza farti vergognare, ma incoraggiandoti a continuare a creare e sfidare te stesso. 

Quali opportunità ti ha aperto vincere la Musicbed Challenge?

La vittoria mi ha davvero aiutato a far conoscere il mio nome, essendo presente in articoli e diversi blog e post online, incluso Forbes , il che è stato davvero fantastico. La vittoria mi ha messo sul radar di alcuni futuri clienti di produzioni cinematografiche, così come di altri cineasti che volevano collaborare con me. Ha anche creato una piattaforma per me per continuare a diffondere il messaggio del film e un punto di partenza per avere una conversazione difficile ma necessaria per aprire le menti potenzialmente e portare consapevolezza ai problemi nella mia comunità. 

In che modo vincere la Musicbed Challenge ha influito sulla tua carriera?

La vittoria mi ha dato fiducia come regista. È stata la convalida del potere della mia voce e l'uso del film per amplificare la mia voce e quella degli altri. Prima che arrivassero i risultati, mi sentivo già orgoglioso del mio film, e quell'orgoglio per il prodotto finale, e la sensazione di realizzazione nel vederlo fino in fondo, era di per sé una vittoria. 

Non devi vincere per beneficiare della competizione. C'è così tanto che puoi fare con un progetto completato. Avrò per sempre questo film per mostrare ciò che io e il mio team possiamo fare come cineasti. Senza la sfida, questo film potrebbe ancora essere un'idea nella mia testa che procrastino e non finirò mai per realizzare. 

Questo film non solo ha avuto un impatto sulla mia carriera, ma ha anche cambiato la mia vita. Ho incontrato nuove persone con cui collaborare e mi ha aperto le porte. Ho trovato la mia voce e realizzato il mio potere artistico. Ha davvero consolidato il mio perché. Voglio fare film che contano, film di cui posso stare a guardare e di cui essere orgoglioso. 

Cosa ti ha aiutato a scegliere la canzone giusta per il tuo lavoro?

L' app Musicbed è così facile da usare. È davvero un processo semplice e senza soluzione di continuità, sia che tu sappia esattamente di quale tipo di canzone hai bisogno (tempo, genere, stato d'animo) o che tu voglia solo cercare ispirazione. 

Quando cercavo una canzone, avevo già scritto la mia voce fuori campo e conoscevo lo stato d'animo, il genere e il tempo che stavo cercando. È stato uno di quei momenti in cui "lo so quando lo sento". quindi ho appena passato in rassegna le diverse canzoni di ogni categoria, recitando alcune righe per vedere se si adattava. Sono stato in grado di salvare i brani in una cartella di progetto finché non ho trovato quello giusto. Finì per essere una soluzione perfetta: tempo di esecuzione e tutto il resto. 

Cosa diresti a qualcuno sul recinto riguardo alla partecipazione a Musicbed Challenge?

Se sei indeciso, di solito è la paura o il dubbio a trattenerti. Per alleviare quella paura e incertezza, ti ricordo che non hai bisogno di un budget enorme o di troupe e attrezzature. Puoi fare un film con il tuo telefono! Diventa creativo, raccogli le tue risorse e fallo. Sia che tu abbia già un'idea che possa adattarsi alle linee guida della sfida o che tu crei qualcosa da zero, questa è una grande opportunità per vedere la tua idea fino in fondo e avere un film finito da aggiungere al tuo portfolio. 

Sfida te stesso e fallo per divertimento, non si tratta solo di vincere. Musicbed è un'ottima piattaforma per i cineasti per entrare in contatto con altri cineasti e vedere altri lavori che potrebbero ispirare il loro prossimo progetto. 

Ti sei mai sentito bloccato dal punto di vista creativo? In tal caso, come trovi i modi per sbloccarti?

Tutto il tempo. Dipende davvero da quale fase del processo creativo sono bloccato. Se sono bloccato a creare storie o personaggi di dialogo, posso guardare altri film o leggere sceneggiature e libri sul cinema e la regia. Il nerd in me si entusiasma nell'usare ciò che ho imparato. 

Quello che trovo è che di solito si riduce allo scopo o al tema più grande. Cosa sto cercando di dire e di conoscere davvero il mio perché . Devo riconnettermi con il motivo per cui voglio raccontare questa storia. Qual è lo scopo del film. Qual è lo scopo di questo personaggio o scena o linea di dialogo. Quindi posso eseguire il reverse engineering da lì. 

Altri modi per sbloccarsi sarebbero ispirarsi. A volte devi andare più in profondità, a volte devi uscire, letteralmente e figurativamente. Ottieni un'altra prospettiva. Forse ciò di cui hai bisogno sono degli occhi nuovi, qualcuno da cui puoi far rimbalzare le tue idee. Oppure può essere semplice come guardare altri film per trarre ispirazione da altri registi. 

Cosa c'è dopo per te?

Ho alcuni documentari in varie fasi di produzione. Compreso uno sulla riforma della giustizia giovanile e il lavoro di advocacy a Los Angeles, e una serie di docu che esplora la storia della ricchezza dei neri in America. Oltre a produrre e dirigere progetti originali, sto anche espandendo la mia società di produzione. Il mio obiettivo è acquisire finanziamenti per lo sviluppo di contenuti al fine di assumere creativi e personale per creare contenuti originali. Ciò alla fine fornirà opportunità ai creativi indipendenti e ai narratori sottorappresentati di creare contenuti da prendere in considerazione dalle principali reti e studi cinematografici / televisivi.

da musicbed.com

I mestieri del Cinema: Luciano Muratori, un artista del suono

Luciano Muratori fonicoPier Paolo Pasolini, Alberto Lattuada, Steno, Luigi Zampa, Carroll Ballard, Lina Wertmuller, Franco Zeffirelli, Klaus Kinski, Francis Ford Coppola, Michele Placido, Anthony Minghella: solo alcuni nomi della lunga lista di registi con i quali ha lavorato Luciano Muratori, fonico di presa diretta, un vero e proprio artigiano del cinema. Quella di Muratori è la storia di una famiglia praticamente nata e cresciuta a Cinecittà, dove prima della guerra i nonni gestivano la mensa, e dove poi papà Primiano, anche lui tecnico del suono, ha lavorato per tutta la vita.
Abbiamo incontrato Luciano a Roma nel quartiere Quadraro dove vive da sempre, per parlare insieme a lui del suo mestiere e delle sue esperienze: «Quello di tecnico del suono è un mestiere come tanti altri, nello specifico il termine con il quale si indica la mia professione è fonico di presa diretta cinematografica. A differenza delle altre tipologie di questo mestiere, quello della presa diretta cinematografica non è cambiato molto con il passare degli anni, questo perché a differenza degli altri fonda le sue radici negli anni 1930 (con la sincronizzazione del cinema) e ha sempre richiesto grande specializzazione fin dall’inizio, arrivando ai giorni nostri con gli stessi sistemi e protocolli tecnici di una volta, che non sono mai cambiati nemmeno con l’avvento del digitale».
Per seguire gli aggiornamenti e per rappresentare la categoria è nata nel 1986 l’Associazione Italiana Tecnici del Suono, di cui Luciano Muratori è stato alla guida per otto anni: «l’associazione esiste ancora e si è ampliata, sono entrati nuovi fonici, e continua la sua rappresentanza di questa categoria, anche se al giorno d’oggi rappresenta soltanto il 40 per cento dei fonici Italiani”.
A proposito di alcuni grandi registi con i quali Muratori ha collaborato, il fonico ci ha parlato di Pasolini, Coppola e Minghella: «Pasolini (conosciuto nel 1971 per il film “I racconti di Canterbury”) era una persona di estrema gentillezza e rispetto per chiunque, “dava del lei anche ai cani”, come disse una volta Ninetto Davoli. In tre mesi di faticose riprese in Inghilterra non l’ho mai visto nervoso o arrabbiato. Tra l’altro voleva girare il film senza fonici, poiché per sua esperienza lo riteneva inutile, ma alla fine per questione di regole sindacali io e mio padre fummo chiamati a lavorare sul set: a film montato Pasolini ci fece i complimenti per quel sonoro. Per quanto riguarda Coppola e Minghella mi sono sembrati simili, essendo tutti e due di origine italiana: quando venivano a girare in Italia prendevano troupe italiane invece che portarle dall’America. Ambedue dei grandi maestri, credo che lavorando in mezzo a noi si sentissero più italiani che americani. Ci terrei a citare l’organizzatore, lo stesso per tutti e tre i film che ho fatto con questi grandi registi: Alessandro Von Norman, per noi semplicemente Sandy, che non è più fra noi ma è stato uno dei più grandi organizzatori del cinema italiano e non solo, una di quelle figure professionali alle quali il
cinema americano vi si affidava come un punto di riferimento».
Per concludere, una riflessione sul cinema italiano di oggi e su Cinecittà: «Il Cinema Italiano attuale a differenza delle altre nazioni si è troppo plasmato alle necessità della TV; inoltre da noi non si è mai fatta una legge antitrust sulla distibuzione e questo significa che oggi le sale sono proprietà di pochi soggetti privati e pubblici: questo penalizza i produttori indipendenti, che non trovando distribuzione hanno cambiato mestiere.
Come tutte le cose anche il cinema cambia, l’importante è carpirne le buone prospettive e scartare quelle fallimentari, però per far questo ci vuole grande competenza e non è certo materia della politica. Riguardo a Cinecittà, oggi in questi stabilimenti c’è un tentativo di rilancio, tramite l’EIG con a capo Luigi Abete, che con un contratto del 1997 acquisì la gestione degli studios, ma non gli stabilimenti che rimangono pubblici e sotto tutela del MIBAC.
Solo un 20% della gestione è ancora in mano pubblica tramite l’ente Cinecittà Luce. Il brutto di questa vicenda è che solo apparentemente vuol passare come un rilancio per il cinema ma in realtà il piano prevede licenziamenti dei lavoratori interni, la costruzione di un nuovo teatro e di un albergo, un parcheggio per migliaia di posti auto e altro ancora. La domanda è d’obbligo: “Ma voi sapete come si gira un film?”. Da qui tutte le dimostranze e gli scioperi che la scorsa estate hanno visto i lavoratori di Cinecittà, gente di cultura, registi, autori, arrivare al presidio fuori lo stabilimento per dimostrare il loro disappunto. Non so come andrà a finire questa storia ma più volte ho spiegato loro che Cinecittà è conosciuta in tutto il mondo come l’ingresso del Cinema Italiano e se qualcuno la distuggerà dovrà prendersi le responsabilità nei confronti di chi verrà dopo di loro, e non credo che saranno encomiati sui libri del Cinema e della nostra cultura Cinematografica».

di Alessio Trerotoli per DiariCineClub n.3

Giovani ed emofilia. Intervista ad Alessandro Guida regista del corto "I miei supereroi"

I miei supereroi cortometraggioNel cortometraggio di Alessandro Guida si parla di emofilia attraverso le vicende di quattro giovanissimi in un camping estivo seguiti da due educatori. Grazie al riferimento ad alcuni dei supereroi i due ragazzi cercheranno di far capire ai più piccoli cosa significa essere come loro.

Alessandro Guida è il giovane e promettente regista del cortometraggio I miei supereroi, prodotto da MP Film, in collaborazione con Medusa. Nato dal concorso A fianco del coraggio, il corto affronta un tema importante, quello dell’emofilia. Una malattia rara, ma ancora esistente vista attraverso gli occhi di quattro bambini e due educatori. Alessandro Guida ci invita (e invita anche i protagonisti stessi e tutti coloro che soffrono di questa malattia) a guardare il mondo da un’altra prospettiva. Grazie a degli ottimi dialoghi e a delle buonissime interpretazioni anche da parte dei più giovani, Alessandro Guida presenta il suo corto con uno stile particolare, rivolto soprattutto ai giovani, ma non solo.

Com’è nata l’idea di parlare di un argomento del genere, fra l’altro tratto da una storia vera, come appare al termine del cortometraggio?

Il corto in realtà nasce da un concorso A fianco del coraggio, al quale partecipano tanti racconti dedicati a volontari maschi che aiutano le persone che hanno malattie o patologie. In questo caso il racconto che aveva vinto era un racconto di Alessandro Marchello, dal titolo Il tuffo. La storia racconta di un gruppo di ragazzi che frequentano un campeggio in estate senza genitori e scoprono di avere l’emofilia. Si tratta di una malattia abbastanza rara, ma che esiste ancora e si ha fin dalla nascita. Ci sono due tipi di emofilia: A e B. In entrambi i casi, in parole semplici, non si producono abbastanza piastrine e quindi bisogna stare molto attenti perché qualsiasi tipo di urto o di ferita è molto più grave, non potendosi rimarginare. E quindi anche giocare e fare attività fisica come tutti è generalmente più rischioso. Però oggi, attraverso l’evoluzione della medicina, ci sono farmaci che permettono di essere più tranquilli. Una di queste cure è l’infusione, cioè i ragazzi ricevono trasfusioni di plasma. E la cosa bella è che in questi campeggi imparano a farsi queste trasfusioni anche da soli. Nel cortometraggio, però, non c’è questo aspetto. Perché il tirante sono i due giovani educatori che seguono i ragazzini. Sono un ragazzo di vent’anni, interpretato da Guglielmo Poggi (Il tuttofare – qui per l’intervista al regista Valerio Attanasio) e una ragazza coetanea interpretata da Neva Leoni. Loro seguono questi ragazzini ed hanno due filosofie di pensiero diverse: la ragazza è più preoccupata e tende a far fare loro attività poco rischiose, invece lui è un ragazzo che pensa che questi ragazzini debbano affrontare la vita con coraggio, facendo attenzione, ma senza essere “spaventati da tutto”.

Il salto finale che si ferma alla fine dà un segnale di speranza sia per chi soffre di questa malattia che per tutti coloro che guardano il corto e si rapportano con questa malattia.

La metafora è proprio quella con i supereroi che hanno superpoteri, ma anche debolezze. Il potere che li contraddistingue, però, è il coraggio. Quando l’educatore li porta a fare un tuffo gli dice che ha paura anche lui di qualcosa (di quello che c’è sott’acqua). La morale è, però, che, facendo attenzione, ognuno può affrontare ogni cosa. Il cortometraggio si conclude con questo loro tuffo con l’immagine che si blocca. E il film, in generale, ha due scopi: il primo è sensibilizzare sul tema che non è conosciuto soprattutto dai coetanei; il secondo è raccontare che esistono anche realtà come questo campeggio dove i bambini possono avere una vacanza simile ai loro coetanei.

Anche lo stile è particolare. Sembra quasi un’avventura.

Si può dire che il cortometraggio ha uno stile poetico e d’avventura, tipo Stranger things e non è didattico né noioso. Lo spettatore viene condotto e solo alla fine scopre qual è il motivo, come un segreto che viene svelato poco alla volta. E la vicenda è tratta, appunto, da un racconto di Alessandro Marchello che è proprio la sua storia: lui è un educatore in questi camping creati da lui stesso. Perché lui, a sua volta, che adesso, a 50 anni, fa l’educatore è stato un bambino emofiliaco e lo è ancora e ha creato questi camping avendo vissuto in prima persona l’esperienza. Mentre la sceneggiatura è di Marco Borromei, anche sceneggiatore di Skam Italia. Quindi partivamo da un bel racconto, poi Marco ha scritto i dialoghi, molto intelligenti, ed è riuscito a creare un corto così breve con profonde emozioni. E poi anche gli attori sono stati molto bravi. Con i grandi avevo già lavorato ed erano molto affiatati. In particolare il personaggio di Guglielmo Poggi è bello perché rappresenta un educatore che è un po’ un Robin Williams di Patch Adams. Va contro la figura del tipico educatore perché gli piace scherzare e porsi alla pari.

Un aspetto che mi ha colpito è che non c’è mai una spiegazione della malattia che viene solo accennata e nominata, rimanendo in superficie. Mi è piaciuta particolarmente questa scelta perché secondo me spinge inevitabilmente lo spettatore a documentarsi (anche io stessa sono andata a cercare informazioni al termine della visione).

È un po’ la sfida che abbiamo lanciato e ci siamo voluti dare, insieme a Marco Borromei. Ci siamo detti che dovevamo emozionare con questo corto e appena finisce chi sarà colpito andrà in prima persona a documentarsi. Quindi in base a quello che hai fatto vuol dire che siamo riusciti nel nostro intento.

Come mai l’idea dei supereroi? Dal momento che il corto si basa su un racconto, l’idea dei supereroi è nata dall’autore o magari c’è stato qualche episodio derivante dai ragazzini che ti ha fatto pensare di inserire questo elemento nella vicenda?

No, nel racconto non c’erano. Si faceva riferimento solo a ragazzi coraggiosi e il titolo era infatti Il tuffo, in relazione a una serie di prove di coraggio che dovevano affrontare i ragazzi e l’ultima prevedeva proprio un tuffo. L’idea, sia mia che dello sceneggiatore era diffonderlo il più possibile nelle scuole per avvicinare i coetanei perché spesso c’è tanto imbarazzo nel dire di avere questa malattia. Avremmo dovuto portarlo nelle scuole, ma a causa dell’emergenza covid non è stato possibile. La scelta dei supereroi è legata al fatto che si tratta di figure riconoscibili per un pubblico giovane.

E invece c’è un legame, secondo te, con il tuo corto precedente Pupone, nel quale per raccontare la storia di Sasha ti sei fatto ispirare da Francesco Totti? In questo hai preso spunto dagli X-Men, Wolverine e appunto dei supereroi. Credi che l’impatto di una storia, più o meno drammatica, possa essere diverso e magari maggiore se accostato ad elementi come questi, ormai facenti parte dell’immaginario collettivo?

Il corto è girato in un modo particolare, ispirandoci un po’, come detto prima, alla serie tv Stranger Things, anche se è un prodotto completamente diverso sotto tanti aspetti. Noi però ci siamo ispirati soprattutto a quel tipo di sfide: raccontare una storia attraverso l’avventura. Abbiamo girato a largo di Castel Gandolfo, in una cornice molto bella, in una location pazzesca. E volevamo creare un clima di avventura. Contemporaneamente è girato con uno stile che permettere di essere di facile lettura sia per i giovani, ma anche per i più grandi. Ad esempio il dialogo tra i due educatori apparirà più chiaro ai genitori perché ci siamo ispirati alle classiche situazioni tra genitori, dove ci sono, a volte, idee diverse su come educare il proprio figlio. Questo tipo di dialogo mi sono accorto che ha colpito molto gli adulti.

I ragazzini protagonisti, che mi dicevi hanno alle spalle molta esperienza, sono stati molto bravi. Com’è stato lavorare con loro?

Per un progetto così breve abbiamo avuto la fortuna di fare tanti provini, più di 150. E abbiamo avuto a disposizione tre/quattro incontri per fare delle prove, appena scelti i bambini. Loro erano bravissimi. Io, poi, lascio molta libertà agli attori, soprattutto a quelli grandi, di improvvisare. Anche loro li ho spinti a farsi guidare dalla scena perché così risultano più spontanei e naturali. Alla fine si sono trovati bene perché era un’esperienza diversa, più matura. Fino a quel momento erano abituati a ripetere, mentre qui si sono fatti guidare. Christian Monaldi recita anche nella serie Sara e Marti; Alessio Di Domenicantonio, il più piccolo, è stato Lucignolo in Pinocchio . Alla fine è stato divertente e ha permesso loro di legare molto. Hanno anche creato un gruppo whatsapp.

Anche l’altro tuo cortometraggio Pupone era nato da una storia vera? Era nato con la stessa modalità?

Quella era una storia vera raccontata da un educatore di una casa famiglia. L’età dei protagonisti è diversa. Il protagonista di Pupone è un ragazzo che diventa diciottenne e che deve lasciare la casa famiglia per diventare adulto. La vera domanda che poneva è “crescere vuol dire andare via?”. Lì si racconta cosa succede nelle case famiglia dove il ragazzo cresce e a 18 anni è veramente pronto ad andare fuori e lasciare quelli che sono diventati i suoi genitori (gli educatori), i suoi fratelli che sono i ragazzi con i quali ha condiviso l’appartamento e instaurato un legame. Anche lì, come in questo corto, ci sono i supereroi come elemento per poter accattivare il pubblico giovane. C’era il parallelismo con il capitano della Roma Francesco Totti, idolo del protagonista, che una volta sopraggiunti limiti di età ha dovuto lasciare il campo da gioco. Questo parallelismo, secondo me è stato molto riconosciuto ed è stato anche l’elemento che ha reso Pupone così visto e apprezzato. Ancora oggi stiamo partecipando a molti festival con questo corto. E sono molto contento di questo perché si tratta di un lavoro che pone un tema che in Italia è molto sentito.

dall'Intervista di Veronica Ranocchi per taxidrivers.it

La poesia di Tonino Guerra

Lunedì, 8 marzo
Scappo da un mondo che si allontana da me. I giovani sono pieni di cose meccaniche che li servono. Leggo che il maggior numero di invenzioni mai attivate al mondo sono concentrate tutte nella nostra epoca. Tutto si trasforma in modo diverso, anche i pensieri. Ed allora è bello ritrovare le cose povere che ci hanno fatto crescere e godere. Vedo l'immensità dei cambiamenti che arriveranno per mettere in disparte i nostri passi ancora prudenti.

Giovedì, 18 marzo
Più invecchio e più ho bisogno di paesaggi abitati da gente che si accontenta di vivere una vita elementare. L'altro ieri ho rivisto alla televisione la storia di un ragazzo mongolo che imparava a fare amicizia con le aquile. La mia infanzia era con la fionda contro le lucertole lungo un fosso di campagna.

da "Trenta giorni con Tonino Guerra", Memorie, impressioni e poesie in forma di appunti del mese in cui lo scrittore ha compiuto novant'anni, scritte da Tonino Guerra per il Corriere della Sera di Domenica 9 Maggio 2010

Ti accorgi di un grande Sceneggiatore quando nel suo racconto ci sono immagini che ti fanno esplodere uno stupore che va oltre la storia e ti portano dentro domande senza risposta.

Cortometraggi PRIMI PASSI con TONINO GUERRA a Pennabilli

 

Intervista a Nicolas Philibert, Orso d’oro per Sur l’Adamant

Quando ci incontriamo con Nicolas Philibert l’Orso d’oro è ancora una aspettativa. Sur l’Adamant, che lo ha vinto in uno dei migliori palmarès di ogni festival degli ultimi anni con la giuria presieduta da Kristen Stewart, era appena passato in concorso, quasi verso la fine: un delicato ritratto di una realtà di cura psichiatrica in un barcone sulla Senna, lungo il Quai de Repèe, che fa riferimento al Polo Psichiatrico del centro di Parigi. Lì pazienti e curanti si incontrano ogni giorno e vivono insieme una dimensione di scoperta attraverso la relazione umana, la cultura, la musica, i libri, i film.

Una sfida, nata diversi anni fa da un progetto curato dalla psicologa e psichiatra Linda De Zitter che aveva messo insieme architetti, pazienti e curanti perché questo sogno divenisse realtà. «Conoscevo l’Adamant da tempo, poi mi è capitato di andarci, mi hanno invitato a alcuni workshop mostrando i miei film» racconta il regista.

Da cosa sei partito per filmare la vita sull’Adamant? Non è la prima volta che ti confronti con una istituzione psichiatrica, «La Moindre des choses» parlava della clinica di La Borde.

Mi interessava l’idea della cura che non può essere ridotta all’amministrazione quotidiana di visite, medicine e così via, e che invece dovrebbe mettere al centro della sua pratica la relazione umana, la singolarità di ciascuno. La psichiatria mi ha sempre interessato, è uno spazio che inquieta e al tempo stesso pone delle sfide, che fa pensare a noi stessi e ai nostri limiti. È uno specchio che ci dice molto sulla nostra vita. Purtroppo negli ultimi venticinque anni nel settore pubblico ha subito un decadimento dovuto ai tagli di budget, a promesse disattese, a situazioni che pian piano hanno demotivato chi vi lavora. L’Adamant è un luogo di resistenza rispetto a questo, ogni paziente ha un suo peso specifico, perché la psichiatria non è una scienza esatta. C’è chi pensa sia giusto riempire i pazienti di medicine per normalizzarli, e chi invece prova altre strade. Lì appunto non si cerca di «normalizzare» i pazienti ma si lavora su come ciascuno è, considerandolo nella sua unicità. Alcuni di loro sono ospedalizzati, altri no, ma al di là delle situazioni sull’Adamant trovano un’umanità che in altri casi è preclusa. Quella realtà ci dimostra anche che tutte le istituzioni, oltre alla sanità anche la scuola e la famiglia, devono essere curate.

In che senso?

Si deve evitare la routine, la burocrazia, la ripetizione che uccidono il desiderio necessario a praticare qualsiasi forma di cura. Ci vuole invenzione, passione, non ci si può affidare a gesti meccanici, stanchi, di chi non è coinvolto in quello che fa e perciò non riesce a coinvolgere neppure chi cura. Non si tratta solo di professionalità, ci possono essere stagisti di primo livello che hanno capacità meravigliose di curare, di attenzione, più di tanti iper-specialisti. Nella realtà dell’Adamant questa energia, questa invenzione costante sono vive; e non significa confondere lo statuto professionale né le funzioni di curante e curato ma è rilanciare questa relazione all’interno di una dimensione collettiva dove la cura è anche un scambio, curare fa bene a chi lo fa, permette di scoprire delle cose insieme. Sull’Adamant non ci sono etichette: chi cura non è identificato da una divisa o da un distintivo.

Come ti sei avvicinato alle persone? Ci sono alcune figure che tornano più spesso mentre il paesaggio intorno, e gli abiti, suggeriscono un movimento che ha attraversato diverse stagioni.

In realtà ho lasciato passare un po’ di tempo tra una ripresa e l’altra per prendermi una distanza e per non stare troppo addosso alla gente. Volevo far respirare le persone che filmavo, non prenderle in ostaggio. Se qualcuno si avvicinava e parlava un po’ con me allora filmavo, li seguivo, poi li perdevo. Ci sono molte questioni che ci si pone filmando un disagio, una malattia, come fare per non utilizzare un potere della macchina da presa, come porsi in modo da non «sfruttarli». Ho cercato di essere il più aperto possibile alle suggestioni intorno, anche perché credo, e ancora di più oggi, che il cinema sia una dialettica tra ciò che vedo o che penso io come regista e quello che si aspetta lo spettatore. Mi piace lasciare spazio, creare dei fuoricampo mentre adesso si cerca di spiegare ogni dettaglio dicendo al pubblico cosa deve pensare, che deve vedere. Questa idea di mostrare tutto, di rendere tutto visibile e evidente appartiene molto del nostro tempo, basta guardare i social network: la gente mette quello che mangia a cena, dove va in vacanza, ogni istante. Fa vedere tutto per non dire niente.

Articolo di Cristina Piccino  per ilmanifesto.it

 

Tonino Guerra racconta il suo rapporto con il cinema

Nell'intervista Tonino Guerra racconta il suo rapporto con il cinema e ricorda i grandi personaggi che ha incontrato, a partire da Federico Fellini. 

da lacompagniadellibro.tv

SYDNEY SIBILIA dai CORTI a SMETTO QUANDO VOGLIO! Intervista con Dario Moccia

Conosciamo un giovane regista che si è fatto strada nel cinema grazie ai primi Cortometraggi per approdare ai lavori di grande successo, tra cui l'amatissimo Smetto quando voglio!

Paragrafi dell'Intervista:

00:00 Momento appunti

02:00 L'ombra della chiave inglese

05:30 Prime influenze

07:40 Pellicola

13:00 La palestra degli spot

17:25 Matteo Rovere

21:45 Smetto quando voglio

27:52 L'incredibile storia dell'isola delle rose

31:32 Streaming e sala

37:10 Mixed by Erry

 

 

Intervista al regista americano John Singleton

John Singleton è un ragazzo prodigio del cinema nero americano. E' l'autore di uno dei film che hanno segnato lo scorso decennio: Boyz'n the hood, raccontava per la prima volta sullo schermo, con impressionante realismo, l'ordinaria criminalità della Downtown di Los Angeles. Grazie a quel primo film, John Singleton è stato il più giovane regista che abbia mai ricevuto una nomination all'Oscar. La statuetta non l'ha vinta, ma per uno che ha la pelle nera il Premio Oscar è quasi un traguardo impossibile. John Singleton, del resto, è una specie di piccolo leader dei neri americani, e questo spiega perché ha firmato il remake di Shaft, vecchia bandiera del black cinema. Ma nonostante ciò, Singleton è un regista di scuola europea, che ha studiato Vittorio De Sica e François Truffaut, i suoi maestri preferiti insieme a Akira Kurosawa. Abbiamo incontrato John Singleton a Los Angeles nei luoghi di Boyz'n the hood, a Downtown, dove si trova il suo ufficio, proprio nel momento in cui esce in Italia il suo nuovo film Baby Boy.

John, il protagonista del tuo ultimo film, “Baby Boy”, è così mammone che sembra un italiano.

Ho sentito dire che in Italia ci sono molti uomini legati alle loro famiglie, alle loro madri. Quelli che voi chiamate “mammoni” in America vengono chiamati, appunto, “baby boys”.

E' molto diffuso il mammone nelle famiglie nere americane?

Abbastanza. In molte famiglie ci sono ragazzi che si sentono a loro agio solo con la madre. In questo film ho raccontato la storia di un ragazzo che si trova a metà strada tra l'uomo e il bambino. Il suo amore per la madre gli impedisce di crescere, di andarsene ed è alimentato dalla paura di essere ucciso per la strada.

Non credo che questo personaggio sia autobiografico, giusto?

Infatti non lo è. Io me ne sono andato di casa a 17 anni.

Quando eri ragazzino hai conosciuto qualcuno che assomigliava al tuo personaggio?

Sono cresciuto in mezzo a persone come Jody, il ragazzo di Baby Boy. Questo film è una specie di seguito di Boyz'n the hood ed è ambientato nello stesso posto, il ghetto di Los Angeles. E' un quartiere bellissimo, ma è una specie di Far West, sulle strade la gente si spara.

Ma immagino che in quel ghetto ci fosse di tutto, anche i ricchi...

Esattamente. Il film è iperrealistico. Il periodo è quello del dopoguerra, dell'avvento della televisione, quando le telecamere iniziavano ad essere più piccole e più leggere. E si girava nelle strade, si usavano attori che non erano attori ma persone comuni. Anch'io nel mio film ho fatto la stessa cosa. Ho utilizzato persone che non erano attori per conferire un maggiore realismo al film, come facevano De Sica e Rossellini...

Il tuo film ricorda il primo Spike Lee, “Lola Darling”.

Sì, sono d'accordo. Forse perché è un film centrale. In America abbiamo bisogno di film centrali. In questo film ho davvero cercato di creare una centralità totale. E' un film sull'amore e sul sesso, con scene esplicite, con bellissimi attori di colore. I film americani sono troppo tranquilli, troppo politically correct, non c'è quasi mai niente di stimolante.

E' come se avessero addosso un preservativo.

Esatto. C'è un preservativo sul cinema americano. E io l'ho voluto togliere.

Da tanto il cinema americano non riesce più ad essere sensuale...

Perché c'è molta più violenza che sesso. I registi europei fanno film sulle emozioni mentre quelli americani fanno film basati sugli effetti.

John, tu sei uno dei pochi membri di colore dell'Academy Award. Sei stato il più giovane regista ad ottenere una nomination. Ma non hai vinto l'Oscar. I neri non riescono quasi mai a vincere.

Succede ogni morte di papa, ma mai dire. Voglio dire, l'Academy è composta da 5000 persone. Si potrebbero mettere tutti su un palcoscenico se si volesse. Insomma, è solo un'Academy.

E quanti sono i membri di colore?

Non saprei, credo meno di 300.

Ecco perché non vincete mai, ecco perché Denzel Washington non ha mai vinto.

Denzel Washington aveva avuto una nomination per Hurricane. La sua interpretazione era fenomenale.

Come è possibile cambiare la situazione?

Penso che sia necessario stabilire un rispetto reciproco tra gli artisti, indipendentemente dal fatto che siano bianchi o di colore. E' questo che deve cambiare. E' una questione politica. Gli studios di Hollywood spendono un sacco di soldi per poter vincere un Oscar. E' come durante una campagna elettorale. Si spendono molti soldi per convincere la gente che quello è il candidato giusto. Purtroppo, anche l'Academy Award è diventata così.

Non credi che oggi non sia più utile fare del cinema nero, solo con i neri, solo per i neri?

Non faccio rientrare i miei film in nessun genere. I miei film parlano la lingua del cinema.

Perché non hai mai scelto attori bianchi?

Non so. Non si è mai presentata l'occasione. Dipende dai film che voglio fare. A volte voglio fare un film sull'Africa, altre volte voglio fare un film su New York oppure su Roma. Dipende solo da questo.

Se dovessi scegliere solo attori bianchi quali sceglieresti?

Non saprei. Mi piacerebbe dare un film con Robert De Niro, che è un mio amico. Me ce ne sono altri con cui vorrei fare un film. Penso che Edward Norton sia un bravo attore. E anche Giancarlo Giannini. L'ho visto in Hannibal. E' bravissimo.

Quand'è che hai deciso di diventare un regista?

Avevo soltanto 9 anni. Avevo visto Guerre Stellari. Credo di averlo visto almeno 10 volte. E più guardavo il film, più pensavo a come era stato fatto, come era stato costruito. Avevo cominciato a capire che un film doveva essere diretto, scritto, doveva essere curato, fotografato, e gli attori dovevano essere guidati. La persona che metteva insieme tutti questi elementi si chiamava regista. E così mi dissi: “Ecco cosa voglio fare. Voglio fare il regista”.

So che ti piace molto il cinema europeo. Chi è il tuo regista preferito?

François Truffaut. Mi piace Bernardo Bertolucci, ma François Truffaut lo adoro perché la sua vita rispecchia la mia. Il cinema mi ha strappato alla delinquenza. Ho scoperto che a François Truffaut è successa la stessa cosa. Allora ha iniziato a considerare il suo lavoro sotto questo aspetto, e mi sono completamente identificato nel personaggio dei suoi primi film, Antoine Doinel, il protagonista dei Quattrocento Colpi.

Nel tuo ufficio ci sono anche manifesti di Akira Kurosawa, di Sergio Leone...

Mio padre aveva l'abitudine di andare a Downtown per vedere i film non americani. Era un appassionato di cinema. Gli piaceva descrivermi il modo in cui Toshiro Mifune sferrava i calci. Io gli chiedevo: “E chi è Toshiro Mifune?”. Quando frequentavo la scuola di cinema, ho visto Toshiro Mifune in Sanjuro di Kurosawa e ho capito che quello era l'uomo di cui parlava sempre mio padre. Sempre alla scuola di cinema, ho scoperto che Sergio Leone è stato influenzato da Kurosawa. E' stata una bella avventura per me crescere con i film e con il cinema. Sono uscito dalla scuola a 22 anni e sono subito entrato nel mondo del lavoro. Mi sono diplomato nel maggio del 1990 e a giugno stavo già lavorando a Boyz'n the hood.

Come hai fatto?

Avevo sentito dire che Steven Spielberg aveva girato il suo primo film all'età di 26 anni e volevo fare come lui. Anzi prima di lui. E così, ho girato il mio primo film a 22 anni.

Sei un regista dalla personalità molto riconoscibile. Me ne sono accorto vedendo “Shaft”.

Shaft è il mio film pop-corn. Mi ha divertito molto farlo.

In Italia “Boyz'n the hood” si intitolava “Strade violente”. Sono cambiate quelle strade negli ultimi anni?

Sono cambiate, ma penso che cambieranno molto di più con la nuova generazione. I ragazzi neri hanno sempre meno paura. Era la paura a spingerli a fare le cose che facevano.

Intervista di David Grieco – L'UNITA' – 12/11/2001

Intervista a Matteo Rovere sul cortometraggio "Homo Homini Lupus"

Ci può parlare del suo lavoro "Homo Homini Lupus"?
Matteo Rovere: Il cortometraggio "Homo Homini Lupus" è la storia delle ultime ore di vita di un Partigiano, ed è basato su vicende reali accadute nell'Aprile 1943 all'interno delle campagne del Lazio. La sceneggiatura unisce due piani: il primo, estremamente realista e duro, racconta queste ultime ore. Il secondo, soggettivo ed interiore, racconta il percorso emotivo del protagonista durante lo svolgersi di questi drammatici avvenimenti. Il fine del film è quello di portare lo spettatore "all'interno" della vicenda stessa, per meglio comunicare il messaggio che il sacrificio di quest'uomo ha significato.
Come mai ha scelto di descrivere le ultime ore di un partigiano? Da cosa ha tratto il soggetto e come ha elaborato la sceneggiatura?
Matteo Rovere: Il cortometraggio nasce da un vero e proprio "colpo di fulmine": la lettura della lettera di un Partigiano, Paolo Braccini. L'uomo, il giorno prima di essere fucilato, scrive una lettera alla propria figlia, che però non conoscerà mai (la moglie è ancora incinta). Sono parole struggenti, cariche di vita in modo assoluto, sebbene così consapevoli e vicine alla morte. Ho sentito davvero l'animo umano, intimo e reale, nascosto dietro la Storia universale, che in quelle poche parole si fondeva in modo inscindibile con la storia di un individuo: qualcosa di molto lontano dalle nozioni apprese sui libri. Questo sentimento ha fatto nascere in me l'esigenza di proporre il cortometraggio.

Come mai il titolo del film è "Homo Homini Lupus"?
Matteo Rovere: L'homo homini lupus di Hobbes in questo contesto sintetizza la guerra come espressione della natura ferina, dell'istinto umano violento e bestiale. Il protagonista, sopraffatto, torturato e circondato da un mondo tragico e inumano, fino alla fine non sa di poter volare più in alto dell'homo homini lupus. È un personaggio che cresce, che muore libero perché ha saputo trovare questa libertà dentro se stesso, nel significato che riesce ad attribuire alla sua vita, correndo in uno spazio dove nemmeno le torture riescono ad arrivare.
Come è avvenuta la scelta di Filippo Timi per il ruolo di Angelo Pietrostefani?
Sono un grande appassionato del lavoro e del percorso di Filippo Timi: ho quindi cercato Filippo attraverso la sua agenzia, Officine Artistiche, proponendogli il progetto, e rimanendo molto felice del suo entusiasmo a partecipare. E' un attore di talento e grandissima energia: questo breve film trova in lui un deciso punto di forza.
"Homo Homini Lupus" ha vinto diversi premi. Cosa crede colpisca di più nello spettatore del suo lavoro?
Matteo Rovere: Forse la capacità del film di trasportare lo spettatore in una realtà lontana nel tempo, che attraverso una resa estremamente realistica, viene riportata alla luce come presente, facendoci immedesimare nella vicenda raccontata.

Ci può parlare un po' della Ascent Film, la casa di produzione del film?
La Ascent Film (www.ascentfilm.com) è la casa di produzione fondata da Andrea Paris. Si tratta di una realtà produttiva in grande crescita, che può contare su un know how dinamico e attento ai giovani e alla qualità dei progetti proposti. E' il tipo di struttura che, in Italia, spero possa trovare sempre più spazio: ne abbiamo davvero bisogno.
Come considera il panorama cinematografico italiano del momento?
Matteo Rovere: Il cinema italiano mi sembra in crescita dal punto di vista dei risultati al botteghino, ma non mi pare di poter affermare lo stesso per quanto riguarda la qualità. E' vero che esistono diversi tipi di "cinema", ed è giusto che sia così, ma le produzioni e i finanziatori devono trovare il coraggio e la spinta per investire i buoni risultati ottenuti anche in nuovi film di qualità vera, che possano fornire un'alternativa reale alla televisione, e non un'emulazione, pallida sia dal punto di vista formale che contenutistico. Il pubblico secondo me deve essere stimolato, non sottovalutato.
Come crede si possa migliorare la distribuzione delle pellicole italiane in sala?
Matteo Rovere: Forme "di protezione" da parte dello stato, simili a quelle presenti in Francia, potrebbero essere un buon inizio. Il cinema francese va da Ozon a I Fiumi di Porpora, da Audiard a Besson, ovvero da un cinema di intrattenimento quasi hollywoodiano a un cinema intellettuale ed elitario: come mai riescono a convivere bene queste anime così diverse? E' la dimostrazione che aiutare l'espansione del settore sarebbe solo un fatto positivo; esistono vastissime fette di pubblico che ancora non prendono in considerazione il cinema italiano: la colpa è nostra, dobbiamo riconquistarle.
 
Intervista di Simone Pinchiorri  per cinemaitaliano.info  del 07/05/2007
 
 

Intervista all’autore, regista e sceneggiatore Valerio Vestoso

Classe 1987, Valerio Vestoso nasce a Benevento, la sua corsa verso il traguardo, parte già bene, nel 2009, scrive “Erennio Decimo Lavativo”, commedia teatrale per la regia di Ugo Gregoretti, per poi approdare al cortometraggio con “Tacco 12”, mockumentary sull’ossessione per il ballo di gruppo che ottiene più di 40 riconoscimenti in tutta Europa. La sua carriera continua con altri cortometraggi, direzioni di numerosi branded content e commercial tv.

Come  riesce oggi uno sceneggiatore o un regista a realizzare il suo sogno?

Adesso fare un film è molto complicato. Non c’è più un produttore che mette i soldi suoi, nessuno rischia più su un nuovo talento. Questo porta ad un appiattimento dei contenuti. Il cortometraggio per un aspirante regista non è più un trampolino, ma diventa un buon biglietto da visita, ma non è propedeutico a un film, come era un tempo. La strada è quella di trovare qualcuno che abbraccia con te l’idea di un film. È tosta, è tostissima, ma spero di farcela.  Un’ottima esperienza professionale per me è stata lavorare con, The Jackal.  Ho girato molti spot con loro, palestra fondamentale, sono stati il mio, Centro Sperimentale.

Oltre al cinema, sei anche autore televisivo, di uno dei programmi più folli e riusciti degli ultimi anni, “Una pezza di Lundini”. Come è nata l’idea di questo format?

L’idea nasce da Giovanni Benincasa e Valerio Lundini, nel periodo pandemico iniziale. Emanuela Fanelli mi ha coinvolto, mi ha fatto vedere una puntata zero e ho pensato: “È una follia totale.” C’erano dei tempi televisivi che non erano tempi televisivi, cose assurde, un modo di rapportarsi all’ospite diverso, disinteressato, l’opposto di quello che è oggi la televisione. Tutto questo mi ha attirato, ma penso che alletterebbe qualsiasi autore. Abbiamo la fortuna di poter scrivere idee e di sperimentarle, per un autore, per uno sceneggiatore è il massimo.

Come è iniziata la tua carriera?

Io vengo dal cortometraggio, dopo tre lavori abbastanza fortunati, l’ultimo è Le buone maniere, che è stato in selezione ad Alice nella città (sezione autonoma e parallela della Festa del Cinema di Roma dedicata alle nuove generazioni) sta girando un bel po’, e ha vinto l’edizione 2021 di Cortinametraggio, ho girato un documentario, Essere Gigione su un personaggio molto strano, si chiama appunto Gigione ed è il re delle feste di piazza italiane.  Una persona assurda che nelle sue canzoni mescola sacro e profano. Ha molto seguito, nonostante sia senza una casa discografica. Con il suo stile, riesce a cogliere l’espressione un po’ folk e popolare del pubblico di provincia. Ci sono molte persone che lo seguono e quasi lo hanno divinizzato come una sorta di Dio del folk. Questo mi ha stuzzicato, l’ho seguito per due anni, siamo andati in giro per le piazze. Anche questo documentario ha avuto abbastanza successo. Lavorandoci ho scoperto come Gigione, nel mondo della provincia, orfano di punti di riferimento, politici, culturali, religiosi, ha riempito questo vuoto. Ho cercato di dare a questa storia un taglio più profondo e meno folkloristico concentrandomi soprattutto con il rapporto che ha con i suoi fans.

...... dall'intervista di  Elena Cirioni  per banquo.it

 

Intervista a Daniele Ciprì, tra cortometraggio e lungometraggio

Tu sei stato direttore della fotografia e regista di lungometraggi e cortometraggi. Qual è la specificità, se c’è, del lavoro su un cortometraggio?

Per me sono due cose identiche come forma di lavoro e di passione. Come forma di libertà, invece, ne hai di più con il cortometraggio. Io il cortometraggio lo faccio come autore, ne ho girati diversi, ne ho fatti tanti con le scuole e, da giovane, con Franco Maresco. Sono dei momenti in cui un regista è più libero, può studiare una forma nuova per raccontare o mettere in scena una storia che non è adatta a un lungo. È un’occasione in cui sei più indipendente, in cui hai meno responsabilità rispetto a un lungometraggio, anche perché hai meno budget. Quindi non è solo una questione di durata. Questa libertà ti consente di sperimentare. Nei miei cortometraggi credo sia ancora più evidente la mia passione per il cinema e la sperimentazione di forme di racconto attraverso questo specifico linguaggio.

Io indirizzo sempre i giovani autori che vogliono raccontare storie attraverso il cortometraggio a fare più sperimentazione. Con il lungometraggio si è più vincolati, devi raccontare una storia che possa intrattenere il pubblico, convincere un produttore e un distributore. Hai un altro tipo di percorso rispetto al corto, che è più libero e anche più internazionale. Non a caso i cortometraggi italiani vengono visti in tutto il mondo, girano tantissimi festival (i nostri lungometraggi, invece, fanno decisamente più fatica). Negli ultimi anni, poi, si stanno moltiplicando festival di corti e cresce l’attenzione verso questa forma d’arte.

L’audacia e un senso fortissimo della visione non è mai mancata nel tuo lavoro. Quanta ne vedi nel cinema italiano in generale e nei corti di questi giovani autori in particolare?

Nell’edizione di quest’anno di Corto Dorico ne ho vista un po’ meno, negli anni precedenti c’era molta più visionarietà, anche raccontando la realtà. Quasi come un rimprovero, dico agli autori che c’è troppa attenzione alla realtà, ma nessuna visione del concetto del proprio mondo immaginario; non trasportano, insomma, la realtà nel loro mondo immaginario. Questo è il rischio che il cinema (non solo breve) può avere come tipo di caduta, nel senso che non deve essere solo il cinema del reale quello che deve dare forza alla narrazione ed esserne oggetto. La realtà la puoi raccontare seguendo il tuo mondo interiore, è una cosa che ci hanno insegnato Federico Fellini, Pier Paolo Pasolini, François Truffaut, che tu prendi la realtà e la trasferisci, la trasformi nel tuo immaginario. Questo è il tipo di lavoro che io faccio sia nel lungo che nel corto. Quel tipo di atteggiamento che ti permette anche di capire e raccontare te stesso, il tuo mondo, esorcizzare nell’arte i tuoi fantasmi. È questa la mia visione ed è questo che cerco anche nel cinema degli altri.

Quali sono stati i modelli che hanno illuminato la tua visione del cinema?

Io ho visto tanto cinema sin da ragazzo. Carl Theodor Dreyer mi ha assolutamente catturato. Ingmar Bergman, John Ford, Orson Wells, tutte queste diverse sfaccettature del cinema, ma anche registi meno riconosciuti dal canone, quelli del cosiddetto B Movie, autori come Mario Bava, anche quelli mi hanno affascinato e fatto appassionare al cinema. Mi hanno indotto a capire che poteva essere un modo per raccontare storie, trasfigurare i propri sentimenti e paure. Il cinema è una forma d’arte che mi appartiene. Posso dire che mi ha colpito proprio il cinema del passato. Io non ho molti riferimenti contemporanei, arrivo a Stanley Kubrick, ai giorni nostri fino a David Lynch. Dopodiché, quando faccio un film, parlo sempre di cinema con me stesso. Mi dico: questa la faccio alla Orson Wells, quest’altra alla John Ford, quest’altra ancora alla Roman Polanski. Ho questo continuo dialogo con me stesso sul set, che mi appassiona a quello che faccio e m’innamora sempre di più del cinema, in un continuo confronto.

Quanto può incidere un direttore della fotografia su un film?

Io, come direttore della fotografia, quando non sto facendo un mio film, dico sempre che sono colui che coglie l’immaginario altrui. Sono al servizio di una storia, proponendo anche altre possibilità, il mio mondo creativo, ma sempre in maniera vicaria, perché poi il regista deve essere libero, anche di sbagliare, soprattutto se giovane. Quindi, da direttore della fotografia, cerco di dare forma alle visioni degli altri. Quando faccio un mio film, invece, litigo con me stesso, perché faccio contemporaneamente il regista e il direttore della fotografia e cerco di capire come poter raccontare una storia. Parto sempre da un input che mi viene dalla realtà, dopodiché scrivo la sceneggiatura insieme ai miei collaboratori, che mettono ordine alle mie idee e mi aiutano a realizzarle.

Hai lavorato con grandi maestri come Marco Bellocchio. Quanto s’impara da un regista così?

Tantissimo. Fui felicissimo quando Marco Bellocchio mi chiamò, ero al settimo cielo. Era un autore che avevo sempre ammirato. Mi propose una sfida difficile come direttore della fotografia di Vincere. Una collaborazione che lasciò molto soddisfatto anche lui, tanto che mi confermò per i film successivi. Una collaborazione che non è finita, c’è un grandissimo rapporto di stima e amicizia tra noi due, anche se lui vorrebbe che mi concentrassi di più a fare i miei film. Il suo parere conta sempre molto, che faccia un mio film o di altri, per me è un punto di riferimento. Nel tempo ho stretto anche altre collaborazioni, rapporti importanti e pieni di soddisfazioni con Roberta Torre, Claudio Giovannesi e altri. Passo da un regista all’altro in maniera serena, mi piace fare esperienze diverse, conoscere altri mondi narrativi e modi di raccontare storie attraverso il cinema. Mi muovo senza problemi dalla commedia al dramma, attraversando generi diversi. E poi mi dedico anche al teatro, come regista o disegnatore delle luci. La mia è una passione che si completa affrontando i più diversi campi della rappresentazione artistica.

Quanto è stimolante, invece, lavorare con giovani registi e crescere con loro?

Per me è importante, quando si avvia un rapporto lavorativo, artistico, che ci sia un feeling. Ed è meraviglioso veder crescere un giovane regista, anche indipendentemente dall’approccio che volevi dare tu. Poi magari si fanno i film per i fatti loro, ma è giusto e va bene così, ne sono felice. Però è importante per loro avere una guida, che funziona quando si crea una sintonia, una magia che nasce quando l’incontro si fonda su una comune passione, sia da parte del più giovane che da parte del “maestro”, anche se io non voglio mai essere chiamato così. E poi, devo dirti la verità, a me una collaborazione con un giovane regista stimola, mi fa continuare ad amare questo mestiere, rinfocola la mia passione per quest’arte e mi dà continuamente la possibilità di rimettermi in gioco, di rinnovarmi. Poi può anche capitare di rimanere delusi, ma mi è successo raramente, perché scelgo sempre con grande cura le persone con cui lavorare. Quando accade, però, quella persona non la voglio vedere più, non ci voglio più collaborare, è come se mi avesse dato un autentico dolore.

Quali sono i film a cui hai lavorato a cui sei più legato?

Ai miei in maniera particolare. Tutti quelli che ho fatto con Franco Maresco, perché è stato il primo percorso, il più lungo e duraturo, all’interno di questo mestiere. Da Cinico Tv ai film è stato un  lavoro di libertà, abbiamo fatto quello che volevamo, indipendenti poiché ci autoproducevamo. E poi tanti altri film anche non miei, prima parlavamo di Vincere, per esempio. Tutti i film con Marco Bellocchio sono nel mio mondo, una cosa bellissima e, devo dirti, aggiungo anche tutti quelli con Roberta Torre, una regista che mi ha dato la possibilità, allora, quando ero a Palermo, di sperimentare. Abbiamo fatto Tano da morire, Sud Side Stori, Angela, Mare nero. Film che mi hanno dato la possibilità di dare un’immagine più moderna al mio universo visivo e, quindi, prepararmi anche ad altro. Ho fatto tutti i generi cinematografici possibili con Roberta Torre e di questo devo ringraziarla, della possibilità che mi ha dato di esplorare.

........... dall'articolo di  Davide Magnisi per taxidrivers.it

 

Pagina 1 di 2

  • 1
  • 2

Concorso ILCORTO - ROMA 2025

CONCORSO 2025 Vers03 05 1200

Menu principale

  • ILCORTO.EU
  • ♥ Cortometraggi
    • • per Principianti
    • • Minicorso: Regista di cortometraggi
    • • Come nasce un Cortometraggio
    • • Come nasce un Cortometraggio n.2
    • • La scuola e il linguaggio filmico
    • • Cortometraggio vs videosocial
    • • Effettuare riprese in una stanza
  • ♥ dalle Idee alle Sceneggiature
    • • Le Sceneggiature
    • • Generi
    • • I Documentari
    • • Le lezioni di Gianfranco Manfredi
    • • Basi di Sceneggiature
    • • Idee dalla realtà
    • • Consigli e Suggerimenti
    • • Il Viaggio dell'Eroe
    • • Anatomia di una Scena
    • • Sceneggiature originali (inglese)
    • • Lezioni di Sceneggiatura da:
    • • Errori comuni
  • ♥ Cast e Troupe
    • • Casting
    • • Attori
  • ♥ Tutto sulla Tecnica
    • • Fotografia
    • • Videocamere
    • • Software
    • • Montaggio
    • • Audio e Musica
    • • Usare lo Smartphone
    • • Droni
    • • Doppiaggio/Sottotitoli
  • ♥ Location
  • ♥ Crowdfunding
  • ♥ Distributori di Cortometraggi
  • ♥ da Filmmakers a Filmmakers
  • ♥ Concorsi consigliati
    • • Premiazioni & Proiezioni
    • • Altri concorsi
    • • Scaduti
  • ♥ Video Interviste di Fulvio
  • ♥ Eventi & Proiezioni
  • ♥ I Video
    • • Storyboard
    • • Trailer
    • • Video Backstage
    • • Locandine e poster
    • • Foto di Scena
    • • Foto Backstage
    • • Press kit
  • ♥ Commenti sui Corti
  • ♥ Lezioni in Video
  • ♥ Film e dintorni
    • • Imparare dai Film
    • • Come nasce un Lungometraggio
    • • Come nasce un Lungometraggio 2
  • ♥ Serie TV
  • ♥ Libri
  • ♥ Tesi e tesine
  • ♥ Scuole, Corsi, Workshop
  • ♥ Incontri ed Interviste
  • ♥ Tutto il Resto
    • ♥ Di tutto ed oltre
  • ♥ Intelligenza Artificiale
  • ♥ Chi siamo
  • ♥ Nel corso degli anni...
  • ♣ Le origini del Cinema
  • ♣ Museo Cortometraggio & Cineprese

Ultimi Articoli inseriti

  • Color Grading: come dare una anima visiva al tuo cortometraggio
  • Location originali in località marina
  • Girare un Cortometraggio di qualità con la Canon EOS R8 e 24-70mm f/2.8
  • Istituto “G. Caetani” di Roma: presentazione del cortometraggio "Moira" tra immagini e parole
  • Concorsi Indipendenti: la purezza del Cinema.
  • L'ufficio stampa: dal ciak al rumore del successo
  • La vita sospesa: in attesa dell'imprevisto (P.2)
  • La vita sospesa: in attesa dell'imprevisto (P.1)
  • Comunicare con un cortometraggio: cosa dire e come farlo
  • Fotocamere: caratteristiche che possono cambiare il tuo corto in 4K
  • Come fare un buon Cortometraggio con un corredo SONY
  • Cosa imparare dal film: "Il Postino" di Massimo Troisi
  • Quali sono i migliori corsi di Cinema all'estero?
  • La PAURA. Come si può rappresentare la paura in un cortometraggio?
  • Il Passato che rivive attraverso il Cortometraggio Fotografico
  • Guida Tecnica per trasformare 50 fotografie in B/N in un Cortometraggio Documentario
  • Coltivare l’Empatia nel cinema
  • Nuove date per lo Short School Film Fest - Premio Elvira Coda Notari 2025
  • Come crearsi una Cultura Cinematografica con i Cortometraggi
  • Color Correction nei video: teoria e pratica

Diventare FilmMaker - PCTO 2025 per il Liceo RIPETTA Roma

Corso Liceo Artistico RIPETTA Roma v54

16° Premiazione ILCORTO 1/2/25

INVITO PREMIAZIONE ILCORTO 2024 sito

Utenti Redattori / Numero Articoli

  • Utenti 7
  • Articoli 4989

Chi è online

Abbiamo 228 ospiti e nessun utente online

I vostri Corti a Siracusa

SIRACUSA_15_marzo_ILCORTO.EU_1000.jpg

Immagini d'Archivio

Sulle Sceneggiature

  • Perchè le logline sono importanti?
  • Archetipi narrativi: guida per sceneggiatori principianti
  • Sceneggiatura di un Cortometraggio: bella od inconcludente?
  • Riflessioni sulle "strutture in 3 atti"
  • La Piramide di Freytag, fondamentale per una sceneggiatura efficace
  • Come trovare l'idea giusta per creare una storia originale, profonda e coinvolgente
  • Come trovare i "buchi" nella sceneggiatura
  • L'AntiEroe nei Cortometraggi

Sui Cortometraggi

  • Concorsi Indipendenti: la purezza del Cinema.
  • Il Passato che rivive attraverso il Cortometraggio Fotografico
  • Coltivare l’Empatia nel cinema
  • Come crearsi una Cultura Cinematografica con i Cortometraggi
  • Come pubblicizzare il tuo Cortometraggio
  • Realizzare cortometraggi con una forte estetica visiva ed un impatto emozionale
  • Realizzare un cortometraggio commedia low budget: guida pratica e creativa
  • Realizzare un corto horror a low budget: guida tecnica, economica e creativa

Ultimi Concorsi

  • Bando di concorso FLAMINIO FILM FESTIVAL 2025
  • Concorso di Cortometraggi “ilCORTO - FESTA INTERNAZIONALE di ROMA 2025“ - il Bando
  • Concorso Vincenzoni per Soggetti e Musiche per Film scade 30 giugno 2025
  • Short Film School Fest – Premio Elvira Coda Notari 2025
  • “ilCORTO.it FESTA INTERNAZIONALE di ROMA 2024“ secondo parziale elenco dei Corti inviati

Le lezioni di Manfredi

  • ELENCO delle LEZIONI di Gianfranco MANFREDI
  • La Forma della Sceneggiatura (II)
  • Nascita e fondamenti del Copione teatrale
  • Cinema COMICO (Parte Seconda)
  • IL GIALLO E IL NERO (Seconda parte)
  • IL GIALLO E IL NERO (parte Prima)
  • CINEMA D’AUTORE
  • CONCLUSIONE: CHI E' LO SCENEGGIATORE CINEMATOGRAFICO?

IlCorto WORKSHOP Latina v6

Consigli e suggerimenti

  • 101 spunti creativi per l'arco narrativo del personaggio
  • 5 strategie chiave per scrivere film Sportivi migliori
  • I 45 archetipi narrativi che gli sceneggiatori dovrebbero padroneggiare
  • 10 regole per scrivere una sceneggiatura con un micro-budget
  • 25 anni dopo: perché la sceneggiatura di CAST AWAY funziona ancora
  • 3 giochi per trovare idee migliori per la tua sceneggiatura
  • La tua guida per sviluppare grandi idee per film (e cortometraggi)
  • 7 motivi per cui il "blocco dello scrittore" è una stronz@ta

Scrivere Sceneggiature

SCENEGG FORMA LoGnomo pag.2 07 9 22 v1 800

I Generi nel cinema

  • La PAURA. Come si può rappresentare la paura in un cortometraggio?
  • Cortometraggio B-Movie: guida completa al genere
  • Come realizzare un cortometraggio di genere Road Movie
  • Cosa si intende per Commedia Nera?
  • Le prime scene di un Corto: approcci diversi per generi diversi
  • Come realizzare un Cortometraggio Sperimentale
  • Perché è difficile scrivere una Sceneggiatura Comica

Immagini d'Archivio 2

Vuoi Collaborare?

Collaborazione_v3.jpg

Le Videocamere

  • Girare un Cortometraggio di qualità con la Canon EOS R8 e 24-70mm f/2.8
  • Fotocamere: caratteristiche che possono cambiare il tuo corto in 4K
  • Come fare un buon Cortometraggio con un corredo SONY
  • Cineprese vs Fotocamere 4K
  • Le 4 categorie principali di apparecchiature per riprese in 4K

Informazioni di Tecnica

  • Ultima fase: la Produzione effettiva di un cortometraggio
  • Uso del carrello nel cinema: tecnica, intenzioni e risultati
  • Percorso di crescita tecnica come Video Editor
  • La Profondità di Campo nel cinema
  • Capire il Sottocampionamento della Crominanza
  • Come diventare un buon Regista: La pratica rende perfetti

Gli Utenti Unici dal 15/1/2023 ad oggi

Italy 61,98692% Italy
United States of America 17,26996% United States of America
Unknown 16,49714% Unknown
Germany 0,89428% Germany
Spain 0,47840% Spain
Russian Federation 0,43792% Russian Federation
France 0,38450% France
Switzerland 0,36892% Switzerland
United Kingdom of Great Britain and Northern Ireland 0,17560% United Kingdom of Great Britain and Northern Ireland
India 0,09654% India
Albania 0,07834% Albania
Belgium 0,07714% Belgium
Netherlands 0,07618% Netherlands
China 0,07546% China
Singapore 0,07546% Singapore
Brazil 0,06995% Brazil
Japan 0,06923% Japan
Canada 0,05103% Canada
Ireland 0,04935% Ireland
Sweden 0,04695% Sweden
Austria 0,04528% Austria
Argentina 0,04312% Argentina
Poland 0,04025% Poland
Greece 0,03761% Greece
Portugal 0,03354% Portugal
San Marino 0,02923% San Marino
Australia 0,02779% Australia
Algeria 0,02300% Algeria
Turkey 0,02204% Turkey
Finland 0,02084% Finland
Romania 0,01940% Romania
Croatia 0,01940% Croatia
Mexico 0,01797% Mexico
Colombia 0,01629% Colombia
Egypt 0,01509% Egypt
Hungary 0,01461% Hungary
Malta 0,01389% Malta
Czechia 0,01342% Czechia
Luxembourg 0,01294% Luxembourg
Bulgaria 0,01246% Bulgaria
Slovenia 0,01198% Slovenia
Republic of Korea 0,01198% Republic of Korea
Denmark 0,01174% Denmark
Chile 0,01006% Chile
Peru 0,00934% Peru
Morocco 0,00910% Morocco
Thailand 0,00886% Thailand
Norway 0,00838% Norway
Hong Kong 0,00743% Hong Kong
XZ Ignoto 0,00743% XZ Ignoto
Ukraine 0,00719% Ukraine
Kazakhstan 0,00719% Kazakhstan
Tunisia 0,00695% Tunisia
United Arab Emirates 0,00671% United Arab Emirates
Philippines 0,00647% Philippines
Serbia 0,00551% Serbia
Iran 0,00503% Iran
Indonesia 0,00479% Indonesia
Viet Nam 0,00455% Viet Nam
Bosnia and Herzegovina 0,00455% Bosnia and Herzegovina
New Zealand 0,00431% New Zealand
Pakistan 0,00407% Pakistan
Dominican Republic 0,00407% Dominican Republic
Georgia 0,00383% Georgia
XE 0,00359% XE
Monaco 0,00359% Monaco
Israel 0,00359% Israel
Lithuania 0,00335% Lithuania
Slovakia 0,00335% Slovakia
Venezuela 0,00311% Venezuela
Estonia 0,00287% Estonia
Taiwan, Province of China 0,00264% Taiwan, Province of China
Iraq 0,00240% Iraq
Saudi Arabia 0,00240% Saudi Arabia
Malaysia 0,00240% Malaysia
Costa Rica 0,00216% Costa Rica
Bangladesh 0,00216% Bangladesh
Montenegro 0,00216% Montenegro
Latvia 0,00216% Latvia
Bolivia 0,00216% Bolivia
Moldova 0,00192% Moldova
North Macedonia 0,00192% North Macedonia
Iceland 0,00192% Iceland
Belarus 0,00192% Belarus
Lebanon 0,00168% Lebanon
Nigeria 0,00144% Nigeria
Cuba 0,00144% Cuba
Ecuador 0,00144% Ecuador
Uruguay 0,00144% Uruguay
Senegal 0,00144% Senegal
Maldives 0,00120% Maldives
Jordan 0,00120% Jordan
South Africa 0,00120% South Africa
Cyprus 0,00120% Cyprus
Kuwait 0,00120% Kuwait
Guatemala 0,00096% Guatemala
Uganda 0,00096% Uganda
Cambodia 0,00096% Cambodia
Oman 0,00096% Oman
Azerbaijan 0,00072% Azerbaijan
Isle of Man 0,00072% Isle of Man
Paraguay 0,00072% Paraguay
Bahrain 0,00072% Bahrain
Cabo Verde 0,00072% Cabo Verde
Puerto Rico 0,00072% Puerto Rico
Guadeloupe 0,00072% Guadeloupe
Lao People's Democratic Republic 0,00072% Lao People's Democratic Republic
Panama 0,00072% Panama
Cameroon 0,00072% Cameroon
Côte d'Ivoire 0,00072% Côte d'Ivoire
Mongolia 0,00048% Mongolia
Armenia 0,00048% Armenia
Burkina Faso 0,00048% Burkina Faso
Kenya 0,00048% Kenya
Qatar 0,00048% Qatar
Jamaica 0,00048% Jamaica
Turkmenistan 0,00048% Turkmenistan
Mauritius 0,00048% Mauritius
Uzbekistan 0,00048% Uzbekistan
Madagascar 0,00048% Madagascar
XK 0,00048% XK
Liechtenstein 0,00048% Liechtenstein
Tanzania 0,00048% Tanzania
Libya 0,00048% Libya
Nicaragua 0,00048% Nicaragua
Namibia 0,00048% Namibia
Ethiopia 0,00048% Ethiopia
Holy See 0,00048% Holy See
Mozambique 0,00048% Mozambique
Afghanistan 0,00024% Afghanistan
Aruba 0,00024% Aruba
State of Palestine 0,00024% State of Palestine
Syrian Arab Republic 0,00024% Syrian Arab Republic
Ghana 0,00024% Ghana
Congo 0,00024% Congo
Gabon 0,00024% Gabon
Honduras 0,00024% Honduras
Andorra 0,00024% Andorra
Democratic Republic of the Congo 0,00024% Democratic Republic of the Congo
El Salvador 0,00024% El Salvador
Kyrgyzstan 0,00024% Kyrgyzstan
Nepal 0,00024% Nepal
Niger 0,00024% Niger
Seychelles 0,00024% Seychelles

Total:

144

Countries
435898
Today: 138
Yesterday: 804
This Week: 5.187
Last Week: 6.021
This Month: 20.860
Last Month: 27.273
This Year: 136.094
Last Year: 234.019
Total: 435.898

Parliamo anche di Film

  • Temi di film maggiormente utilizzati
  • Realtà ed immaginazione al cinema
  • Quando i Silenzi valgono di più delle Parole
  • Perchè vedere oggi il film "GLI INDIFFERENTI" del regista Francesco Maselli
  • DAVID LYNCH: una visione che sfocia nell'INCONSCIO
  • Armand: premio per la migliore opera prima a Cannes 2024
  • Perché un film è giudicato in modo diverso dalla Critica e dal Pubblico
  • Come e perchè l'importanza dei dettagli e dei particolari è determinante in un film

Idee prese dalla realtà

  • Cortometraggi e sostenibilità: storie che ispirano un futuro più verde
  • Ti mancano le idee per girare un Cortometraggio?
  • Corti e malattie mentali: demistificare lo stigma attraverso la narrazione
  • Corti e identità di genere: sfidare gli stereotipi attraverso la narrazione
  • I Cortometraggi: strumenti per combattere il Cambiamento Climatico. Esempi
  • Dai fatti reali a basi per sceneggiature (pag. 2)
  • Dai fatti reali a basi per sceneggiature (pag. 1)
  • Credeva di aver fatto 6 al SuperEnalotto...

Info da Scuole & Workshop

  • Quali sono i migliori corsi di Cinema all'estero?
  • I 5 migliori Corsi di Cinema negli USA
  • Diventare FilmMaker: PCTO 2025 per il Liceo Artistico Via RIPETTA di Roma
  • Cinema a Scuola, un’opportunità da cogliere?
  • Novità alla Accademia Griffith: corsi brevi per lavorare nel cinema

Visto il successo...

FFF Locandina WORKSHOP 27maggio 3giugno 1000

Info sui Cortometraggi

  • Cortometraggio "Fár" finalista al Festival di Cannes 2023
  • Cortometraggio "Aunque es de Noche" finalista al Festival di Cannes 2023
  • Cortometraggio "La Perra" finalista al Festival di Cannes
  • Cortometraggio "Wild Summon" finalista al Festival di Cannes 2023
  • Cortometraggio "Tits" finalista al Festival di Cannes 2023

Libri da conoscere

  • “Gli occhi addosso” di Laura Capaccioli, edito da Europa Edizioni
  • L’ABC del linguaggio cinematografico di Arcangelo Mazzoleni
  • Manuale di storia del cinema di Gianni Rondolino, Dario Tomasi
  • Idee di cinema. L'arte del film nel racconto di teorici e cineasti
  • Il viaggio dell'eroe. La struttura del mito ad uso di scrittori di narrativa e di cinema, di Chris Vogler

Login Form

  • Password dimenticata?
  • Hai dimenticato il tuo nome utente?

Incontri con...

  • Come scrivere un dramma erotico complesso come "Babygirl"
  • 5 caratteristiche dei film di John Carpenter
  • Intervista al regista JOHN CAMERON MITCHELL
  • Zoe Vitale: Come ho imparato ad amare i film Horror
  • Le Fotografie di Leo Fuchs

... qui Tutto il Resto

  • “Arzo 1943” di Ruben Rossello, una proiezione di Storie
  • Viaggia, esplora e scatta con Leica
  • Costi Sopra e Sotto la linea: panoramica
  • Chi vuole dalla autobiografia “Gli occhi addosso” produrre un film?
  • Se ne stanno andando i più grandi del Cinema, Teatro, Televisione

Rimozione e Loghi

Rimossi v.2

L'INFINITO F.F. 2024

Manifesto LINFINITO v13 RPDM1300

Associazione Culturale no-profit  ILCORTO.IT   -  Sito: ILCORTO.EU   -  L'ENCICLOPEDIA DEI CORTOMETRAGGI   -  Email: info@ilcorto.eu   -  Cell.: 378 083 4501  -   ©2010-2025